E Dopo Il Commiato Dal Vivo, Ecco L’Addio Definitivo! The Pretty Things – Bare As Bone, Bright As Blood

pretty things bare as bones

The Pretty Things – Bare As Bone, Bright As Blood – Madfish/Snapper CD

Quando nel mese di febbraio ho recensito The Final Bow, bellissimo cofanetto che documentava lo show londinese dei Pretty Things che sanciva il loro addio alle scene https://discoclub.myblog.it/2020/02/18/cofanetti-autunno-inverno-18-lultimo-ruggito-di-una-piccola-grande-band-the-pretty-things-the-final-bow/ , non avrei pensato che dopo pochi mesi avrei dovuto parlare ancora di loro a causa della scomparsa per complicazioni sopravvenute dopo una banale caduta dalla bicicletta del cantante Phil May https://discoclub.myblog.it/2020/05/17/dopo-lultimo-saluto-il-commiato-definitivo-e-morto-phil-may-leader-dei-pretty-things/ , unico membro fondatore ancora nel gruppo oltre al chitarrista Dick Taylor (May e Taylor, proprio come i componenti rimasti in un’altra band inglese “leggermente” più popolare). Fortunatamente i nostri avevano fatto in tempo a completare un nuovo album in studio, il primo da cinque anni a questa parte ed appena il quarto negli ultimi quarant’anni: e Bare As Bone, Bright As Blood, a parte la copertina che sembra la locandina di un film horror, è senza mezzi termini un grande disco, un commiato splendido per una band che non ha mai avuto troppi riconoscimenti nel corso della carriera.

I PT infatti sono sempre stati considerati una band di seconda o terza fascia, fin dagli esordi in stile rhythm’n’blues ed anche durante il loro periodo psichedelico in cui hanno prodotto i loro due dischi più noti, S.F. Sorrow (considerata la prima “rock opera” della storia) e Parachute, ed anche le vendite non sono mai state esaltanti, ma con questo ultimo album May e Taylor si sono superati consegnandoci un lavoro profondo, sofferto, scarno nei suoni ma dal feeling molto alto, un disco decisamente improntato sul blues, che è stato il loro primo amore (il nome Pretty Things è preso da un brano di Bo Diddley). Dedicato a May (ricordato con parole commosse nel booklet interno dal produttore ed ex membro della band Mark St. John), Bare As Blood, Bright As Blood è come suggerisce il titolo un disco dalla veste sonora spoglia ed essenziale, ma con una serie di canzoni di una bellezza cristallina: ci sono solo due originali (non composti però dai due leader) e dieci cover di brani originariamente non solo blues, con una divisione netta tra pezzi antichi e moderni.

Dicevo della strumentazione parca: Taylor si occupa di quasi tutte le parti di chitarra, siano esse acustiche, elettriche o slide, coadiuvato qua e là dalle sei corde di Sam Brothers (anche all’armonica), Henry Padovani e George Woosey ed occasionalmente dal violino di Jon Wigg. Tutto qui, non ci sono neanche basso e batteria, ma le eventuali mancanze sonore sono ampiamente bilanciate dalla bravura e dal sentimento che i nostri mettono in ogni canzone contribuendo così ad una perfetta chiusura del cerchio, terminando cioè la carriera con un omaggio al genere musicale (il blues) che era la loro passione di gioventù. Il CD inizia con due blues tradizionali: Can’t Be Satisfied (resa popolare da Muddy Waters), introdotta da una goduriosa slide acustica subito doppiata dalla voce di May che assume tonalità da vero bluesman, un brano puro e rigoroso ma eseguito col cuore, e Come Into My Kitchen, un pezzo solitamente associato a Robert Johnson che ha la medesima veste sonora del precedente ma è più lento e quasi strascicato, con un’eccellente performance di Taylor e May che sembra che non abbia mai fatto altro che cantare il blues (e l’armonica dona il tocco in più). Ain’t No Grave è un’antica gospel song (l’ha incisa anche Johnny Cash, e dava anche il titolo al suo sesto album degli American Recordings, uscito postumo), ma qui viene trasformata in un puro blues del Delta, ancora per sola voce, chitarra ed armonica: se non fosse per il timbro di May sembrerebbe di ascoltare un vecchio LP di Mississippi John Hurt.

Love In Vain è uno dei brani più noti tra quelli scritti da Robert Johnson, e qui viene proposto in maniera fedele ma non scolastica, con un ottimo interplay chitarristico tra Taylor e Brothers. La sofferta Black Girl è un vecchio pezzo che Lead Belly ha reso famoso col titolo di In The Pines, ed è l’unica a presentare una percussione a scandire il tempo (suonata da St. John), mentre I’m Ready è il brano più noto tra quelli “antichi” essendo uno dei classici di Willie Dixon, ed i nostri la rifanno in maniera vivace e grintosa nonostante l’assenza della sezione ritmica. E veniamo ai pezzi moderni, che iniziano con la scelta più sorprendente, cioè la cover di Faultline del gruppo alternative rock Black Rebel Motorcycle Club, una canzone radicalmente trasformata in un bluesaccio elettroacustico teso come una lama, molto diretto pur nel suo essere spoglio strumentalmente: una rielaborazione creativa e decisamente riuscita. Redemption Day è invece un brano di Sheryl Crow in cui i nostri abbandonano momentaneamente il blues per regalarci una ballata folk elettrificata suggestiva e dal notevole impatto emotivo, con almeno tre chitarre e la voce di May più cavernosa che mai; rimaniamo in ambito folk con la splendida The Devil Had A Hold On Me, canzone di Gillian Welch che ha già di suo le caratteristiche di un vecchio traditional, ma il pathos cresce ulteriormente in questa rilettura da brividi che mi ricorda addirittura i Led Zeppelin quando facevano brani elettroacustici: tra gli highlights del CD.

Bright As Blood è scritta per i Pretty Things dal loro chitarrista Woosey, una folk tune d’altri tempi con la voce di Phil accompagnata da chitarra acustica, banjo e violino, un perfetto esempio di brano tradizionale appalachiano composto però ai giorni nostri. Concludono un disco puro, bellissimo e perfino sorprendente To Build A Wall (del misconosciuto cantautore Will Varley), ballata acustica dalla melodia struggente cantata con un feeling davvero rimarchevole, e la nuova Another World (scritta da tale Pete Harlen), un lento rilassato e disteso caratterizzato da uno script solido e profondo. Forse i Pretty Things non sono mai stati una band indispensabile, almeno se paragonati ai gruppi contemporanei degli anni sessanta, ma questo loro album di congedo è una zampata da veri fuoriclasse e, molto probabilmente, il punto più alto della loro discografia.

Marco Verdi

Dopo L’Ultimo Saluto, Il Commiato Definitivo: E’ Morto Phil May, Leader Dei Pretty Things.

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Un paio di giorni fa è scomparso all’età di 75 anni Phil May, leader, cantante e paroliere principale dei Pretty Things, band inglese che ha avuto il suo momento migliore negli anni sessanta senza però mai trovare il vero successo. Mi ero occupato di loro recentemente in quanto negli ultimi mesi dello scorso anno i PT (i cui unici due membri originali ancora all’interno del gruppo erano lo stesso May ed il chitarrista Dick Taylor) avevano pubblicato The Final Bow, splendido cofanetto che documentava il loro ultimo concerto tenutosi a Londra nel dicembre del 2018, con ospiti eccellenti del calibro di David Gilmour e Van Morrison. Dopo il loro ritiro dalle scene non pensavo di dover tornare così presto a parlare del gruppo, soprattutto a causa di un fatto così triste: tra l’altro, per essere uno che negli anni sessanta sbandierava più o meno ai quattro venti la sua bisessualità ed il fatto di avere l’abitudine di “aprirsi” la mente mediante l’uso di droghe (oltre alla convinzione di essere la rockstar con i capelli più lunghi in assoluto!), May ha avuto una morte molto poco “rock”, cioè a causa di complicazioni a seguito di un’operazione al bacino per una rovinosa caduta dalla bicicletta. Voglio quindi ricordare May “riciclando” la prima parte della mia recensione originale di The Final Bow: se volete rileggere il post completo questo è il link https://discoclub.myblog.it/2020/02/18/cofanetti-autunno-inverno-18-lultimo-ruggito-di-una-piccola-grande-band-the-pretty-things-the-final-bow/. 

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*NDB Le foto del Post sono tratte dal suo sito. All’inizio, come era nel suo periodo di massimo splendore, questa sopra, forse un po’ impietosa rispetto ad altre rockstars molto “leccate”, come era oggi, anche se aveva comunque, come ricordato, 75 anni.

Ci sono gruppi che hanno attraversato la cosiddetta “golden age of rock’n’roll” da comprimari, conquistandosi al massimo una nota a pié di pagina nelle enciclopedie ed assaporando un successo inversamente proporzionale alla loro bravura: quelle che oggi vengono definite band di culto, per intenderci. Uno dei nomi oggi più dimenticati in tal senso è quello dei Pretty Things, gruppo inglese originario del Kent attivo dalla metà degli anni sessanta inizialmente con una miscela di rock ed errebi equiparabile ai primi Moody Blues, agli Animals, agli Stones, ma anche ai Them, e che poi inserì nel suo suono elementi psichedelici senza tuttavia dimenticare l’amore originario per il blues (il loro nome è ispirato ad una canzone di Bo Diddley, loro grande idolo); i nostri non ebbero mai un grande successo neppure nei sixties, con l’esordio del 1965 unico album ad entrare nella Top Ten (leggermente meglio, ma non troppo, con i singoli), e con il loro capolavoro S.F. Sorrows del 1968 (considerata la prima opera rock di sempre, in anticipo di un anno su Tommy degli Who) che non entrò neanche nella Top 100!

Ma i PT, scioltisi all’inizio degli anni ottanta e riformatisi alla fine del vecchio millennio, hanno sempre continuato imperterriti a fare la loro musica, ed il 13 Dicembre del 2018 hanno deciso di dare l’addio alle scene in grande stile, con un magnifico concerto tenutosi al Teatro 02 Indigo di Londra, serata documentata in uno splendido cofanetto intitolato The Final Bow che in due CD, altrettanti DVD ed un vinile da dieci pollici (esiste anche una versione in doppio LP, ma con il concerto incompleto) ci offre una eccellente panoramica sul meglio della loro storia. Gli unici due membri originari sono il cantante Phil May ed il chitarrista Dick Taylor (coadiuvati dai più giovani Frank Holland, chitarra, George Woosey, basso e Jack Greenwood, batteria), i quali nonostante l’età e l’apparente fragilità fisica sul palco sono ancora in grado di dire la loro alla grande. The Final Bow è quindi un grande live album, in cui i Pretty Things si autocelebrano con stile ma anche tanta grinta, suonando con una foga degna di un gruppo di ragazzini, ed in più con diverse sorprese ad effetto durante tutto lo show. Tanto rock’n’roll, ma anche parecchio blues e qualche sconfinamento nella psichedelia, specie nel momento dello show dedicato a S.F. Sorrows.

*NDB Bis Questo sotto è stato il loro singolo di più grande successo, al 10° posto delle classifiche inglesi nel 1964.

Nel frattempo è uscita anche la notizia (sul Guardian) che i Pretty Things avevano sorprendentemente completato un album con nuove canzoni, il primo da The Sweet Pretty Things (Are In Bed Now, Of Course) (titolo che riprende la prima frase del testo di Tombstone Blues di Bob Dylan) uscito nel 2015, e che la pubblicazione è prevista entro fine 2020: sarà il modo migliore per celebrare la figura di Phil May.

Marco Verdi

Cofanetti Autunno-Inverno 18. L’Ultimo Ruggito Di Una Piccola Grande Band. The Pretty Things – The Final Bow

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The Pretty Things – The Final Bow – Madfish/Snapper 2CD/2DVD/10” LP Box Set

Ci sono gruppi che hanno attraversato la cosiddetta “golden age of rock’n’roll” da comprimari, conquistandosi al massimo una nota a pié di pagina nelle enciclopedie ed assaporando un successo inversamente proporzionale alla loro bravura: quelle che oggi vengono definite band di culto, per intenderci. Uno dei nomi oggi più dimenticati in tal senso è quello dei Pretty Things, gruppo inglese originario del Kent ,attivo dalla metà degli anni sessanta inizialmente con una miscela di rock ed errebì equiparabile ai primi Moody Blues, agli Animals ma anche ai Them (e soprattutto ai Rolling Stones, in quanto Dick Taylor, insieme a Jagger e Richardsfu il primo chitarrista di una band chiamata Little Boy Blue and the Blue Boys, che con l’ingresso di Brian Jones  sarebbero diventati appunto gli Stones, mentre Taylor insieme a Phil May avrebbe fondato i Pretty Things): PT che che poi inserirono nel loro suono elementi psichedelici, senza tuttavia dimenticare l’amore originario per il blues (il nome è ispirato da una canzone di Bo Diddley, loro grande idolo); i nostri non ebbero mai un grande successo neppure nei sixties, con l’esordio del 1965 unico album ad entrare nella Top Ten (leggermente meglio, ma non troppo, con i singoli), e con il loro capolavoro S.F. Sorrows del 1968 (considerata la prima opera rock di sempre, in anticipo di un anno su Tommy degli Who) che non entrò neanche nella Top 100!

Ma i PT, scioltisi all’inizio degli anni ottanta (dopo avere inciso negli anni ’70 per la Swan Song, l’etichetta dei Led Zeppelin) scioltisi alla fine del vecchio millennio, hanno sempre continuato imperterriti a fare la loro musica, ed il 13 Dicembre del 2018 hanno deciso di dare l’addio alle scene in grande stile, con un magnifico concerto tenutosi al teatro 02 Indigo di Londra, serata documentata in questo splendido cofanetto intitolato The Final Bow che in due CD, altrettanti DVD ed un vinile da dieci pollici (esiste anche una versione in doppio LP, ma con il concerto incompleto) ci offre una eccellente panoramica sul meglio della loro storia. Gli unici due membri originari sono appunto il cantante Phil May ed il chitarrista Dick Taylor (coadiuvati dai più giovani Frank Holland, chitarra, George Woosey, basso e Jack Greenwood, batteria), i quali nonostante l’età e l’apparente fragilità fisica sul palco sono ancora in grado di dire la loro alla grande. The Final Bow è quindi un grande live album, in cui i Pretty Things si autocelebrano con stile ma anche tanta grinta, suonando con una foga degna di un gruppo di ragazzini, ed in più con diverse sorprese ad effetto durante tutto lo show. Tanto rock’n’roll, ma anche parecchio blues e qualche sconfinamento nella psichedelia, specie nel momento dello show dedicato a S.F. Sorrows.

Introdotti dal loro ex batterista ed ora maestro di cerimonie Mark St. John, i nostri iniziano con due energiche versioni dei due singoli più popolari, Honey, I Need e Don’t Bring Me Down, puro rock’n’roll perfetto per riscaldare da subito l’atmosfera (e Taylor fa vedere di essere un chitarrista notevole). La ritmata ed annerita Buzz The Jerk (caspita se suonano) precede il primo di vari omaggi a Diddley con una potente versione di Mama, Keep Your Big Mouth Shut, in uno stile giusto a metà tra errebi e rock. Lo show prosegue in maniera sicura e fluida con trascinanti riletture dell’orecchiabile Get The Picture?, pop song suonata con grinta da garage band, la goduriosa The Same Sun, i nove splendidi minuti del medley Alexander/Defecting Grey, rock-blues tostissimo dal tocco psichedelico e prestazione incredibile di Taylor, una robusta riproposizione del classico di Jimmy Reed Big Boss Man, una vitale Midnight To Six Man, che ha dei punti in comune con il suono dei Them, e la guizzante Mr. Evasion. La seconda parte dello spettacolo vede una selezione di brani proprio da S.F. Sorrows, con May e Taylor che vengono raggiunti sul palco dagli altri tre ex compagni presenti sull’album originale, cioè John Povey, Wally Waller e Skip Allan; ma le sorprese non finiscono qui, in quanto dopo la breve intro di Scene One ed una cristallina S.F. Sorrows Is Born i nostri chiamano sul palco David Gilmour: l’ex Pink Floyd sarà anche invecchiatissimo ma con la chitarra in mano è ancora un portento, e si inserisce alla perfezione all’interno della band per strepitose versioni, tra rock e psichedelia d’annata, di She Says Good Morning, Baron Saturday, Trust e I See You, per poi chiudere il secondo set con i sette minuti di Cries From The Midnight Circus (che però proviene dall’album Parachute del 1970), rock chitarristico della miglior specie.

La terza ed ultima parte inizia a tutto blues con due toniche Can’t Be Satisfied (Muddy Waters) e Come In My Kitchen (Robert Johnson), entrambe in riletture acustiche con Dick bravissimo anche alla slide, due pezzi che preparano all’altra grande sorpresa della serata, cioè l’arrivo di sua maestà Van Morrison, il quale presta la sua inimitabile voce in ben tre brani, il classico deiThem Baby, Please Don’t Go ed altri due omaggi a Bo Diddley con I Can Tell e You Can’t Judge A Book By Its Cover: tre canzoni che da sole valgono gran parte del prezzo richiesto per il box (che tra parentesi non è bassissimo). La serata volge al termine, il tempo per una diretta e roccata Come See Me e per due monumentali riletture di Mona (ancora Diddley) e del medley L.S.D./Old Man Going (di nuovo con Gilmour on stage), ben tredici minuti ciascuna, il modo migliore per i nostri di dire addio al loro pubblico. Ma non è finita, in quanto c’è tempo ancora per due brevi bis con Rosalyn, il loro primo singolo in assoluto, e con la bella e toccante Loneliest Person, che in origine chiudeva S.F. Sorrows e in quella serata invece chiude la carriera concertistica dei Pretty Things. I due DVD offrono la versione video del concerto sia “edited” che “uncut”, oltre che un documentario, mentre il vinile, molto interessante, presenta su un lato cinque brani dello show scelti dalla band e sull’altro gli stessi pezzi nella loro versione originale.

Ormai è tardi per le classifiche dei migliori del 2019, ma questo The Final Bow è “senzadubbiamente” (per dirla con Antonio Albanese) uno dei live più belli dell’anno appena trascorso.

Marco Verdi