Sempre Lui, Il Classico “Guitar Hero” Colpisce Ancora! Philip Sayce – Scorched Earth Volume 1

philip sayce scorched earth volume 1

Philip Sayce – Scorched Earth Volume 1 – Warner Music Canada

Di Philip Sayce, chitarrista nato in Galles, ma cresciuto in Canada, e in quella scena musicale molto apprezzato (grande amico di Jeff Healey, di cui è una sorta di discepolo, anche se un filo più “tamarro”), mi sono già occupato in altre occasioni, l’ultima volta per Influence il disco del 2014, ma come ho detto appunto in quella recensione  http://discoclub.myblog.it/2014/08/24/nuovo-capitolo-della-serie-bravo-basta-philip-sayce-influence/ (nonostante l’album fosse prodotto da Dave Cobb, che firmava anche alcuni brani con Philip), non mi ha mai convinto del tutto: intendiamoci, grande tecnica, una sana propensione verso un repertorio tendente al rock-blues, una eccellente presenza scenica, forgiata in lunghi anni sui palcoscenici di tutto il mondo come chitarrista della band di Melissa Etheridge. Insomma il classico “guitar hero”, sempre però della categoria Esagerati (con la E maiuscola): ma questa volta, nella dimensione Live, forse trova quasi una sorta di consacrazione, anche per chi non lo ama alla follia, ma lo rispetta, come il sottoscritto.

Come dice il titolo dovrebbe essere il primo volume (di una serie?): registrato dal vivo proprio in Canada, alla Silver Dollar Room di Toronto, città dove risiede, con una formazione triangolare, il classico power trio, in cui Joel Gottschalk è il fedele bassista, da molti anni con lui, mentre il batterista di solito è Jimmy Paxson, uno che ha suonato con Alanis Morissette, Dixie Chicks e Stevie Nicks, ma per l’occasione è sostituito da Kiel Feher. Forse l’unico difetto (o è un pregio, così non ci si annoia) è la durata del dischetto, solo 7 brani, per una durata totale di circa 40 minuti. L’influenza principale mi pare Jimi Hendrix (e per proprietà transitiva il suo discepolo Stevie Ray Vaughan) ma ci sono anche elementi del classico hard-rock, sia britannico che americano, anni ’70: Steamroller – Powerful Thing parte subito forte, una introduzione voce e chitarra, poi ci si tuffa in un power trio tirato anziché no, dove si apprezza anche la voce, piacevole quantunque non eccelsa di Sayce, il classico shouter rock, che poi però inizia a sciorinare il suo repertorio fatto di pirotecniche cavalcate soliste, dove oltre a Jimi, rivivono altri epigoni, come Frank Marino, lo stesso Jeff Healey (che però aveva un’altra classe), naturalmente SRV, di cui è ancora più evidente l’influenza nella successiva, poderosa, Blues Ain’t Nothing But A Good Woman On My Mind (pezzo di Don Covay), dove il nostro amico rivaleggia con gente come Bonamassa, Kenny Wayne Shepherd, Eric Gales e soci, una bella compagnia, in cui Philip non sfigura assolutamente.

Standing Around Crying/Aberystwyth è un eccellente slow blues in medley, il primo brano di Mastro Muddy Waters,  sognante e liquido, in cui Sayce disvela tutta la sua tecnica, ma anche un eccellente feeling, in un lungo assolo con wah-wah di proporzioni pantagrueliche, un brano che poi ricorda, nel titolo della seconda parte, la città natale del gallese. Beautiful, come il brano di apertura, viene dal disco del 2012 Steamroller, un piacevole e ritmato funky-rock, tre minuti senza infamia e senza lode, mentre A Mystic ha una grinta e una stamina notevoli, un brano tirato, con qualche elemento alla Rory Gallagher, la solita chitarra fiammeggiante e la sezione ritmica che ci dà dentro di brutto, fino all’avvento di un wah-wah forsennato, tirato allo spasimo, e che Hendrix probabilmente avrebbe approvato. Influenza ancora più evidente nel centrepiece dell’esibizione, una Out Of My Mind, epitome del perfetto pezzo per power trio, duro e tirato, a colpi di riff, con lunga improvvisazione della chitarra solista, che nel suo procedere a un certo punto cita, immancabilmente, anche il riff di Third Stone From The Sun e altre delizie di Jimi Hendrix, che però, con il dovuto rispetto per Philip Sayce, era un’altra cosa, anche se il canadese si fa rispettare con il suo stile fluido e potente., e pure Gottschalk e Paxson non scherzano. In conclusione Alchemy, un lungo brano strumentale che Sayce dedica alla moglie, di nuovo un eccellente slow blues dove si apprezza il lato più riflessivo e tecnico della sua musica: insomma sarà pure “esagerato” ma non si può negare che sia bravo.

Bruno Conti

Sempre Pochi, Ma Sempre Buoni! Peter Wolf – A Cure For Loneliness

peter wolf a cure for loneliness

Sono passati altri sei anni dalla pubblicazione del precedente album di Peter Wolf Midnight Souvernirs, ma il titolo e il contenuto del Post che avevo usato per quel disco http://discoclub.myblog.it/2010/04/10/pochi-ma-buoni-peter-wolf-midnight-souvenirs/, rimangono sempre validi. L’ex cantante della J.Geils Band rimane fedele alla sua cadenza temporale (addirittura il terz’ultimo Sleepless risaliva al 2002), ma anche alla assoluta qualità dei suoi dischi. Al contrario di quanto era accaduto nel periodo precedente, quello che era venuto con i primi album solisti negli anni ’80 e fino all’incirca alla metà degli anni ’90, i dischi di Wolf si erano concessi, come pure gli ultimi con il suo suo gruppo, la citata J. Geils Band, ad un suono commerciale, tamarro ed inconsistente. Poi non so se il cantante di New York abbia trovato la “cura per la solitudine”, ma sicuramente quella per la buona musica sì.Il 7 marzo ha compiuto 70 anni ma, con i suoi ritmi tranquilli, continua a regalarci ottimi album: questo A Cure For Loneliness, che è solo l’ottavo in una carriera ultra trentennale, conferma l’eccellenza e l’eclettismo sonoro espressi con Midnight Souvenirs. Al solito nel menu troviamo rock, ballate suadenti tra il soul e lo stile da crooner, l’amato blues e tracce di pop raffinato e di gran classe, addirittura c’è una rivisitazione in chiave Appalachiana e bluegrass (come la presenta lui) del vecchio classico della J. Geils Band Love Stinks.

Sono solo 37 minuti di musica, 12 brani perfetti, non un secondo sprecato: il disco si apre sulla splendida Rolling On, una canzone soffusa e dall’atmosfera raffinata, scritta come altro quattro con il suo collaboratore da lunga pezza Will Jennings, ed arrangiata in modo sublime dal suo tastierista Kenny White, che è anche il co-produttore del CD, i tocchi di piano e delle tastiere, il lavoro della sezione ritmica, Marty Ballou al basso e Shawn Pelton alla batteria, le note mirate dei due chitarristi Duke Levine Kevin Barry, il delicato sostegno delle armonie vocali di Jeff Ramsey Athene Wilson, tutto contribuisce a sostenere il cantato mirabile di Wolf e gli equilibri sonori di questo brano di grande fascino. It Was Always So Easy (To Find an Unhappy Woman) è una oscura cover di un brano dei primi anni ’70, dal repertorio di Moe Bandy, che pure ebbe qualche successo minore all’epoca (erano gli anni della J. Geils Band), ma la genialità di Wolf sta nell’averla trasformata in una canzone che sembra provenire dal Bob Dylan o dagli Stones più “campagnoli”, tra scivolate di organo alla Al Kooper, rintocchi di armonica, una slide malandrina e una solista pungente, e anche quell’aria vagamente honky-tonk country, e il tutto compresso nei 3 minuti scarsi del pezzo, geniale. Peace Of Mind, di nuovo dell’accoppiata Wolf/Jennings è una soul ballad deliziosa, tipo le cose più ispirate del Willy DeVille  romantico e newyorkese, omaggiato da Wolf nel precedente Midnight Souvenirs.

Dopo un trittico così uno potrebbe aspettarsi un calo di tensione, ma la successiva How Do You Know ci riporta al blues più canonico della prima J. Geils Band, con l’aggiunta della seconda chitarra di Larry Campbell, il pianino indiavolato di White, i fiati degli Uptown Horns, lo stesso Peter all’armonica, nel ruolo che fu del suo vecchio pard Magic Dick, ci dimostra come si suona il blues a tempo di boogie, con le due coriste Ada Dyer e Catherine Russell che lo spalleggiano alla grande, e non è una oscura cover, ma un brano nuovo scritto per l’occasione. Fun For A While è un’altra ballata splendida, con una “weeping pedal steel” e una fisarmonica che alzano il tasso malinconico della canzone, notturna e raccolta, non per nulla i musicisti della sua band, quando sono in tour, si fanno chiamare Midnight Travelers. E proprio a proposito di tour Wastin’ Time, il brano successivo, è registrato dal vivo, di fronte ad un pubblico selezionato, si è soliti dire, un’altra canzone eccellente, un pezzo rock che ci riporta al vecchio sound della J. Geils Band, di nuovo in un suono che è un misto tra Dylan e Stones, di cui nei gloriosi anni di inizio carriera la band di Boston era orgogliosa pari e controparte americana.

Some Other Time, Some Other Place, l’ultimo pezzo firmato dalla coppia Wolf e Jennings vira verso un approccio più acustico, con Larry Campbell alla pedal steel, ma anche al violino, la moglie Teresa Williams alle armonie vocali, Tony Garnier che fa una comparsata al basso e il pezzo, non esagero, lentamente assume uno svolgimento non dissimile da certe cose del Van Morrison più bucolico o dei Waterboys, c’è anche un mandolino sullo sfondo per confermare questo approccio quasi folk, altra canzone splendida. E pure la successiva non scherza: questa volta Peter Wolf ha chiamato Don Covay (quello che ha scritto, per citarne un paio, Mercy Mercy Chain Of Fools, nel frattempo scomparso nel gennaio 2015) per scrivere con lui un omaggio ad un altro grande della musica soul come Bobby Womack, che la doveva cantare in duetto con Peter, ma nel frattempo se ne era andato pure lui. Niente paura, la canzone è rimasta una meravigliosa ode alla soul music più pura e gioiosa, con una spruzzata di fiati e Wolf che canta splendidamente, come d’altronde nel resto dell’album, Non ho detto il titolo? Questo gioiellino si chiama It’s Raining.

L’altro pezzo registrato dal vivo è la cover a tempo di bluegrass di Love Stinks, il più grande successo della J.Geils Band, che se devo dire mi piace molto di più in questa versione che in quella originale, divertente ed irresistibile, con il mandolino di Duke Levine che viaggia a tutta velocità. Mr. Mistake sembra un pezzo alla Buster Poindexter (vi ricordate, David Johansen quando aveva deciso di rendere omaggio alla vecchia musica swing e big band?), e lo fa, senza fiati, ma con la consueta grinta e classe. Che non mancano anche nel pezzo da crooner Tragedy, altra oscura canzone, pure nel repertorio di Brenda Lee Fleetwoods, ma che fu un successo, l’unico, per tale Thomas Wayne & The DeLons, la versione del disco è piacevolissima, con Wolf circondato dalle voci femminili della due bravissime cantautrici Rose Polenzani Kris Delmhorst, qui in una veste insolita. E l’ultima cover è altrettanto “oscura”: una versione, brevissima, un minuto e mezzo, di un vecchio pezzo country, Stranger, dal repertorio di Lefty Frizzell (mi pare la facesse anche Rosie Flores): solo la chitarra acustica di Duke Levine e la voce di Peter Wolf. Diciamo che gli ultimi tre pezzi, anche se comunque piccole delizie sonore, abbassano lievemente la qualità dell’album, che sarebbe quasi da 4 stellette nel suo insieme, ma rimane ottimo, e pensate che pur essendo della major Concord/Unversal non è stato neppure pubblicato in Europa, è solo import dagli States. Adesso aspettiamo il prossimo, speriamo fra meno di 6 anni!

Bruno Conti.