Dal Sud Degli Stati Uniti Ancora Ottima Musica Da Un Artista Di Culto. Randall Bramblett – Pine Needle Fire

randall bramblett pine needle fire

Randall Bramblett – Pine Needle Fire – New West

Ogni tanto leggendo Wikipedia si apprendono notizie “interessanti”: per esempio che il nostro amico Randall Bramblett ha una carriera che ha attraversato tre decadi, ma considerando che è in attività dai primi anni 70, direi che sono sette decadi, in più si apprende che il suo genere musicale sta tra folk (?!?), pop/rock, acoustic, adult alternative, mentre leggendo sul suo sito, in quanto si presume che almeno lui sappia che tipo di musica faccia, leggiamo di Americana, Blues, Funk, R&B/Soul e Rock (magari southern, visto che è stato in passato un componente dei Sea Level). Dato a Cesare quel che è di Cesare, e a Randall quel che è di Bramblett, ancora una volta il musicista di Jesup, Georgia, ci regala un altro bel disco, dopo Juke Joint At The End Of The World del 2017 https://discoclub.myblog.it/2017/09/05/un-sudista-anomalo-randall-bramblett-juke-joint-at-the-edge-of-the-world/, ecco l’ottavo CD per la New West negli anni 2000.

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Tastierista e cantante, oltre che sassofonista, Bramblett ha una bella voce, rauca e vissuta e si scrive le proprie canzoni, 12 in questo caso, facendosi aiutare dagli stessi musicisti del precedente CD: Nick Johnson alla chitarra elettrica, Michael C. Steele al basso, Seth Hendershot alla batteria e Gerry Hansen alle percussioni, in più come ospite alla chitarra David Causey, con lui sin dai tempi dei Sea Level, Tommy Talton dei Cowboy, che suona la vecchia Gibson SG di Duane Allman in modalità slide nel brano I’ve Got Faith In You, una piccola sezioni fiati e nella title track gli archi, oltre a Betsy Franck alle armonie vocali. Some Poor Soul, chitarra trattata, basso “grasso”, piano elettrico e fiati in evidenza, percussioni e batteria in spolvero, nonché le armonie vocali corpose dei componenti la band e della Franck, ricorda il suono del suo vecchio amico Stevie Winwood https://www.youtube.com/watch?v=WYwbosqIfH0 , con il quale ha collaborato in passato; Rocket To Nowhere, loop di batteria e synth non fastidiosi in apertura, poi diventa un altro funky-jazz-southern rock che ricorda i vecchi Sea Level, con sax e tromba, oltre alle tastiere di Randall, a menare le danze https://www.youtube.com/watch?v=Ops3SUa7fh0 .

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La lunga e soave title track ha delle sonorità sognanti e futuribili, con il Fender Rhodes di Bramblett e chitarre backwards e synth atmosferici a punteggiare la melodia di questa ballata, che nel corso del brano si anima e vede nel finale anche l’ingresso degli archi https://www.youtube.com/watch?v=6OinUsBKNQY . In Lazy (And I Know It), sempre su queste coordinate sonore, ritmi più serrati, Randall va anche di falsetto, sostenuto dalla brava Betsy Franck, Even The Sunlight con un bel drive della batteria, è più mossa e con doppia chitarra, e qualche rimando al suono degli Steely Dan, contemporanei dei Sea Level, grazie agli arrangiamenti intricati e a un acido assolo della chitarra solista https://www.youtube.com/watch?v=NvYtLk0UMKM , I’ve Got Faith In You è il brano nel quale Talton suona la chitarra di Duane, un sincero esempio del vecchio southern rock dei 70’s, con un testo presentato come una risposta a Forever Young di Dylan, molto suggestiva grazie all’insinuante lavoro della slide di Talton e alla seconda voce della Franck https://www.youtube.com/watch?v=huPU4TTrWMw .

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Another Shining Moment, con Causey aggiunto che va di slide, quasi alla George Harrison. è un pezzo dai retrogusti sudisti, di nuovo con falsetti gospel sullo sfondo e una calda interpretazione vocale di Bramblett e e Co https://www.youtube.com/watch?v=u_gwhzem9x4 ., molto piacevole anche la funky Manningtown che spinge sul groove, con chitarrine insinuanti anche wah-wah e piano elettrico e organo a dettare i tempi https://www.youtube.com/watch?v=DLzzyPqZUyU , insieme ai fiati, Built To Last decisamente più sul versante rock corale dimostra una volta di più la versatilità e la classe di questo musicista, ancora con Causey in aiuto con la sua solista insinuante, prima di tornare al funky/R&B con la mossa e fiatistica Don’t Get Me Started sempre vicina agli stilemi di Donald Fagen. In chiusura prima Never Be Another Day che coniuga rootsy rock e deep soul in modo brillante, grazie ancora alla Franck https://www.youtube.com/watch?v=nbMsbyuiwF0 , e l’ultimo brano con la presenza di Causey My Lucky Day insiste con questa riuscita miscela di generi che è la carta vincente di questo ennesimo ottimo album di Randall Bramblett. In attesa di nuovi dischi di Winwood e Fagen “accontentiamoci”.

Bruno Conti

Un “Eroe” Musicale Delle Due Coste? Michael McDonald – Wide Open

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Michael McDonald – Wide Open – BMG

Michael McDonald, da St. Louis, Missouri, è stato per certi versi, come Garibaldi fu “l’eroe dei due mondi”, una sorta di “eroe” musicale delle Due Coste, prima, ad inizio carriera, su quella orientale, come membro aggiunto degli Steely Dan, poi della West Coast, quando nel 1976 entrò nei Doobie Brothers come sostituto di Tom Johnson. In entrambe le band il suo stile si ispirava comunque alla soul music, se vogliamo il cosiddetto “blue eyed soul”, più raffinato e composito quello della band di Donald Fagen, più vicino al pop e al soft-rock nel gruppo californiano. Se devo essere sincero io ho sempre amato molto di più i Doobies quando facevano del sano rock misto a country e blues, quelli del primo periodo, ma anche nella fase a guida McDonald hanno regalato dei buoni album, più sofisticati e commerciali, ma con il baritono vellutato di Michael in grande spolvero. Poi il nostro ha intrapreso un carriera che attraverso undici album solisti (di cui due natalizi) ci porta ai giorni nostri. Non una produzione sterminata, ma Michael McDonald è anche stato l’uomo delle collaborazioni, e proprio in un paio di ensemble collettivi, come la New York Rock And Soul Revue (sempre con Fagen), e poi nei Dukes Of September, dove si aggiungeva anche Boz Scaggs, ha forse dato il meglio di sé http://discoclub.myblog.it/2014/03/26/band-tutte-le-stagioni-the-dukes-of-september-donald-fagen-michael-mcdonald-boz-scaggs-live-at-lincoln-center/ .

L’ultimo album, Wide Open, arriva dopo una pausa di nove anni dal precedente Soul Speak, e come i due che lo precedevano erano dischi di cover usciti per la rinnovata Motown, questo nuovo CD è il primo da vent’anni a questa parte a contenere materiale originale: nel disco, co-prodotto con Shannon Forrest, suonano uno stuolo di musicisti di pregio, tra cui spiccano Michael Landau, poi, li cito a caso, Larry Goldings, Willie Weeks, Steve Porcaro, Tom Scott, Michael Leonhart (storico collaboratore sempre di Fagen) che ha curato gli arrangiamenti dei fiati, insieme a Mark Douthit e, per non farsi mancare nulla, tra gli ospiti appaiono Robben Ford, Warren Haynes, Brandford Marsalis e Marcus Miller. Il disco, elaborato nel corso di vari anni, è buono, non possiamo negarlo, ma dovete forse, per apprezzarlo, essere estimatori dello stile comunque levigato e a tratti turgido del nostro, che ha sempre il suo classico vocione, scrive brani piacevoli, e se siete estimatori del blue-eyed soul lo apprezzerete sicuramente, ma anche gli ascoltatori “neutrali” troveranno motivi per godere della classe e dell’eleganza raffinata della musica contenuta in questo Wide Open. Dall’apertura classico groove tra le due coste di Hail Mary, che fonde il sound di Steely Dan e Doobie Brothers, con un suono vellutato come la musica del suo autore, tra voci femminili di supporto (la moglie Amy Holland), fiati, chitarre e tastiere accarezzate per ottenere quella versione bianca della soul music che McDonald ha sempre prediletto, e in questo disco ripropone con più vigore e rinnovata fiducia nei suoi mezzi, ottimo l’assolo di sax, di Mark Douthit, in un lungo brano che sfiora i sette minuti, mentre addirittura la successiva Just Strong Enough avvicina gli otto, per  una sorta di blues ballad con fiati e archi, sulla falsariga di certe cose di BB King, e che vede Warren Haynes e Robert Ford duettare brillantemente alle soliste in un pezzo molto cool, dove tutta la band lavora di fino.

L’album comunque contiene canzoni che superano regolarmente i cinque minuti (solo una è sotto questo minutaggio) e quindi i musicisti sono liberi di suonare al meglio delle loro possibilità: i due pezzi iniziali sono i migliori, ma anche la mossa Blessing In Disguise è eccellente, con un sound che richiama addirittura (con il dovuto rispetto) gli Steely Dan di Aja, funky-jazz soul music con Branford Marsalis al sax nel ruolo che fu di Wayne Shorter, notevole anche Shannon Forrest alla batteria, quasi un novello Steve Gadd. Find It In Your Heart si basa un sinuoso wah-wah a guidare le danze, mentre Marcus Miller pompa sul basso e l’assolo di sax è di Tom Scott è la classica ciliegina sulla torta; Half Truth, con lo stesso Michael McDonald all’armonica, è un avvolgente pezzo rock di grande impatto, con Ain’t No Good che ricade in certo easy listening che ogni tanto si insinua nei brani del nostro amico, e pure Honest Emotion, nonostante gli inserti acustici, fa sì che entrambe le canzoni siano meno valide, come pure Dark Side che però ha una bella melodia e qualche vago tocco alla Bacharach, grazie a fiati e archi. Anche If You Wanted To Hurt Me non mi piace molto, troppo simile al McDonald più leggerino del passato, meglio Beautiful Child dove si riprende il gusto per gli arrangiamenti complessi e raffinati al servizio della pop song, elementi che sono da sempre nel menu del buon Michael. Too Short ha sonorità Caraibiche e world miste all’errebì classico, quasi alla Paul Simon, con la conclusiva Free A Man, molto incalzante e ben suonata, che vira di nuovo verso una sorta di jazz-rock alla Steely Dan, grazie ad un liquido piano elettrico, al sax, ancora Scott e alla chitarra di Landau. Come per tutto il disco d’altronde, non parliamo di un capolavoro, ma di un album solido e molto piacevole, oltre che, come detto, assai raffinato.

Bruno Conti

Il “Genio” E’ L’Altro, Ma Anche Lui Era Un Grande Musicista! Se Ne E’ Andato A 67 Anni Walter Becker, Co-Fondatore Degli Steely Dan.

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Purtroppo dopo un periodo di pausa, riprendono le morti eccellenti. Non aveva partecipato, per non specificati, ma evidentemente gravi problemi di salute (anche se Fagen aveva detto che preso si sarebbe ripreso), al recente breve tour di luglio per l’ennesima reunion degli Steely Dan (non c’era neppure Jon Herington), insieme a Fleetwood Mac, Doobie Brothers, Eagles e altri, in quello che era stato definito “The Classic East & West Tour”, ma:oggi si è spento a Maui, dove viveva, Walter Becker, il chitarrista, bassista e co-fondatore della band. Ne dà notizia il sito ufficiale, pubblicando le due foto che vedete qui sopra e la data di nascita e morte, “feb.   20  1950 — sept. 03 2017”, senza specificare la causa della morte. Come è noto il nome del gruppo, come qualcuno con fantasia ha scritto, più che da un personaggio è ispirato dal nome di un, come vogliamo definirlo, apparato, che appare in un romanzo scritto da William S. Burroughs Il Pasto Nudo: si tratta di un dildo, per la precisione “Steely Dan III from Yokohama”.

Evidentemente non la prima cosa che ti viene in mente ascoltando Do It Again Reelin’ In The Years, ma i due amici di New York erano entrambi amanti della Letteratura e in particolare della Beat Generation, e in fondo il nome ha portato loro fortuna. Becker, era, come vogliamo chiamarlo, il “socio minoritario” della band, ma la sua chitarra, il basso, le armonie vocali ed i rari interventi solisti, erano comunque elementi importanti nell’economia del gruppo, insieme al fatto che firmava tutte le composizioni con Donald Fagen, sia nei primi sette “capolavori” degli anni ’70 (l’ultimo, Gaucho, del 1980), sia nei due dischi della reunion degli anni 2000. Forse, anzi sicuramente, almeno per me, i due album solisti di Walter Becker, 11 Tracks Of Whacks del 1994 e Circus Money del 2008, erano lontani parenti del gruppo madre, soprattutto il secondo, e anche se spesso utilizzavano gli stessi musicisti, nei dischi di Becker, mancava certamente l’inconfondibile voce di Fagen.

Comunque Becker si era costruito una ottima reputazione anche come produttore, lavorando su dischi dei China Crisis, Rickie Lee Jones, Michael Franks, Rosie Vela (l’ottimo Zazu, insieme a Donald Fagen), oltre ad altri nomi meno noti, co-producendo  anche Kamakriad il disco solista del 1993 di Fagen, che per ricambiare il favore produsse 11 Tracks Of Whacks. Walter Becker partecipò anche alla New York Rock And Soul Revue nel 1991, e a svariati tour dal vivo degli Steely Dan, immortalati nel CD Alive In America del 1995 ed in vari DVD della decade successiva, ma non alla ultima reunion.

Proprio da poco Donald Fagen ha rilasciato una lunga ed affettuosa dichiarazione sul suo partner, che vale più di mille commemorazioni e pubblico integralmente qui sotto:

Walter Becker was my friend, my writing partner and my bandmate since we met as students at Bard College in 1967. We started writing nutty little tunes on an upright piano in a small sitting room in the lobby of Ward Manor, a mouldering old mansion on the Hudson River that the college used as a dorm.

We liked a lot of the same things: jazz (from the twenties through the mid-sixties), W.C. Fields, the Marx Brothers, science fiction, Nabokov, Kurt Vonnegut, Thomas Berger, and Robert Altman films come to mind. Also soul music and Chicago blues.

Walter had a very rough childhood — I’ll spare you the details. Luckily, he was smart as a whip, an excellent guitarist and a great songwriter. He was cynical about human nature, including his own, and hysterically funny. Like a lot of kids from fractured families, he had the knack of creative mimicry, reading people’s hidden psychology and transforming what he saw into bubbly, incisive art. He used to write letters (never meant to be sent) in my wife Libby’s singular voice that made the three of us collapse with laughter.

Walter Becker Dead

His habits got the best of him by the end of the seventies, and we lost touch for a while. In the eighties, when I was putting together the NY Rock and Soul Review with Libby, we hooked up again, revived the Steely Dan concept and developed another terrific band.

I intend to keep the music we created together alive as long as I can with the Steely Dan band.

Donald Fagen

September 3 2017

Certi che la sua musica rimane in buone mani gli auguriamo di Riposare In Pace nel Paradiso dei musicisti, che ultimamente si è fatto un po’ affollato.

Bruno Conti

Come Si Suol Dire: Bravo, Bella Voce, Ma Basta? Ben Arnold – Lost Keys

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Ben Arnold – Lost Keys – Blue Rose/Ird 

Ben Arnold non è uno nuovo, anzi, da venticinque anni sulle scene, sette album alle spalle, questo Lost Keys sarà l’ottavo, il secondo per la Blue Rose, l’etichetta tedesca che pubblica anche i dischi degli US Rails, il mini supergruppo dove Arnold milita insieme a Tom Gillam, Joseph Parsons, Scott Bricklin, che suona anche il basso in un brano del disco e Matt Muir, che suona la batteria in tutto l’album. Gli US Rails sono nati come una sorta di versione 2.0 di CSN&Y, fatte le dovute proporzioni (ma comunque i dischi sono belli). sia come genere, sia per il fatto che tutti i 5 componenti della band cantano e scrivono le canzoni. Ora che il gruppo si è preso un periodo sabbatico, Arnold ne ha approfittato per pubblicare il suo ennesimo disco da solista e a breve seguiranno anche quelli di Bricklin (addirittura in uscita in contemporanea lo stesso giorno) e Gillam, anche questo già uscito, e probabilmente il migliore del lotto. Il cantautore di Philadelphia (dove in vari studi della zona è stato registrato il CD), continuando il parallelo con Crosby e Co., potrebbe essere lo Stills della situazione: voce roca, sofferta e vissuta, ma a ben guardare, anzi ascoltare, Arnold appartiene più alla categoria blue eyed soul, Memphis rock, perfino blue collar, con reminiscenze vagamente springsteeniane – forse nell’insieme le “chiavi musicali perdute” citate nel titolo del disco? – ma gli artisti a cui è più vicino, sia come tipo di voce che come stile direi che sono Joe Cocker e Randy Newman, e anche qualche tocco alla John Hiatt https://www.youtube.com/watch?v=2plFWM2xvBQ

Soprattutto con il secondo ci sono molti punti di contatto: entrambi suonano il piano, hanno una voce che a tratti suona sardonica e anche quando canta d’amore, come Ben  fa spesso, le sue canzoni sembrano arrivare a sorpresa da una strada laterale. Prendiamo il brano d’apertura Stupid Love https://www.youtube.com/watch?v=4cHdeV9vnHQ , che pare provenire da una session di Little Criminals, Trouble in Paradise o Bad Love, comunque dagli album più “rock” di Newman, però con una forte patina di musica nera, arrangiamenti di archi e fiati, pezzi ricchi di armonie vocali e suggestioni Tamla Motown o Philly sound, vista la città di provenienza di Arnold, con tastiere molto presenti e le chitarre di Matt Kass e Eric Bazilian (esatto, proprio quello degli Hooters) che punteggiano la voce leggermente passata con la carta vetrata del nostro amico. Cannonball potrebbe in effetti essere un brano del Joe Cocker anni ’80, quello di You Can Leave Your Hat On, non a caso scritta da Newman, mentre Don’t Wanna Loose You, con Bricklin al basso, e organo Hammond e un altro chitarrista aggiunti alla band, vira verso un blue eyed soul quasi alla Donald Fagen, magari senza la classe e l’inventiva del leader degli Steely Dan, ma ciò nondimeno molto piacevole ed accattivante, che è un poco la caratteristica di tutto l’album, al quale probabilmente mancano quelle sferzate di genio per alzarne il livello qualitativo.

Nobody Hurtin’ Like Me è una bella ballata, di nuovo con quella aria falsamente svagata delle canzoni di Newman e Detroit People un omaggio alle persone che lavorano nella Motor City, ma anche alle classiche canzoni Motown come avrebbe potuto cantarle Joe Cocker se si fosse cimentato con quello stile. One Heart ha un che di vagamente springsteeniano nel suo andamento, le ballate piano-organo del periodo di The River, al solito arricchita da fiati ed archi, anche se manca quel guizzo che contraddistingue il fuoriclasse, bello l’assolo di chitarra comunque. Forbidden Drive è un’altra languida soul ballad, un filo troppo zuccherosa e Freedom schiaccia ancora di più il pedale verso un moscio sound anni ’80 alla Michael McDonald e l’aggiunta dell’armonica non è sufficiente a salvare il risultato. It’s a jungle out there, con un sax alla Clarence Clemons cerca di nuovo di evocare lo spirito delle canzoni più piacevoli del Boss citato poc’anzi, e questa volta in parte ci riesce. A concludere When Love Fades Away, un brano che come ha evidenziato qualcuno ricorda quel sound alla Hall & Oates, o alla Simply Red, aggiungo io, che forse non è proprio il massimo della vita, anche se ha i suoi estimatori. Quindi, sufficienza globale per l’album, soprattutto per la prima parte, ma poi nel prosieguo, come diceva Arbore, s’ammoscia, s’ammoscia.

Bruno Conti