Più Di 40 Anni Dopo Quello A L.A. Un Bel Fine Settimana A Londra. George Benson – Weekend in London

george benson weekend in London

George Benson – Weekend In London – Mascot/Provogue

42 anni fa usciva Weekend In L.A, un disco dal vivo di jazz, R&B e funky, registrato l’anno prima al Roxy Theatre di Los Angeles, album che vendette più di un milione di copie ed arrivò fino al 5° posto delle classifiche americane, grazie anche alla canzone trainante, una cover trascinante di On Broadway, dove George Benson, perché di lui stiamo parlando, andava alla grande anche di scat, senza dimenticarsi di accarezzare la sua chitarra elettrica, di cui era uno dei grandi virtuosi, sin da quando uscirono i primi album a metà anni ‘60, per Prestige, Columbia, Verve, A&M e poi dal 1971 per la CTI, dischi nei quali il suo stile si spostò man mano dal jazz iniziale ad uno stile che incorporava anche R&B, light funky e smooth jazz, fino ad arrivare nel 1976, dopo il passaggio alla Warner Bros, al successo clamoroso di Breezin’ e anche di In Flight. Poi negli anni successivi a Weekend In L.A. la sua musica si è sempre più commercializzata, perdendo parte dello spirito iniziale e aggiungendo anche molti elementi pop, arrivando pure a sfiorare la disco.

george-benson-Photo-DavidWolffPatrick-Redferns@1400x1050David Wolff – Patrick / Redferns

Ammetto che me lo ero perso per strada moltissimi anni fa, ma poi all’improvviso lo scorso anno, dopo il passaggio alla Mascot/Provogue (e sotto l’egida del produttore Kevin Shirley, famoso soprattutto per il suo lavoro con Joe Bonamassa), pubblica un album molto bello Walking To New Orleans, un omaggio alla musica di Chuck Berry e Fats Domino, suonato e cantato con grande passione e con risultati eccellenti https://discoclub.myblog.it/2019/05/04/il-classico-disco-che-non-ti-aspetti-veramente-una-bella-sorpresa-george-benson-walking-to-new-orleans/  Prima di quel disco Benson intraprende (non nell’era Covid, in rete si legge che Benson avrebbe suonato a Londra nel 2017) un tour mondiale che lo porta anche a Soho, al celebre Ronnie Scott’s Jazz Club (un piccolo locale con 250 posti, che però ha fatto la storia della musica), circa 45 anni dopo la sua ultima apparizione nel locale, creando una sorta di continuità con il vecchio Weekend in L.A., visto che anche il Roxy a Hollywood è una venue che contiene 500 persone scarse, e quindi era quasi inevitabile che il nuovo CD in uscita (al solito lo ascolto prima e quindi ho poche notizie) si chiamasse Weekend In London. Il suono purtroppo, almeno per me, torna a virare verso quello dei vecchi album, senza sbracare troppo, ma con molte concessioni verso le abitudini sonore del passato, con parecchio spazio per i vecchi successi (ma niente On Broadway che avrei ascoltato volentieri, ma magari l’ha suonata e non è stata inserita nel disco).

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Si parte con Give Me The Night, dove l’artista di Pittsburgh può indulgere nei suoi classici ritmi levigati e ballabili, nobilitati da qualche accenno di scat e dal lavoro fluido della sua fedele Ibanez, perché questo signore a 78 anni suonati è ancora sia un ottimo cantante che un virtuoso della chitarra, aiutato da un gruppo numeroso dove gentili signorine lo aiutano, anche troppo, nelle armonie vocali, le ritmiche sono rotonde, fiati, tastiere a go-go e archi (presumo sintetici) molto presenti per un suono che Shirley cerca di contenere da derive troppo zuccherose, non sempre riuscendoci, ma tutto scorre in modo comunque piacevole e suonato molto bene https://www.youtube.com/watch?v=Eqmw8rM1LWg . Turn Your Love Around, Love X Love, You Eyes, ogni tanto ci sono dei soprassalti di qualità, come per I Hear You Knocking di Dave Bartholomew via Dave Edmunds, dove il suono si anima https://www.youtube.com/watch?v=1TAqaZEEgxs , o nella cover eccellente di The Ghetto di Donny Hathaway in cui si suona della ottima soul music https://www.youtube.com/watch?v=lGYdMvsnIuw , decisamente più “leccate” Nothing’s Gonna Change My Love For You e Feel Like Makin’ Love di Roberta Flack, anche se in entrambe ci sono assoli degni di nota.

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Meglio la cover di Don’t Let Me Be Lonely Tonight di James Taylor, raffinata e notturna, con il solito lavoro di fino della chitarra di George https://www.youtube.com/watch?v=qOOoEJ1m_qM , come pure Moody’s Mood, ispirata dal celebre jazzista James Moody, che sembra quasi un brano di Nat King Cole. Love Ballad e Never Give Up On A Good Thing illustrano il lato più disimpegnato e danzereccio di Benson, mentre la cover dello strumentale di Affirmation di José Feliciano rappresenta, in modalità fusion, la sua grande perizia alla chitarra, mentre Cruise Control dal suo disco GRP del 1998 Standing Together, mette in mostra di nuovo il suo inconfondibile scat voce-chitarra e la bravura della band. In complesso, come detto, un po’ leggerino, ma piacevole, ovviamente per chi ama il genere.

Bruno Conti

Questo Disco Lo Conferma: Ormai Il “Nuovo” Soul Arriva Anche Dall’Australia! Teskey Brothers – Live At The Forum

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Teskey Brothers – Live At The Forum – Half Mile Records/Decca/Universal

In questi difficili tempi che stiamo vivendo ogni disco che viene ad alleviare e a ristorare il nostro umore è bene accetto, se poi arriva da una formazione come i Teskey Brothers, alfieri australiani di quella nuova onda di soul music genuina che sta percorrendo le strade parallele di certo rock (e blues) classico, lo è ancora di più. Il quartetto down under ha esordito nel 2017 in Australia con Half Mile Harvest, poi arrivato l’anno successivo nel resto del mondo in una versione ampliata https://discoclub.myblog.it/tag/teskey-brothers/  ed hanno confermato quanto di buono avevano lasciato trapelare, con il successivo Run Home Slow, pubblicato ad agosto del 2019. Si trattava di dischi che avrebbero potuto essere usciti nell’epoca d’oro della Stax, ma anche negli anni successivi del soul bianco targato Muscle Shoals, e ancora con echi della musica sudista di uno come Eddie Hinton che esteriormente era bianco, ma dentro ribolliva di musica nera (senza citare, ma lo sto facendo, gente come Frankie Miller, Joe Cocker, Van The Man, tutti personaggi cresciuti a pane, Nutella, Otis Redding, Solomon Burke, aggiungete voi nomi a piacere).

Da qualche anno sembra comunque che ci sia una rinascita di questo filone, e penso a Anderson East, Nathaniel Rateliff, Black Pumas, ma sono solo alcuni, la punta dell’iceberg. Questo disco esce (?) a sorpresa in piena era coronavirus: dovrebbe essere in circolazione a metà maggio in vinile e download e al 29 maggio in CD, ma visto che l’ho parecchio tempo prima non garantisco (ma ora confermo), visto che gli album vengono annunciati e poi rinviati a getto continuo. Noi facciamo conto che tutto vada bene, notizie non ne servono molte altre: l’album si intitola Live At The Forum, quello di Melbourne, Australia, siamo nell’estate 2019, e avrebbe dovuto essere replicato nel Stay Home Slow Virtual Tour, per presentare in streaming l’album, che però non vi so dire come sia andato, perché nel momento in cui scrivo dovrebbe essere ancora in corso. Sul palco ci sono certamente i due fratelli Teskey, Josh voce sublime e chitarra e Sam, lead guitar e voce, con gli amici Brendon Love al basso e Liam Gough alla batteria, poi nei filmati che circolano in rete si vedono anche un tastierista e un musicista alla pedal steel guitar, più sei backing vocalist e una sezione fiati, per completare il loro caratteristico sound con corpose manciate di gospel, abbondante blues e pizzichi di country, e tanta sweet soul music.

La dimensione concertistica è ovviamente ideale e i quattordici brani sono tutti da godere: Josh Teskey, come Hinton, è un discepolo diretto di Otis Redding, voce accorata e declamatoria nella iniziale ed intensa Let Me Let You Down che ci trasporta nel profondo Sud (ovunque voi lo vogliate, anche dell’Australia), con organo e chitarra e fiati, a celebrare il rito del soul. Carry You, il secondo brano di Run Home Slow, è un’altra deep soul ballad che sembra uscire da un vecchio vinile Stax, con la voce di Josh roca, viscerale, quasi fervente, con il pubblico che si agita sullo sfondo, i fiati e le voci all’unisono e la chitarra di Sam che lavora di fino; Crying Shame era il brano che apriva il primo album Half Mile Harvest, subito riconosciuta dai presenti, è un’altra iniezione di emozione allo stato puro, emozionale e vivida nel suo sincero dipanarsi, con il primo vero assolo di chitarra di Sam, mentre Say You’ll Do dalla Deluxe edition del primo disco, è uno slow blues di grande potenza, quasi febbrile, con il call and response con gli altri vocalists e un altro assolo di fratello Sam ricco di feeling e tecnica. So Caught Up, dall’allora nuovo album è un brano più leggero e sbarazzino, sempre delizioso per la sua innocente aria vintage, I Get Up torna allo stile declamatorio, quasi gospel, di gran parte delle canzoni, con un’altra prestazione vocale da manuale di Josh, ben spalleggiato dal fratello Sam, che è comunque elemento focale del sound della band con il suo lavoro anche in sordina.

Rain è Otis Redding allo stato puro, sospesa e al tempo stesso veemente, poi a sorpresa arriva la cover di Jealous Guy di John Lennon, ispirata dalla versione soul presente nel live di Donny Hathaway, splendida. San Francisco segnala una prima variazione sul tema sonoro dell’album, una canzone che rimanda al suono della Band, con piano, organo e la pedal steel che le conferiscono una ambientazione di genere Americana; Honeymoon, di nuovo dal 1° album, è il momento della jam, oltre dieci minuti di grande intensità, ancora un blues lento di grande impatto, costruito nella prima parte sulla voce di Josh, che poi lascia spazio alla chitarra del fratello che imbastisce una lunga improvvisazione, soprattutto nella parte centrale e finale, quando il ritmo accelera in modo inesorabile e poi rallenta di nuovo, mentre il gruppo si lascia andare in piena libertà. Anche Paint My Heart, con Sam e Josh che duettano a chitarra ed armonica è un grande blues fiatistico, quasi nove minuti che rimandano al migliore Joe Cocker, quello della soul revue di Mad Dogs And Englishmen, con citazione di With A Little Help From My Friends nell’incipit e nell’assolo finale di chitarra. Ormai i nostri sono entrati in modalità improvvisativa ed ecco arrivare una versione di nove minuti di Louisa, uno dei rari brani mossi del loro repertorio, con un riff alla Baby Please Don’t Go, il train time dell’armonica e un’altra esplosione di energia e gioia allo stato puro, con assolo di batteria di Liam Cough, che è l’autore del pezzo.

Ci si avvia alla conclusione con i bis, Pain And Misery, la canzone che li ha fatti conoscere, che fin dal titolo ricorda la loro fonte di ispirazione primaria, Mr. Pitiful Otis Redding e Hold Me, altra struggente ballata di impianto gospel, che prevede tutti gli ingredienti del genere, battito di mani, singalong corale e grande partecipazione collettiva, una vera meraviglia. Con questo disco dal vivo i Teskey Brothers si confermano una certezza assoluta nell’ambito della musica di qualità.

Bruno Conti