Doobie Brothers 1969-2019, Cinquanta Anni Di Rock Classico Americano. Parte Seconda

My beautiful picture

doobie brothers 1978

Seconda parte.

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Stampede – Warner Bros 1975 – ****

Un disco dove Baxter è ormai membro effettivo della band, ma tra gli ospiti appaiono nomi di spicco come Ry Cooder, Maria Muldaur, Bobbye Hall, Victor Feldman, e le due coriste Sherlie Matthews e Venetta Fields in una travolgente versione della hit Motown Take Me in Your Arms (Rock Me a Little While) scritta da Holland-Dozier-Holland per Kim Weston che, se mi passate il termine, viene “doobiezzata” da Tom Johnston, che la canta meravigliosamente e che include un assolo da urlo di Jeff Baxter. E come primo brano troviamo anche una rara collaborazione tra Johnston e Simmons nella splendida Sweet Maxine, un pezzo che rimanda al suono classico dei primi dischi della band con il valore aggiunto di Bill Payne al piano e di una sezione fiati non accreditata che aggiunge fascino all’insieme, mentre le chitarre all’unisono tornano a ruggire nel “potere del rock and roll”, come dice il testo.

Basterebbero questi due brani, ma ci sono anche Neal’s Fandango, dedicata al vecchio pard di Jack Kerouac Neal Cassady, una canzone che ricorda i Grateful Dead più gioiosi, con Baxter che se la batte alla steel con le chitarre impazzite di Johnston e Simmons, che musica ragazzi! Texas Lullaby è un country-rock alla Doobie Brothers, cioè splendido, Music Man galoppa come nella fuga precipitosa del titolo dell’album con le sue chitarre sfolgoranti e l’arrangiamento di fiati ed archi curato da Curtis Mayfield , e che dire della lunga e sofisticata I Cheat The Hangman che parte come una outtake di qualche brano di Crosby o dei Jefferson Starship di Grace Slick e Paul Kantner, con Maria Muldaur come voce femminile, un paio di trombe, archi, synth “umani” e un crescendo ispirato dalla Notte Sul Monte Calvo nel finale travolgente. E Ry Cooder ci regala un lavoro al bottleneck magistrale in Rainy Day Crossroad Blues. Il resto del disco non è da meno, uno dei loro migliori, ma ora che succede? Arrivano

Gli Anni Di Michael McDonald 1975-1982

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Takin’ It To The Streets – Warner Bros 1976 – ***1/2

Invitato su suggerimento di Jeff “Skunk” Baxter, che aveva lavorato con lui negli Steely Dan, Michael McDonald dalla sera alla mattina, dopo un periodo di prova, diventa il nuovo cantante e autore principale della band, che però per me diventa un altro gruppo; rispettabile, con degli ottimi dischi, con il vocione baritonale del nostro in primo piano e uno stile che parafrasando il rockin’ country potremmo definire rockin’ soul. Il pubblico sembra gradire: Wheels Of Fortune, cantata in duetto da Simmons e Johnson è nel solito stile della band, magari più funky (rock), con  Richie Hayward dei Little Feat alla batteria, ma la title track è un’altra storia, non brutta, diversa, molto funky-soul diciamo, con i Memphis Horns ed i loro sax in evidenza, 8th Avenue Shuffle cantata in falsetto da Simmons, sembra quasi un pezzo di blue eyed soul alla Boz Scaggs, Losin’ End è una delle ballatone di McDonald, Rio conferma la svolta danzereccia di Simmons, It Keeps You Runnin’ è l’altra hit di McDonald, con Johnston che contribuisce al tutto con la discreta, ma tipicamente rock, Turn It Loose.

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Livin’ On The Fault Line – Warner Bros 1977 – ***

Tom Johnston a questo punto sparisce, ma sul finire del 1976 la Warner pubblica un Best Of The Doobies che nel corso degli anni finirà per vendere 10 milioni di copie, mentre il disco del 1977 non è un gran successo, infatti nessun brano entra nella top 40, benché il disco contenga il duetto You Belong To Me cantato con Carly Simon, anche se la versione di successo sarà quella reincisa da sola nel 1978 https://www.youtube.com/watch?v=ukkRG-flg20 .

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Minute By Minute – Warner Bros 1978 – ***1/2

A furia di insistere arriva alla fine il grande successo: Minute By Minute è il primo disco dei Doobie Brothers ad arrivare al primo posto delle classifiche americane, vendendo complessivamente oltre tre milioni di copie, ma a mio modesto parere più che un disco della band, al di là di 5 brani firmati da Simmons, comunque buoni, mi sembra più un disco solista di Michael McDonald accompagnato dai Doobie Brothers, tanto che dopo questo disco, pare a causa di dissapori proprio con McDonald, se ne andarono anche Baxter e il batterista originale John Hartman. Comunque per chi ama il genere, tra blue eyed soul , AOR di classe e pop raffinato, suonato e cantato benissimo, il disco si ascolta con piacere, anche se dei tre Dukes Of September, gli altri sono Fagen e Scaggs, McDonald è quello che amo di meno: in ogni caso What A Fool Believes e Minute By Minute, con Bill Payne al synth, e Dependin’ On You, cantata da Simmons, con il supporto di Rosemary Butler e Nicolette Larson, sono fior di canzoni https://www.youtube.com/watch?v=aiJfwXOwvUw , mentre Steamer Lane Breakdown, è uno strumentale country-bluegrass strepitoso con Norton Buffalo, Herb Pedersen e Byron Berline in azione https://www.youtube.com/watch?v=_EbBsNp9tbI .

Anche Johnston fa una ultima apparizione nel brano più rock del disco, una ottima Don’t Stop To Watch The Wheels e niente male anche Sweet Feelin’ un altro duetto con la Larson.

Il meglio (e il peggio) del resto – 1979- anni 2000.

220px-The_Doobie_Brothers_-_One_Step_Closer The_Doobie_Brothers_-_Farewell_Tour

Vediamo infine velocemente cosa succede dopo. Nel 1980 esce One Step Closer (**1/2), primo disco con John McFee alla chitarra e voce, ancora 3° posto e un milione di dischi venduti, però il brano firmato da McDonald con Paul Anka , Dedicate This Heart, non mi sembra molto rock e Real Love vira pericolosamente verso la disco lite. Nel 1982 Farewell Tour, doppio dal vivo pubblicato nel 1983, ancora una volta tutti insieme appassionatamente, anche Johnston che canta China Grove, Long Train Runnin’ e Slippery Saint Paul, un buon live anche se si poteva fare meglio, e poi in CD è uscito solo in Giappone. Dei vari LP dal vivo postumi forse meglio quello al Greek Theatre del 1982, uscito in CD nel 2011.

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Al solito anche i consigli per gli acquisti per chi fosse interessato riguardo a eventuali cofanetti: nel caso dei Doobie Brothers siamo messi piuttosto bene, perché la discografia della band californiana del periodo 1971-1983 è coperta da un box da 10 CD con tutti i dischi del periodo Warner, oppure da due cofanetti da 5 CD ciascuno con gli stessi album, tutti a prezzi decisamente bassi. E li vedete riportati qui sopra.

Mentre delle reunion in studio Cycles del 1989, il primo per la Capitol, con Johnston e Hartman di nuovo in formazione è un discreto disco (***), molto anni  ’90, Brotherhood del 1991 è decisamente peggio, sia a livello di critica che di vendite, per cui vengono cacciati dalla Capitol, genere: disco-rock?!? Tornano nel 2000 con Sibling Rivalry, un po’ meglio, qualche sprazzo di classe, ma giudizio critico sempre un bel “maah”? Nel 2010 per World Gone Crazy (***1/2) torna in cabina di regia il vecchio produttore Ted Templeman, Johnston, Simmons e McFee sono alla guida di una formazione a tre chitarre, un disco più che dignitoso e grintoso, l’ultimo con il batterista Michael Hossack che morirà per un cancro nel 2012, tra gli ospiti oltre all’immancabile e scatenato Bill Payne e a Norton Buffalo (appena scomparso nel 2009), ci sono anche Willie Nelson e Michael Mc Donald che duettano ciascuno in una canzone.

Nel 2014 una idea “geniale”, un intero disco Southbound (***1/2) dove i Doobie Brothers ripropongono in piacevoli versioni country, ma non solo, visto che il rock non manca, il meglio del loro repertorio in una serie di duetti con, tra gli altri, Zac Brown, Huey Lewis, Brad Paisley, Sara Evans, Toby Keith, Vince Gill. Il resto è storia recente: in questi giorni è uscito Live From The Beacon Theater, un eccellente triplo registrato nel 2018, 2 CD + DVD, di cui leggerete in altra parte del Blog, in cui la band ripropone per intero, ed in modo eccellente, Toulouse Street e The Captain And Me https://discoclub.myblog.it/2019/09/13/dopo-quasi-50-anni-ancora-insieme-per-un-concerto-esplosivo-doobie-brothers-live-from-the-beacon-theatre/ .

Anche per questa volta direi che è tutto.

Bruno Conti

Doobie Brothers 1969-2019, Cinquanta Anni Di Rock Classico Americano. Parte Prima

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Qualche giorno fa sul Blog avete letto del bellissimo live relativo al concerto dello scorso anno https://discoclub.myblog.it/2019/09/13/dopo-quasi-50-anni-ancora-insieme-per-un-concerto-esplosivo-doobie-brothers-live-from-the-beacon-theatre/ , da oggi, in due puntate, tracciamo al storia del gruppo californiano dalle origini ai giorni nostri.

Ecco la prima parte della storia dei Doobie Brothers.

Come per quasi tutte le grandi storie del rock, anche questa in effetti inizia un paio di anni prima della pubblicazione del primo album della band californiana, nel 1969. Il nucleo iniziale, ovvero Tom Johnston, cantante e chitarrista, e il batterista John Hartman (che arrivava dalla Virginia) reduce da un incontro con Skip Spence per una ipotetica reunion dei Moby Grape.  Spence comunque presentò Johnston a Hartman per quello che poi sarebbe stato appunto il nucleo dei Doobie Brothers, all’inizio un power trio che operava nell’area di San Josè, occasionalmente anche con una sezione fiati. Si sa che queste cose richiedono tempo, e colpi di fortuna, come la scelta del nome Doobie Brothers (su suggerimento di un amico della band, che propose questo nome, anche se “doobie” era un nome gergale per marijuana ) che fu adottato in attesa di trovare qualcosa di meglio, ma poi è rimasto negli anni. Nel frattempo nel gruppo era arrivato anche colui che sarebbe stato l’altro grande membro storico, ovvero Patrick Simmons, chitarrista e cantante, nativo di Washington, ma anche lui cresciuto nella zona di tra San José e Santa Cruz, oltre al primo bassista Dave Shogren, che completava il quartetto iniziale, quello che registrerà il primo album omonimo.

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The Doobie Brothers – Warner Bros 1971 – ***

Registrato tra il novembre e il dicembre del 1970, con due produttori da urlo come Lenny Waronker e Ted Templeman, il disco in effetti è abbastanza “strano”: un sound nella prima facciata molto acoustic oriented, che si staccava dall’immagine, tutta giacche di pelle e motociclette, e dal tono gagliardo delle esibizioni live, in cui soprattutto gli Hell’s Angels erano tra i loro fan più accaniti, e la band privilegiava un suono di stampo decisamente rock. Ma per l’occasione si decise di orientarsi verso un mix di chitarre acustiche, influenze country e quelle armonie vocali a tre parti, influenzate dal soul e dal gospel, oltre che dal country, che poi sono rimaste per sempre nel loro DNA.

Nobody, il primo singolo, che però fallì miseramente nelle classifiche, fu comunque un ottimo esempio di questo approccio, tanto da venire poi ripubblicato con successo nel 1974, e comunque nella seconda facciata del vecchio LP i Doobie di tanto in tanto iniziavano a fare ruggire le chitarre, come nella eccellente Feelin’ Down Farther che comincia ad introdurre quel  rock suadente e raffinato, molto “riffato” e con interventi ficcanti della solista di Johnston, come nella sinuosa e countryeggiante The Master, o nella vigorosa e bluesata Beehive State, una cover di Randy Newman con una bella coda della solista di Tom. Per il resto ci sono alcune similitudini con i primi CSN o i Grateful Dead acustici.

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Toulouse Street – Warner Bros 1972 – ****

Ma l’anno successivo, dopo il rodaggio dei primi tour americani, e con l’ingresso in formazione del nuovo bassista Tiran Porter e del secondo batterista Michael Hossack, le cose si fanno serie. Il suono della doppia batteria e il basso rotondo di Porter, ottimo anche nei suoi interventi vocali, danno profondità e grinta al suono, in più Bill Payne (amico e collaboratore fin dagli inizi, poi quasi sempre presente negli anni a venire) aggiunge il tocco magistrale delle sue tastiere, che unito alla presenza di alcuni dei classici assoluti della band fanno sì che Toulouse Street sia uno tra i migliori esempi di rock californiano (e per estensione) americano.  Listen To The Music, un inno alla pace e alla gioia, è un brano godibilissimo, cantato da Johnston, con l’aiuto di Simmons nel bridge, un riff ascendente ed irresistibile, intrecci vocali sublimi, il tocco geniale del banjo, anche in phasing, fino al finale chitarristico che tuttora nei concerti è il tripudio conclusivo. Rockin’ Down The Highway è un’altra rock song formidabile a tutte chitarre, mentre la title track Toulouse Street, firmata da Simmons, e dedicata al quartiere francese di New Orleans, è una delicata ed intricata folk song di stampo tipicamente westcoastiano.

Cotton Mouth di Seals & Crofts e Don’t Start Me To Talkin’ di Sonny Boy Williamson prevedono l’uso dei fiati, nel primo caso in un brano solare quasi alla Jimmy Buffett primo periodo, nel secondo caso in un blues-rock molto allmaniano. Jesus Is Just Alright è l’altro grandissimo successo contenuto nell’album, un brano gospel  che riceve un trattamento sontuoso alla Doobie Brothers, con interscambi vocali e strumentali di grande pregio senza perdere quel tocco magico che la band aveva all’epoca, e senza dimenticare la piacevole ballata White Sun e la lunga Disciple dove il gruppo si rivela una macchina da guerra anche in quell’ambito rock a doppia chitarra che poi svilupperanno ulteriormente nel successivo The Captain And Me. Il disco arriva “solo” al 21° posto delle charts, ma vende da subito 2 milioni di copie e prepara la strada per

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The Captain And Me – Warner Bros 1973 – ****

Prodotto come il precedente dall’ottimo Ted Templeman, che conferisce all’album un suono strepitoso. tanto che ne verrà realizzata anche una versione quadrafonica, il disco è passato alla storia (oltre che per una bella e suggestiva copertina) per i due singoli stupendi che per certi versi sono l’essenza del rock americano: Long Train Runnin’ e China Grove, entrambi scritti da Tom Johnston, con dei riff iniziali indimenticabili, poi rimasti fino ai giorni nostri nell’immaginario collettivo dell’air guitar davanti allo specchio di casa vostra, tutto è perfetto, dal giro di basso, al lavoro intrecciato della doppia batteria e della doppia chitarra, all’arrangiamento vocale, unito ad una grinta e ad una melodia impeccabili. Anche il resto dell’album, per usare un eufemismo, non è male: l’iniziale Natural Thing prende ispirazione dai Beatles, con synth e archi maneggiati con cura da Malcolm Cecil e Robert Margouleff, due geniali precursori di questo tipo di sonorità lavorate e complesse, che la coppia stava sperimentando all’epoca anche in un ambito soul con l’ispiratissimo Stevie Wonder di quegli anni, e deliziosi gli inserti delle due elettriche suonate all’unisono;

Dark Eyed Cajun Woman è un brano bluesato dove si apprezzano anche i contributi degli ospiti Bill Payne e del nuovo arrivato Jeff “Skunk” Baxter che libero dagli impegni con gli Steely Dan si aggiunge in pianta stabile alla formazione con la sua maestria a tutti i tipi di chitarra, soprattutto pedal e lap steel. Clear As The Driven Snow, di Simmons, fa un neppure troppo velato riferimento alle sostanze “ricreative” in uso dalla band, attraverso un’altra piccola perla acustica del loro songbook, che poi si anima in un finale chitarristico tiratissimo. Without You, firmata collettivamente da tutta la band, è una jam rock trasformata in canzone o viceversa, un omaggio al suono degli Who, potente ed irresistibile, con chitarre fiammeggianti, South City Midnight Lady, scritta da Simmons, è un’altra eccellente ballata con Skunk Baxter che nel finale si sbizzarrisce alla pedal steel, Evil Woman, evidentemente un titolo che piace, di nuovo di Simmons, vira ancora sul rock. Ukiah, preceduto dall’intermezzo per sola chitarra acustica Busted Down Around O’Connelley Corners, è un ulteriore esempio dell’impeccabile ispirazione che ha sostenuto la band in tutto l’album, come conferma anche la corale title track conclusiva. Un disco bellissimo che arriva al 7° posto delle classifiche e vende altre due milioni di copie, risentito oggi non ha perso un briciolo del suo fascino.

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 What Were Once Vices Are Now Habits –Warner Bros 1974 – ***1/2

Squadra vincente non si cambia e anche il quarto album vende 2 milioni di copie arrivando fino al 4° posto: forse il disco è leggermente inferiore al precedente, niente mega successi direte voi? E invece si tratta del LP che contiene Black Water, il primo brano ad arrivare al numero 1 nei singoli USA, scritta da Patrick Simmons, anche in questo caso una canzone che parte da un riff iniziale, poi elaborato in una bellissima traccia ispirata dall’amore di Pat per la musica della Louisiana e da una notevole segmento cantato a cappella, oltre al tocco di classe della viola di Novi Novog. Bill Payne non manca nel disco, come pure Baxter, a cui si aggiungono Arlo Guthrie, i Memphis Horns, James Booker e Milt Holland.  Song To See You Through è un delizioso mid-tempo in puro stile soul proprio con i Memphis Horns, molto belle anche Spirit una bella country song elettroacustica di nuovo con la viola protagonista, il classico pezzo rock alla Doobies Pursuit On 53rd Street con fiati e Bill Payne in evidenza, e anche Eyes Of Silver è un gustoso brano tra errebì e rock, con la corale Road Angel di nuovo a tutto rock chitarristico.

In You Just Can’t Stop It Simmons prova anche la strada del funky, con chitarrine e fiati impazziti, poi ribadita da Pat nella malinconica Tell Me What You Want (And I’ll Give You What You Need) con Milt Holland alle percussioni e Baxter alla pedal steel ; Down in The Track, il brano con James Booker al piano, è un altro sapido esempio di rock guizzante quasi alla Little Feat, anche se non c’è Payne. Another Park, Another Sunday è un’altra occasione per la band e Templeman per esplorare interessanti soluzioni sonore, con le chitarre che vengono fatte passare attraverso i Leslie degli ampli con risultati suggestivi, in quello che doveva essere il lato A di Black Water e molto buono pure l’ultimo contributo di Simmons nella sinuosa Daughters Of The Sea. Alla fine del 1974 Tom Johnston comincia ad avere dei problemi di salute sia per la vita on the road che per altri Vizi, ma ci regala il suo ultimo lavoro di alta qualità prima dell’ingresso di Michael Mc Donald, con il brillante album successivo Stampede.

Fine della prima parte, segue.

Bruno Conti

Dopo Quasi 50 Anni Ancora Insieme Per Un Concerto Esplosivo. Doobie Brothers – Live From The Beacon Theatre

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Doobie Brothers – Live From The Beacon Theatre – 2 CD/DVD Rhino Records/Warner

I Doobie Brothers sono sempre stati un formidabile gruppo dal vivo, ma forse non avevano mai pubblicato un album che rendesse pienamente merito alla loro reputazione di  live band: in effetti negli anni sono usciti vari dischi registrati in concerto, l’ultimo come data, nel 2011, quello al Greek Theater, inciso però nel 1982, quindi il più recente rimane il Live At Wolf Trap del 2004. Questa volta però le cose state fatte per bene: dopo il tour del 2018 (fatto insieme agli Steely Dan), perché i Doobies hanno comunque continuato a suonare dal vivo senza soluzione di continuità dall’ultima reunion del 1987, poi ribadita nel 1997, quando è entrato nella formazione in pianta stabile come terzo chitarrista, cantante e violinista, John McFee, già presente nell’era Michael McDonald, quando però Tom Johnston era stato poco presente e Patrick Simmons era in ogni caso in un ruolo più subalterno rispetto a McDonald. Dicevo che per l’occasione tutto è stato organizzato alla perfezione; questi sono i Doobie Brothers rock, al limite aggiungendo gli immancabili elementi soul e country, ma si tratta di quelli più energici e gagliardi, quindi oltre ai tre leader, per la serata speciale al Beacon Theatre di New York del 15 novembre dello scorso anno (replicata anche la serata successiva), troviamo Ed Toth alla batteria (ex Vertical Horizon) e Marc Quinones (ex Allman Brothers) alle percussioni, che con il bassista John Cowan completano la sezione ritmica, il grande Bill Payne alle tastiere, Marc Russo al sax, che per l’occasione è raggiunto da Michael Leonhart, tromba, e Roger Rosenberg, sax baritono, della sezione fiati degli Steely Dan.

Il risultato finale è strepitoso, in quanto nella serata speciale, definita “One Night, Two Albums” il gruppo esegue integralmente Toulouse Street e The Captain And Me, i due dischi migliori della loro discografia, il tutto ripreso e registrato splendidamente a livello sonoro, con Bob Clearmountain che ha curato il mixaggio. E anche l’impatto di insieme è veramente gagliardo: sin dalle prime note di Listen To The Music si capisce che sarà un grande concerto, il riff inconfondibile di chitarra, l’organo di Payne ad accarezzare la melodia, con le splendide armonie vocali quasi meglio dell’originale, Johnston ha ancora una voce formidabile, e le chitarre cominciano a scaldare i motori subito, che partenza fantastica, con il pubblico che sta già godendo. Anche Rockin’ Down The Highway è una macchina da guerra rock perfetta, con le chitarre arrotate e Payne che è passato al piano per un altro brano impeccabile; pure le canzoni meno note, alcune mai eseguite in concerto, come l’elettroacustica e caraibica Mamaloi, dove si gustano le percussioni di Quinones, e l’altro pezzo di Simmons, dedicato a New Orleans, come la bellissima Toulouse Street, in cui McFee è impegnato al violino, ben sostenuto dal sax di Russo, sono notevoli. E ancora eccellenti Cotton Mouth, con tutta la sezione fiati in azione e la chitarra di McFee in spolvero, come pure l’organo di Payne, e la bluesata Don’t Start Me Talkin’ diventa l’occasione per una lunga jam strumentale.

Certo, i brani celebri come la coinvolgente Jesus Is Just Alright scatenano l’entusiasmo del pubblico, ma anche la dolce ed intricata White Sun e la potentissima Disciple, con chitarre a manetta, non scherzano. Chiude la prima parte del concerto la sinuosa ed acustica Snake Man, di nuovo con McFee in evidenza, ma è un attimo è la band appare nuovamente sul palco per proporre tutto l’album The Captain And Me, con una sequenza da sogno. Quattro brani, uno in fila all’altro, strepitosi: Natural Thing,  bellissima, seguita dall’introduzione della band e poi l’uno-due micidiale di Long Train Running e China Grove, ancora una volta all’essenza più preziosa della migliore musica rock, in versioni arricchite dai fiati la prima e una vera esplosione di riff la seconda. E anche il blues di Dark Eyed Cajun Woman non scherza, per non dire di versioni deliziose di Clear As The Driven Snow dal finale travolgente come prevede l’originale, mentre Without You rocca e rolla di brutto, prima di lasciare spazio alla sequenza dedicata a Simmons con il trittico della west coastiana South City Midnight Lady, con McFee alla pedal steel, la potente Evil Woman e l’intermezzo strumentale di Busted Down Around O’Connelley Corners,

Brani che fanno da preludio al gran finale, prima con la travolgente Ukiah, presa a velocità da autovelox, poi ad una complessa e quasi commovente versione della corale The Captain And Me, che conclude la sezione dedicata a questo album perfetto. I tre bis immancabili sono altri pezzi da novanta del loro repertorio, come il devastante rock’n’soul di una colossale Take Me In Your Arms (Rock Me), il gospel rock di una estatica Black Water e la ripresa full band con sezione fiati aggiunta di Listen To The Music. Che dire, una vera goduria: e nessun brano, neanche accennato, di Michael McDonald, ma quella era un’altra band, i veri Doobie Brothers sono questi! Nei prossimi giorni articolo retrospettivo in due parti sulla loro carriera discografica.

Bruno Conti

Né Levrieri, Né Autobus, Solo Un Duo Texano: Ma Che Genere Fanno, Boh! Greyhounds – Cheyenne Valley Drive

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Greyhounds – Cheyenne Valley Drive – Bud’s Recording Services   

Conoscevo la compagnia di autobus americana e la razza di levrieri, ma ammetto che i Greyhounds come band mi mancavano: eppure sono su piazza, a Austin, Texas, da una ventina di anni, e pare abbiano già inciso sei  album, gli ultimi due per la rinata Ardent Records (ma altre discografie ne riportano solo quattro in tutto). Riconosco di conoscerli poco, ma quello che ho ascoltato in questo Cheyenne Valley Drive ha quanto meno acceso il mio interesse per un sound “diverso” dal solito. Intanto sono un duo, formato da Anthony Farrell, tastiere e voce, e Andrew Trube, chitarra e voce, che spesso si accompagnano con un batterista, che cambia a seconda degli album, per l’occasione Ed Miles. Quindi niente bassista, ma come insegna la storia, non è una novità, sin dai tempi dei Doors, nei Greyhounds la presenza di una tastiera permette di duplicarne le funzioni, ma per l’assenza del basso sono stati avvicinati a White Stripes e Black Keys, per quanto ascoltando l’album mi sembra che più correttamente si possa parlare di una fusione di soul raffinato (molto blue-eyed, ma anche nero), blues , funky e qualche piccolo elemento di rock sudista, in fondo risiedono in Texas.

Ascoltando il primo pezzo Learning How To Love mi è venuto da pensare a Gil Scott-Heron, un pezzo come The Revolution Will Not Be Televised, magari non a livello testi,  un bel piano elettrico, l’organo e il vocione di Farrell che accenna anche qualche falsetto, la chitarra insinuante di Trube, per una miscela quanto meno non molto frequentata di rock e musica nera https://www.youtube.com/watch?v=IMPQP_UkV88 . Nella successiva No Other Woman, abbiamo anche la presenza del sax di Art Edmaiston, che ricorda vecchie collaborazioni live dei due con la band di Jj Grey & Mofro, e quindi il blues-rock si fa più incalzante e sudista, con chitarre e tastiere più “cattive”. Space Song inizia con il riff di People Get Ready, ma è un attimo, anche se l’aria funky-soul-blaxploitation-space rock, grazie alla chitarra con wah-wah (che potrebbe essere di Will Sexton, presente come ospite nell’album, insieme alla moglie Amy LaVere), con tastiere appunto spaziali, visto il titolo della traccia, e la chitarra abbastanza presente e impegnata, creano sonorità interessanti. Ci sono momenti più orientati verso la canzone tradizionale, con nella piacevole melodia della morbida WMD, ritmi smussati e addolciti, quasi levigati.

Non è da trascurare che comunque l’album sia stato registrato ai Sam Phillips Recording Studios di Memphis, dopo gli album se etichetta Ardent ci può stare, se vuoi affrontare il crocevia tra la musica nera e quella bianca. Nel caso in oggetto di questo Cheyenne Valley Drive (che è l’indirizzo di casa del batterista), per quanto interessante, mi pare a tratti un po’ all’acqua di rose: alcuni cronisti fantasiosi hanno definito il loro sound “ZZ Top meets Hall & Oates”, e per quanto sui secondi possa concordare, i tre barbuti texani non li vedo molto tra le loro influenze, almeno al livello di grinta, ma ognuno ci vede (e ci sente) quello che vuole. Poi per confondere ulteriormente le idee nel loro CV viene detto che hanno scritto canzoni per Tedeschi Trucks, può essere ma sinceramente non ne ho trovate, mentre hanno aperto per i loro tour, e quindi una notizia non sicura poi per voce di popolo diventa certa, fine parentesi, torniamo al CD. Get Away Clean è un altro moderno R&B, con la giusta miscela di elementi più morbidi e altri ruvidi, pochi dei secondi, e anche 12th Street è levigata, ma con un bel assolo di Trube che illustra il lato più blues della loro musica; All We Are è un altro blue-eyed soul, con qualche elemento alla Doobie Brothers del periodo Michael McDonald e Rocky Love è di nuovo più bluesy, vagamente alla Steve Miller Band anni ‘70, con una bella chitarra di nuovo in modalità wah-wah, Goodbye è più grintosa e rock, mentre la conclusiva Credo è nuovamente una morbida soul  ballad https://www.youtube.com/watch?v=pqhmuuVa-HI . Insomma se avete capito che genere fanno beati voi, comunque piacevole e inconsueto nell’insieme.

Bruno Conti

Un “Eroe” Musicale Delle Due Coste? Michael McDonald – Wide Open

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Michael McDonald – Wide Open – BMG

Michael McDonald, da St. Louis, Missouri, è stato per certi versi, come Garibaldi fu “l’eroe dei due mondi”, una sorta di “eroe” musicale delle Due Coste, prima, ad inizio carriera, su quella orientale, come membro aggiunto degli Steely Dan, poi della West Coast, quando nel 1976 entrò nei Doobie Brothers come sostituto di Tom Johnson. In entrambe le band il suo stile si ispirava comunque alla soul music, se vogliamo il cosiddetto “blue eyed soul”, più raffinato e composito quello della band di Donald Fagen, più vicino al pop e al soft-rock nel gruppo californiano. Se devo essere sincero io ho sempre amato molto di più i Doobies quando facevano del sano rock misto a country e blues, quelli del primo periodo, ma anche nella fase a guida McDonald hanno regalato dei buoni album, più sofisticati e commerciali, ma con il baritono vellutato di Michael in grande spolvero. Poi il nostro ha intrapreso un carriera che attraverso undici album solisti (di cui due natalizi) ci porta ai giorni nostri. Non una produzione sterminata, ma Michael McDonald è anche stato l’uomo delle collaborazioni, e proprio in un paio di ensemble collettivi, come la New York Rock And Soul Revue (sempre con Fagen), e poi nei Dukes Of September, dove si aggiungeva anche Boz Scaggs, ha forse dato il meglio di sé http://discoclub.myblog.it/2014/03/26/band-tutte-le-stagioni-the-dukes-of-september-donald-fagen-michael-mcdonald-boz-scaggs-live-at-lincoln-center/ .

L’ultimo album, Wide Open, arriva dopo una pausa di nove anni dal precedente Soul Speak, e come i due che lo precedevano erano dischi di cover usciti per la rinnovata Motown, questo nuovo CD è il primo da vent’anni a questa parte a contenere materiale originale: nel disco, co-prodotto con Shannon Forrest, suonano uno stuolo di musicisti di pregio, tra cui spiccano Michael Landau, poi, li cito a caso, Larry Goldings, Willie Weeks, Steve Porcaro, Tom Scott, Michael Leonhart (storico collaboratore sempre di Fagen) che ha curato gli arrangiamenti dei fiati, insieme a Mark Douthit e, per non farsi mancare nulla, tra gli ospiti appaiono Robben Ford, Warren Haynes, Brandford Marsalis e Marcus Miller. Il disco, elaborato nel corso di vari anni, è buono, non possiamo negarlo, ma dovete forse, per apprezzarlo, essere estimatori dello stile comunque levigato e a tratti turgido del nostro, che ha sempre il suo classico vocione, scrive brani piacevoli, e se siete estimatori del blue-eyed soul lo apprezzerete sicuramente, ma anche gli ascoltatori “neutrali” troveranno motivi per godere della classe e dell’eleganza raffinata della musica contenuta in questo Wide Open. Dall’apertura classico groove tra le due coste di Hail Mary, che fonde il sound di Steely Dan e Doobie Brothers, con un suono vellutato come la musica del suo autore, tra voci femminili di supporto (la moglie Amy Holland), fiati, chitarre e tastiere accarezzate per ottenere quella versione bianca della soul music che McDonald ha sempre prediletto, e in questo disco ripropone con più vigore e rinnovata fiducia nei suoi mezzi, ottimo l’assolo di sax, di Mark Douthit, in un lungo brano che sfiora i sette minuti, mentre addirittura la successiva Just Strong Enough avvicina gli otto, per  una sorta di blues ballad con fiati e archi, sulla falsariga di certe cose di BB King, e che vede Warren Haynes e Robert Ford duettare brillantemente alle soliste in un pezzo molto cool, dove tutta la band lavora di fino.

L’album comunque contiene canzoni che superano regolarmente i cinque minuti (solo una è sotto questo minutaggio) e quindi i musicisti sono liberi di suonare al meglio delle loro possibilità: i due pezzi iniziali sono i migliori, ma anche la mossa Blessing In Disguise è eccellente, con un sound che richiama addirittura (con il dovuto rispetto) gli Steely Dan di Aja, funky-jazz soul music con Branford Marsalis al sax nel ruolo che fu di Wayne Shorter, notevole anche Shannon Forrest alla batteria, quasi un novello Steve Gadd. Find It In Your Heart si basa un sinuoso wah-wah a guidare le danze, mentre Marcus Miller pompa sul basso e l’assolo di sax è di Tom Scott è la classica ciliegina sulla torta; Half Truth, con lo stesso Michael McDonald all’armonica, è un avvolgente pezzo rock di grande impatto, con Ain’t No Good che ricade in certo easy listening che ogni tanto si insinua nei brani del nostro amico, e pure Honest Emotion, nonostante gli inserti acustici, fa sì che entrambe le canzoni siano meno valide, come pure Dark Side che però ha una bella melodia e qualche vago tocco alla Bacharach, grazie a fiati e archi. Anche If You Wanted To Hurt Me non mi piace molto, troppo simile al McDonald più leggerino del passato, meglio Beautiful Child dove si riprende il gusto per gli arrangiamenti complessi e raffinati al servizio della pop song, elementi che sono da sempre nel menu del buon Michael. Too Short ha sonorità Caraibiche e world miste all’errebì classico, quasi alla Paul Simon, con la conclusiva Free A Man, molto incalzante e ben suonata, che vira di nuovo verso una sorta di jazz-rock alla Steely Dan, grazie ad un liquido piano elettrico, al sax, ancora Scott e alla chitarra di Landau. Come per tutto il disco d’altronde, non parliamo di un capolavoro, ma di un album solido e molto piacevole, oltre che, come detto, assai raffinato.

Bruno Conti

A Proposito Di Belle Voci! Jo Harman – People We Become

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Jo Harman  – People We Become – Totale Creative Feed

Ogni tanto dal Regno Unito sbuca qualche nuova voce femminile interessante, con un repertorio musicale che può essere interessante per i nostri lettori: penso a Joss Stone, potenzialmente una delle migliori voci rock & soul moderne, ma che spesso paga le scelte non felici di produttori e compagni di viaggio, che quest’anno compie 30 anni e dovrà scegliere cosa vuole fare da grande http://discoclub.myblog.it/2012/07/23/ma-che-voce-ha-il-ritorno-di-joss-stone-the-soul-sessions-vo/ , ma anche la bravissima Rumer, in possesso di una voce deliziosa, dal phrasing perfetto e con uno smisurato amore (ricambiato) per Burt Bacharach, che a chi scrive piace moltissimo http://discoclub.myblog.it/2010/11/13/perfect-pop-rumer-seasons-of-my-soul/ , tra i nomi del passato forse si potrebbe paragonare, anche se non vocalmente, a Dusty Springfield. In mezzo a questi nomi ora arriva Jo Harman, giovane cantautrice del Southwest britannico, nata a Luton e cresciuta nel Devon, poi trasferitasi a Londra per dedicarsi alla musica. Nella sua musica si trova una passione per i classici della canzone inglese, Beatles, Cat Stevens, Moody Blues, oltre alla grande soul music americana, nella persona di Aretha Franklin (passione in comune con Rumer), nomi e musiche carpiti dalla discoteca dei genitori e poi usati nei primi passi nel mondo musicale.

Di lei si parla molto bene in questi giorni per l’uscita del presente People We Become, ma in passato ha già pubblicato un album autoprodotto nel 2013, e due dischi dal vivo, tra cui un Live At The Royal Albert Hall, pubblicato dalla BBC. Inserita nel filone soul e blues (dove ha ricevuto vari premi di categoria) mi sembra che Jo Harman si possa inserire a grandi linee  in quel ramo, dove fioriscono anche voci come Beth Hart, Dana Fuchs o Colleen Rennison dei No Sinner, oltre a cantautrici, più, come le potremmo definire, “confessionali”, quelle che si ispirano a Joni Mitchell o Laura Nyro, per volare alti, o, soprattutto Carly Simon, quella del primo periodo, con cui mi pare condividere il timbro vocale. Ovviamente i nomi citati sono semplici suggestioni, anche personali, che servono comunque ad inquadrare il personaggio: questo nuovo album è stato registrato in quel di Nashville, mi verrebbe da dire a cavallo tra la Music City più commerciale e il lato più rootsy e ricercato dell’altro lato di Nashville, Il produttore scelto per l’avventura americana è Fred Mollin, un canadese trapiantato nel Tennessee,  uno che ha lavorato con Jimmy Webb, Kris Kristofferson (il di recente ristampato Austin Sessions), ma anche in moltissime colonne sonore per la Disney: e anche i musicisti utilizzati, grandi professionisti, da Greg Morrow alla batteria, Tom Bukovac alla chitarra e il bravissimo tastierista Gordon Mote, hanno lavorato, da professionisti, con Blake Shelton, Faith Hill, Amy Grant e simili, ma pure con Bob Seger e i Doobie Brothers.

Scusate questo voler esser fin troppo didascalici, ma questo dualismo nel disco, a tratti, si sente: ci sono molti brani dove si percepisce a fondo il talento di questa giovane cantante e alcuni dove è coperto da esigenze di mercato; e così si alternano brani come l’iniziale No One Left To Blame, un brano rock tirato, con chitarre, tastiere e sezione ritmica in evidenza, che sembrano essere in competizione con la voce della Harman, e non sempre, anche se l’ugola è potente, vince lei, ma pur risentendo del suono fin troppo pompato,  la classe si percepisce e non siamo lontani dagli episodi più duri di Beth Hart o dei No Sinner. Ma poi quando si passa a una canzone come Silhouettes Of You veniamo proiettati in un sound molto seventies, alla Carly Simon, con piano ed una bella slide in evidenza, oltre alla voce calda e matura di Jo. Molto bella anche la lunga, oltre i sette minuti, Lend Me Your Love, una ballata che parte solo voce e piano, e poi si sviluppa in un notevole crescendo, con l’organo, le chitarre e il resto degli altri strumenti, fiati compresi. che entrano man mano, qualcuno ha riscontrato addirittura delle similitudini in fase di costruzione sonora con i Pink Floyd, il tutto cantato con grande autorità.

Eccellente anche Unchanged and Alone, partenza acustica per un’altra splendida ballata dal crescendo irresistibile, mentre The Reformation introduce elementi blues e rock, più duri e tirati, che evidenziano la voce grintosa. Changing Of The Guard, sempre con una bella slide, è più leggera e godibile, sempre vicina alla Carly Simon citata, con Person Of Interest, intima e raccolta, che esplora il sound più acustico che veniva utilizzato nel primo album, per poi esplodere nel riff di When We Were Young https://www.youtube.com/watch?v=LyWw7ixwKjs , che sembra un pezzo dei Doobie Brothers, e quando entra la voce di Michael McDonald alle armonie vocali ne hai la conferma, il singolo dell’album, che prosegue con The Final Page, altra traccia elettroacustica sulle ali di una malinconica lap steel, ancora con la bella voce di Jo Harman da gustare, e pazienza se nell’arrangiamento c’è qualche zucchero di troppo. Infine la conclusiva Lonely Like Me, altra ballata pianistica dai saliscendi sonori e con elementi gospel conferma il valore di questo nuovo talento prodotto dalla scena britannica.

Bruno Conti

Ancora Southern Rock, E Di Quello Ottimo! Holman Autry Band – Electric Church

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Holman Autry Band  – Electric Church – Holman Autry Band Self Released

Una domanda che era un po’ di tempo che non mi/vi ponevo: ma chi sono costoro? Biografia ufficiale della band: la Holman Autry Band viene dall’area della Georgia intorno a Athens, Danielsville per la precisione, sono un quartetto e venendo da “laggiù” era quasi inevitabile che facessero, a grandi linee, del southern rock. Sono al quarto album, questo Electric Church, e volete sapere una cosa? Sono veramente bravi, siamo proprio nell’ambito delle musica sudista Doc, di prima scelta. Con riferimenti al sound classico, quello di Lynryrd Skynyrd, Allman Brothers, loro aggiungono anche Gov’t Mule, un pizzico di Hank, e quindi country, ma anche i Metallica, qui in effetti è appena un “pizzichino”, probabilmente nel primo brano, una dura e tirata Friday Night Rundown, dove in effetti le chitarre ruggiscono, la batteria pesta duro, il cantato è maschio e potente, ma se dovessi indicare qualcuno come riferimento, penserei più ai primi Lynyrd Skynyrd, o al southern hard di gruppi come Blackfoot, Molly Hatchet e Point Blank. 

La formula della doppia chitarra solista funziona alla grande, la voce è poderosa e di notevole impatto, anche se non ho ancora inquadrato chi sia effettivamente la voce solista, visto che cantano in tre su quattro, Brodye Brooks, il chitarrista solista, Josh Walker, quello ritmico, ma anche solista se serve e il bassista Casey King. A completare la formazione il batterista Myers, o così riporta il libretto, però sul loro sito ha anche un nome di battesimo, Brandon. Pure la successiva Pennies And Patience ha un sound duro e vibrante, con le elettriche spesso in modalità wah-wah e la ritmica rocciosa, ma senza eccessi, con un suono limpido, curato dal produttore esecutivo John Keane, quello per intenderci che a inizio carriera era l’ingegnere del suono dei R.E.M., poi ha lavorato moltissimo con i Widespread Panic, ma anche Cracker, Bottle Rockets, Jimmy Herring, le Indigo Girls e una miriade di altri artisti di quelli “giusti”, insomma un ottimo CV. Se serve si mette anche in azione alla steel guitar, come nella notevole The Fall, una hard ballad elettroacustica a cavallo tra country e southern di eccellente fattura, belle armonie vocali. Ottima anche Things I’d Miss, costruita intorno ad un giro di basso, che poi sfocia nel groove in crescendo di un southern boogie dove si respirano profumi anni ’70, tra Charlie Daniels e Marshall Tucker Band, con le chitarre che si rincorrono gioiosamente secondo i migliori stilemi del genere, e con Brooks che è effettivamente un notevole solista; effetto ancora più accentuato nella splendida title-track, dove Natalie McClure aggiunge l’organo e una slide incisiva si erge a protagonista dell’arrangiamento avvolgente del brano, di nuovo senza nulla da invidiare alle migliori band dell’epoca d’oro del rock sudista, come evidenziato in una brillante coda strumentale dove sembra di ascoltare Derek Trucks o Warren Haynes, se non Duane Allman o Toy Caldwell.

Molto bella anche una Home To You a tutto riff e ritmo, con elementi anche dei Doobie Brothers più gioiosi (insomma da tutto questo profluvio di nomi avrete capito che sono veramente bravi), con le due chitarre che si rincorrono con libidine dai canali dello stereo. Non manca anche un bel brano come Good Woman, Good God, dove emergono elementi funky/R&B sempre inseriti in un tessuto rock-blues. Ma pure nella seconda parte quando si passa ad un suono in parte più intimo e raccolto, con maggiori tocchi country, sempre fluido e raffinato, come in Last Rites che sembra pescata da un brano del miglior songbook della Marshall Tucker Band, splendido il lavoro delle chitarre, o la dolce Sunset On The Water, che senza essere zuccherosa rimanda a gruppi come i Reckless Kelly o gli Avett Brothers, nei loro momenti più romantici. Scusate i continui rimandi ma ci si capisce meglio, poi non vuole essere inteso in senso letterale ed assoluto, e non è neppure mera imitazione, diciamo più la continuazione di una tradizione che si “rinnova” con nuove forze. Eccellente anche The Grass Can Wait, ancora più marcatamente country, ma sempre con un finissimo lavoro della solista che raccorda un suono d’insieme veramente di gran classe. Infine ancora più “morbida” October Flame, dove si riscontrano persino elementi quasi pop, una melodia semplice ed orecchiabile, ma coniugata con gusto e misura, il tutto proposto in modo sempre vario e diversificato in tutto l’album, più rude e maschio nella prima parte, più raccolto e raffinato nella seconda. Comunque confermo, veramente bravi!

Bruno Conti