Anche Meglio Dell’Album Precedente! Tyler Childers – Country Squire

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Tyler Childers – Country Squire – RCA/Sony CD

Tyler Childers, giovane musicista originario del Kentucky, è uno dei più fulgidi talenti venuti fuori negli ultimi anni in ambito Americana. Indicato da Colter Wall come suo artista preferito, Tyler (che aveva alle spalle un poco fortunato album d’esordio uscito nel 2011, Bottles And Bibles) aveva risposto agli elogi pubblicando l’ottimo Purgatory, validissimo lavoro di moderno country d’autore https://discoclub.myblog.it/2017/09/04/eccone-un-altro-bravo-questa-volta-dal-kentucky-e-lo-manda-sturgill-simpson-tyler-childers-purgatory/  prodotto da Sturgill Simpson (*NDB Anche se l’ultimo album di Simpson, di cui leggerete prossimamente, è secondo me uno dei dischi più brutti degli ultimi anni, uomo avvisato!)  e David Ferguson, un disco che aveva fatto notare il nostro in giro per l’America facendolo entrare anche nella Top 20 country. E siccome squadra vincente non si cambia, Tyler ha ora bissato quel disco con Country Squire, album nel quale il ragazzo si fa ancora aiutare da Simpson e Ferguson e che mentre scrivo queste righe è già arrivato al numero uno della classifica country ed al dodicesimo posto della hit parade generale di Billboard.

Childers però non ha cambiato una virgola del suo suono per entrare in classifica, ma ha proseguito il discorso intrapreso con Purgatory (copertina orrenda compresa, forse bisognerebbe consigliargli un buon grafico): musica al 100% country, con elementi rock, folk e bluegrass nel suono ed una facilità incredibile nello scrivere canzoni belle ed orecchiabili ma non banali. Ed a mio parere Country Squire è ancora meglio del già positivo Purgatory, con il suo country moderno ma con più di un occhio al passato: merito innanzitutto della bellezza delle canzoni, ma anche del lavoro in consolle dei due produttori che hanno messo a disposizione una serie di musicisti dal pedigree notevole, gente del calibro di Stuart Duncan al violino e mandolino, Russ Pahl alle chitarre e steel, David Roe al basso e Bobby Wood alle tastiere. Nove canzoni per 35 minuti di musica e non un secondo da buttare (anzi, non mi sarei di certo offeso con una decina di minuti in più). L’inizio del CD, ad opera della title track, è splendido: una limpida e spedita country song di stampo classico e con un motivo di presa immediata, voce adeguata ed un antico sapore di Bakersfield Sound, con apprezzabili interventi di violino, piano e steel.

Bus Route, pur rimanendo in ambito country, è più attendista e presenta cromosomi sudisti: strumentazione acustica e gran lavoro di violino; Creeker è una delicata ballata quasi texana nel suo incedere, dallo sviluppo fluido ed una linea melodica intrigante, mentre Gemini è una deliziosa e saltellante country tune che ha il sapore antico dei brani di Hank Williams, anche se l’arrangiamento è attuale e non manca la chitarra elettrica. Con House Fire siamo in ambito bluegrass, un brano suonato con perizia degna di consumati pickers ed un alone tradizionale, anche se dopo poco più di un minuto la canzone si elettrifica spostandosi decisamente al Sud; Ever Lovin’ Hand è puro country d’altri tempi, ancora con elementi californiani nel suono (la vedrei bene rifatta da Dwight Yoakam), Peace Of Mind riporta invece il disco in Texas, per una sorta di valzerone davvero godibile e ben eseguito. L’album si chiude con All Your’n, bellissima ballad pianistica in puro stile country-got-soul, dal suono caldo e con un motivo ad ampio respiro (tra le più belle del CD), e con Matthew, slow song acustica con ottimi intrecci sonori tra chitarre, mandolino, violino e banjo.

Con Country Squire non solo Tyler Childers ha migliorato la sua proposta musicale, ma da artista promettente si è trasformato in nome su cui contare quasi a scatola chiusa.

Marco Verdi

Vera American Music…Da Pisa! Luca Rovini & Companeros – Cuori Fuorilegge

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Luca Rovini & Companeros – Cuori Fuorilegge – Luca Rovini CD

Proporre del sano country-rock oggi in Italia è molto più che di nicchia, è quasi da incoscienti, dato che ormai la musica che impera sempre di più nelle radio ed in TV è quanto di peggio si possa anche solo immaginare. Ma per fortuna qualche coraggioso ancora c’è, e tra questi un posto in prima linea lo occupa sicuramente Luca Rovini, musicista originario di Pisa ma con il cuore in America, che con le sue sole forze ha già pubblicato tre album ed un EP, oltre a girare la nostra penisola in lungo e in largo. Confesso di non conoscere i lavori precedenti di Luca, ma questo suo nuovissimo CD, Cuori Fuorilegge (realizzato attraverso il crowdfunding), mi ha fatto saltare sulla sedia. Rovini con queste dodici canzoni dimostra innanzitutto che si può fare ottima musica di matrice country-rock anche cantando in italiano, nonostante la nostra metrica sia molto diversa da quella anglosassone, ovviamente senza rinunciare a testi profondi e sentiti: Cuori Fuorilegge è dunque un disco sorprendente, musica vera e fiera, suonata con piglio da vera rock band da Luca e dai suoi Companeros (Peter Bonta, che è anche il produttore del disco, alle chitarre, piano ed organo, Flaco Siegals alla fisarmonica, Andrea Pavani al basso, Gary Crockett alla batteria e Chiara Giacobbe, ex Lowlands al violino, con in più la nostra vecchia conoscenza Paolo Ercoli alla steel guitar).

Come vedete strumenti veri, che poco hanno a che fare con i suoni italici, una ventata d’aria fresca che, se ci fosse un po’ di giustizia, farebbe emergere il nome di Luca a livello non solo nazionale, ma anche al di fuori dei nostri confini. Il disco (che reca una commossa dedica a Stefano Costagli, batterista della road band di Luca, scomparso pochi mesi fa a soli 56 anni) ci proietta immediatamente in America, in un punto a metà tra California e Texas, con l’iniziale Senza Gambe Né Parole: ritmo sostenuto, gran spiegamento di chitarre, voce espressiva e melodia limpida, un avvio decisamente incoraggiante. Con Fuorilegge continua la festa rock’n’roll, con un brano chitarristico e trascinante, molto più rock che country, nobilitato da un refrain vincente e da un eccellente assolo di Bonta, mentre Honky Tonk Senorita, come suggerisce il titolo, è una deliziosa country tune dal ritmo spedito e con la guizzante steel di Ercoli sullo sfondo, ma dal mood sempre rock, alla Dwight Yoakam. Al Tavolo Di Un Altro inizia come una toccante ballata, impreziosita da un languido violino, poi il ritmo aumenta ed il brano si trasforma in una country song pura (con uno stile che da noi hanno solo Luigi Grechi e pochissimi altri).

Sei Giorni Sulla Via è l’unica cover del disco, e altro non è che il famoso inno per camionisti Six Days On The Road (da noi l’aveva già tradotta in passato Ricky Gianco con il titolo Questa Casa Non La Mollerò, ripresa di recente dai Gang sul loro Calibro 77, ma questa versione di Luca ha il testo più in linea con l’originale): puro rock’n’roll, impossibile stare fermi, splendida rilettura. La dura (nel testo) Non Mi Avranno Mai ha un ritmo spezzettato ed un riff insistente, ma è un gradino sotto le precedenti, Parole In Regalo è invece un’oasi bucolica tenue e gentile, con un bel accompagnamento acustico nel quale spicca il mandolino, mentre con Vite Di Contrabbando torniamo al rock, per uno dei pezzi più energici e trascinanti del CD, rock’n’roll allo stato puro, del tipo che in Italia si fa molta fatica a sentire. Non Con Me, tersa, godibile e solare, precede la bellissima Viaggiatore Stanco, altro scintillante country-rock dal sapore californiano, e la struggente Tutti I Tuoi Giorni. Il CD si chiude con Nuda Sull’Aurelia, ennesimo rock’n’roll dal ritmo irresistibile, degno finale per un disco sorprendente, che dimostra che in Italia c’è ancora chi non ha perso la voglia di fare grande musica e che, proprio per questo, va sostenuto con tutte le forze.

Marco Verdi

Un Esordio Fulminante: Garantisce La “Regia” Di Dwight Yoakam! King Leg – Meet King Leg

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King Leg – Meet King Leg – Sire/Warner CD

Devo essere sincero: mi sono avvicinato a questo disco solo quando ho visto che il produttore era Dwight Yoakam, cosa resa ancora più interessante dal fatto che colui che io considero il miglior countryman degli ultimi trent’anni solitamente non presta i suoi servizi su album altrui (perfino i suoi ha iniziato a produrli da poco, cioè da quando ha interrotto la sua lunga collaborazione con Pete Anderson). King Leg è una band proveniente da Los Angeles, ma può benissimo essere considerato anche il nome d’arte del suo leader Bryan Joyce, un rocker originario del Nebraska che del gruppo è cantante solista, autore dei brani e chitarrista ritmico (gli altri membri rispondono ai nomi di Stefano Capobianco – dalle chiare origini – alla chitarra solista, Kelly King alla batteria, Daniel Rhine al basso e tastiere e Dylan Durboraw al calliope, una sorta di strano organetto vintage che fa molto Tom Waits). Dopo aver mosso i primi passi a Nashville, Joyce/King Leg si è spostato a L.A., dove è stato notato dal leggendario Lenny Waronker, uno che nella sua carriera credo abbia imparato a riconoscere il talento, che lo ha voluto nei Capitol Studios ad incidere il suo debut album per la Sire, altra etichetta dal glorioso passato.

Ed il disco, Meet King Leg (uscito lo scorso Ottobre) è una piccola bomba, un concentrato davvero stimolante di rock’n’roll, pop, atmosfere vintage ed un vago approccio punk in alcuni brani: la presenza di Yoakam ha garantito il fatto di avere un suono perfetto (ed infatti è davvero scintillante), molto basato sulle chitarre, anche se lo stile di Bryan non è per niente country (tranne che in un pezzo), ma piuttosto una fusione di puro rock californiano alla Tom Petty con atmosfere alla Byrds, qualcosa dei Ramones ed un grande amore per Roy Orbison (anche dal punto di vista vocale ci sono dei riferimenti, ed anche una certa somiglianza con Morrissey, ed infatti a Nashville il nostro per un periodo ha guidato una cover band degli Smiths). Capisco che letti così questi nomi potrebbero fare anche a pugni, ma credetemi se vi dico che, come inserirete il CD nel lettore, tutto si amalgamerà subito alla perfezione: per certi versi questo disco mi fa venire in mente l’esordio degli Shelters (lì il produttore era Petty), la stessa bravura, lo stesso tipo di canzoni dirette (anche se in quel caso erano più rock), la stessa freschezza nella proposta musicale. E Dwight, che non è uno sprovveduto, ha addirittura voluto che Joyce e compagni aprissero i suoi concerti. Apre il CD Great Outdoors (che è anche il primo singolo), un brano tra rock’n’roll e power pop, con un gran ritmo, chitarre jingle-jangle ed un motivo molto diretto, condito dalla caratteristica voce tenorile di Bryan.

Cloud City è una rock ballad decisamente particolare: dopo un inizio acustico ed attendista il suono si elettrifica di brutto, con la sezione ritmica che pesta alla grande ed il nostro che gorgheggia da par suo. La deliziosa Walking Again è un honky-tonk elettrico, unico pezzo vicino al sound di Yoakam, guizzante e chitarristico, mentre Another Man è una ballata gentile e squisita, puro folk cantautorale, che ci fa capire che i nostri hanno parecchie frecce al loro arco. Your Picture è un coinvolgente pop’n’roll ancora con il suono ruspante delle chitarre ben in evidenza (ed un bellissimo ancorché breve assolo di slide), Comfy Chair è uno slow profondo, fluido e toccante, ma con la sua bella dose di rock che entra sottopelle, con una chitarrina molto anni sessanta (in pratica una grande canzone), ed è unita in medley alla tersa A Dream That Never Ends, uno splendido brano in puro stile vintage, alla Orbison, cantato molto bene e col solito bellissimo tappeto di chitarre, una delle migliori e più evocative del CD. Wanted è ritmata, limpida ed orecchiabile ancora tra The Big O e Tom Petty, con una melodia deliziosamente fruibile, Loneliness è un’ottima e solare pop song, anch’essa potenzialmente un singolo di grande presa: più va avanti e più mi sento di metterla tra le meglio riuscite. Il disco si chiude con la cristallina Seeing You Tonight, decisamente pettyiana e con il consueto splendido suono di chitarra, la strepitosa Moaning Lisa Screaming, con il suo bel chitarrone alla Duane Eddy, una rock song strumentale nella quale però Bryan si produce in suggestivi vocalizzi, e con la cover di Running Scared, proprio il classico di Orbison: materia pericolosa, ma Joyce e compagnia se la cavano alla grande, e senza fare il verso al leggendario rocker texano, senza sfigurare neppure nel famoso crescendo finale.

Ci sarà stato anche l’aiutino dalla regia (Dwight Yoakam), ma i King Leg si dimostrano un gruppo coi controfiocchi e Bryan Joyce un frontman con carattere, personalità e talento: alla faccia di chi pensa che il rock’n’roll sia morto o morente.

Marco Verdi

Non Solo “Mandriani”, Ma Anche Ottimi Countrymen! Matt & The Herdsmen – Still Sane

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Matt & The Herdsmen – Still Sane – Smith Entertainment CD

Nonostante Jason Isbell affermi che il vero suono di Nashville sia ben altro, è indubbio che la situazione qualitativa della musica country nella capitale del Tennessee sia poco più che desolante, e spesso per trovare dischi che meritino attenzione bisogna rivolgersi ad altre piazze. Il Texas è sicuramente una di queste, e proprio dal Lone Star State provengono Matt & The Herdsmen, un quintetto originario di Edinburg, una cittadina che sorge proprio nella punta più a Sud dello stato: il gruppo ha già un disco alle spalle, Small Town Stories (2014), un album che è stato un piccolo successo a livello locale, e già con questo secondo lavoro, intitolato Still Sane, lo scopo dei cinque è certamente quello di espandere la propria popolarità, ma solo con l’ausilio della buona musica. Sì, perché i ragazzi (Matt Castillo è il leader, voce principale ed autore di tutti i brani, coadiuvato dai “mandriani” Everto Cavazos alle chitarre, Danny Salinas al basso, Ruben Cantu alla batteria ed Omar Oyoque alla steel) fanno del vero country, di quello sano e diretto, con le chitarre sempre in primo piano ed un notevole senso del ritmo, il tutto con l’ausilio solo degli strumenti e delle loro voci, senza diavolerie di studio ad opera di produttori di grido (alla consolle qui c’è David Percefull, uno che ha lavorato con Brandon Jenkins, Jason Boland e Cody Canada, quindi un tipo giusto).

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https://www.youtube.com/watch?v=AYLENCHhYh8

Come se non bastasse, Castillo sa anche scrivere delle buone canzoni, e dunque Still Sane non fatica ad essere uno dei migliori album di country degli ultimi tempi: a conferma di questo, in session troviamo anche i nomi di Kim Deschamps dei Blue Rodeo e di Bukka Allen (figlio di Terry), due che si muovono solo se fiutano buona musica. Il disco si apre con I Don’t Love You Anymore, un rock’n’roll ruspante, energico e robusto, con le chitarre a manetta, gran ritmo ed un ottimo refrain, decisamente vicino alle prime cose di Steve Earle (ed anche con la voce siamo da quelle parti). Hello Heartache è più country, ma fatto alla maniera texana, un honky-tonk elettrico di grande presa, con una guizzante steel ed ancora una ritmica sostenuta, così come Right Hand Man, vivace country-rock tra modernità e tradizione, un tipo di musica che anche uno come Dwight Yoakam approverebbe, davvero godibile.

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https://www.youtube.com/watch?v=vhbDlMEMX1Y

Miss My Chance è più roccata, fin dal riff chitarristico iniziale, ed è uno di quei pezzi che danno il loro meglio se ascoltati in macchina, magari sotto un cielo azzurro, Wait For Me è più gentile, anche se il ritmo è sempre mosso, la steel ricama bene sullo sfondo e spunta anche una fisarmonica, suonata da Allen Jr., mentre Still Sane è puro country, delizioso e diretto, una delle più limpide ed orecchiabili del CD. Molto bella anche She Won’t Cry, un rockin’ country terso e vibrante, sempre con le chitarre in gran spolvero e senza il minimo cedimento a sonorità commerciali; 7th Street è la prima ballata (all’ottavo brano, quantomeno insolito), ma anche qui la strumentazione è ricca e priva di mollezze. Il CD si chiude con Let You Go, altra country song dalla melodia pura e fruibile, la fluida Find Our Love Again e la squisita For You, un country & western elettrico e potente, con una chitarra knopfleriana, degna conclusione di un disco bello, sorprendente e, perché no, inatteso.

Marco Verdi

Scrive, Canta E Suona…E Fa Tutto Bene! Rudy Parris – Makin’ My Way

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Rudy Parris – Makin’ My Way – Warrior CD

Rudy Parris, countryman californiano di origine pellerossa (e lo avevo capito ancora prima di documentarmi, basta guardarlo in faccia) è in giro da diversi anni, anche se Makin’ My Way è il suo esordio come musicista in proprio. Diventato famoso con la terza edizione del talent americano The Voice (ma niente paura, in America sono un filo meglio dei nostri)), Rudy ha subito dimostrato di non essere un burattino, ma anzi si è messo in mostra, inizialmente come chitarrista, diventando in breve tempo il solista della band di Hank III, uno che non scherza (quando non pubblica ciofeche pseudo-metal). E Makin’ My Way rivela un talento vero, non solo alla sei corde, ma anche come songwriter e cantante: Rudy è infatti in possesso di una bella voce, con sfumature soulful, che gli consente di essere incisivo anche nei brani più a sfondo sudista; in più, il suo è un country ad alto tasso elettrico e ritmico, che, un po’ come nel caso di Dwight Yoakam (ma non siamo ancora a quei livelli) parte dal Bakersfield Sound di Buck Owens e Merle Haggard, principali fonti d’ispirazione per Rudy, per costruire una serie di canzoni energiche, vigorose, piene di ritmo e feeling, mantenendo la guardia alta anche nelle ballate.

Il disco, prodotto da Parris stesso con Jim Ervin, e suonato da un gruppo non molto noto ma sicuramente tosto di turnisti, non è stato inciso neppure a Nashville, bensì nei leggendari studi Capitol di Los Angeles, ed anche questo è un indizio sul fatto che il nostro non è un fantoccio ma un musicista vero, fisicamente è la classica “personcina”. Rudy usa tutti gli strumenti canonici, come violino, steel e banjo, ma le chitarre prendono quasi sempre il sopravvento, assistite in ogni momento da una sezione ritmica rocciosa, come si evince dal brano d’apertura, la grintosa Party Out Back, dove violino e steel sono al loro posto ma l’assolo principale è di slide, ed il ritmo è parecchio sostenuto https://www.youtube.com/watch?v=-2SWVghPES0 . Cowboy Cry è più fluida e rilassata, comunque un solido esempio di country che sta dalla parte giusta, mentre la title track, introdotta da un suggestivo talkin’ di Michael Madsen (uno degli attori-feticcio di Quentin Tarantino) è uno dei pezzi centrali del disco, una gustosissima square dance song con interventi vocali proprio di Hank III, oltre che di Little Joe (musicista texano-messicano leader di Little Joe Y La Familia) e la chitarra del grande Pete Anderson: un brano che mette di buon umore con il suo ritmo coinvolgente e la melodia trascinante.

Angels Can Fly è una toccante ballata con elementi californiani (infatti ha qualcosa degli Eagles più romantici); per contro Miles Away è una pura rock song, introdotta da un riff di chitarra duro come la roccia, un brano robusto e decisamente southern, seguito a ruota dall’intrigante Mini Van, country rock elettrico puro e semplice, ancora con ritmo acceso e ritornello godibile. La vibrante Zombies Dressed In Abercrombie (bel titolo), ancora tesa e roccata, precede lo slow If I Could Only Have You, forse un po’ meno ispirata delle precedenti, anche se la sua melodia ruffiana potrà essere la chiave giusta per aprirsi diversi passaggi radiofonici. My Halo, preceduta ancora da un breve parlato di Madsen, è puro country, saltellante e solare, una delle più dirette del CD; disco che termina con la ruspante Sho Is Fine, la tosta ed altamente chitarristica Swamp Cooler (che dimostra la forza del nostro), e la tenue e bucolica Down The Road, anch’essa caratterizzata da uno squisito refrain.

Era tempo che Rudy Parris ci facesse sentire la sua voce, e Makin’ My Way è l’affermazione di un talento di cui, speriamo, sentiremo ancora parlare.

Marco Verdi