Una Sorta Di Antologia Rivisitata Per Celebrare Un Grande Cantautore. Grayson Capps – South Front Street A Retrospective 1977-2019

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Grayson Capps – South Front Street: A Retrospective 1997-2019 – Royal Potato Family Records

Grayson Capps è il classico artista di culto: questo non è per dire che non sia (o non sia stato) conosciuto, in fondo la sua vicenda si sviluppa da quella del padre Everett, predicatore battista, ma anche uomo dai mille lavori per mantenere la famiglia in quel di Opelika, Alabama (dove il figlio Grayson nasce nel 1967), autore di un romanzo inedito, da cui in seguito è stata tratta la sceneggiatura del film, sempre di culto, A Song For Bobby Long (con Scarlett Johansson e John Travolta) nel quale Capps figlio appariva anche come attore ed autore di quattro brani della colonna sonora. Quindi diciamo che il suo background culturale ha sempre fatto da sfondo a canzoni che raccontano storie, anche dure e al limite, provenienti dal profondo Sud degli Stati Uniti, sia zone rurali che vicino a fiumi e al mare, dal Mississippi all’amata New Orleans, dove ha vissuto a lungo, fino all’arrivo dell’Uragano Katrina che gli ha distrutto la casa dove abitava con la famiglia.

Famiglia, da allora trasferita a Mobile, Alabama, dove vive con lui, sono una coppia da una ventina di anni, anche la moglie Trina Shoemaker, produttore ed ingegnere del suono, con tre Grammy vinti ed altrettante nomination, tra le più popolari nel mondo della musica di qualità, famosa soprattutto per i suoi lavori con Sheryl Crow, ma anche con una lista di clienti lunga come un elenco telefonico (se esistessero ancora), e che comunque in passato ha lavorato spesso con il marito, ma per l’occasione ha deciso di creare questa inconsueta antologia (o retrospettiva, come rimarca il sottotitolo del CD). Trina ha preso sedici canzoni dal repertorio di Grapps, ci ha costruito una sequenza intorno, le ha remixate, ripulite dove occorreva, pescando anche tra quelle meno note, e il risultato, pur essendo già noto in gran parte ai cultori di Grayson, che ha pubblicato dischi sotto forma di antologia anche per l’italiana Appaloosa (il secondo dischetto di Love Songs, Mermaids and Grappa del 2015), o solo in digitale nella raccolta Best of Grayson Capps: A Love Song for Bobby Long, uscita per il download nel 2011.

Sembra quasi un album nuovo, da scoprire e gustare anche per chi non conoscesse i talenti di questo splendido cantautore, tra blues, southern, Americana, country, con una voce caratteristica ma che potrebbe rimandare, come attitudine almeno, a quelle di John Hiatt, Anders Osborne (un altro che frequenta la Louisiana), o al Tom Waits meno ermetico, financo il re dello swamp Tony Joe White, insomma uno bravo, anzi molto bravo. Come detto in South Front Street, perfetto anche il titolo, troviamo 16 canzoni, non in ordine cronologico, di cui alcune splendide e alcune “solo” molto belle: Get Back Up, scritta in Louisiana “Yesterday was a very fine day indeed, I got a pint of beer, went outside and brushed my teeth”, è un tipico esempio dello stile più laidback e bluesy di Capps (che qui secondo me presenta anche delle analogie con Mellencamp), apparsa sul “debutto” If You Knew My Mind del 2005 e prima anche nel CD degli Stavin Chain, chitarra acustica, resonator guitar e armonica, una sezione ritmica discreta e l’ascoltatore è subito ben servito; May We Love una delicata e deliziosa canzone d’amore, degna del meglio della canzone d’autore americana, con controcanto femminile e mandolino in evidenza, era sul doppio Appaloosa Love Songs, Mermaids and Grappa, mentre Train Song, era sempre sul disco Stavin Chain, è una blues song degna del miglior Ry Cooder, di nuovo con slide in bella mostra.

La poetica New Again, dall’ultimo disco del 2017, il trascurato Scarlett Roses  https://discoclub.myblog.it/2018/04/03/rose-rosse-che-profumano-di-ottima-musica-grayson-capps-scarlett-roses/ , è un’altra splendida ballata con chitarra arpeggiata e armonica e, con Dylan LeBlanc, uno spirito affine alle armonie vocali, cantata in modo rilassato e partecipe da Grayson. Viene recuperata anche Junior and the Old African Queen da Songbones del 2007, un altro acquarello sudista di impronta bayou, con armonica, violino e chitarra acustica ad evidenziare la splendida voce di Capps, che poi scatena il suo fascino di storyteller nel blues marcato e quasi danzante, sempre segnato da chitarre elettriche sognanti, di Hold Me Darlin’, mentre Arrowhead, dal poco noto Rott’n’Roll del 2008, solo voce e acustica, è sempre deliziosa. A Love Song For Bobby Long, oltre che nella colonna sonora del film, era presente anche in If You Knew My Mind, un’altra canzone da storyteller solitario, Psychic Channel Blues, di nuovo da Songbones, presenta un altro dei suoi tipici personaggi che popolano le strade e i vicoli di New Orleans, una malinconica ballata in crescendo, degna del miglior Tom Waits, con grande interpretazione vocale del nostro e un bel solo di chitarra, come pure Washboard Lisa in pochi tratti presenta un altro “carattere” ai margini, con una narrazione sonora attraversata da un violino intrigante e dall’armonica, un insieme che mi ha ricordato il miglior Dirk Hamilton.

I Can’t Hear You è uno dei rari brani rock, presente nel primo album come pure in Songbones, un pezzo vibrante con chitarre e ritmica pressanti, una voce femminile di supporto (forse Trina), e Rock’n’Roll da The Last Cause Minstrels del 2011, è un folk-rock palpipante con retrogusti blues, dove si apprezza la chitarra del fedele Corky Hughes, Daddy’s Eyes, da Wail And Ride del 2006, come la precedente, è tra le più belle canzoni di Grayson (ma ce ne sono di scarse?). If You Knew My Mind, la title track del primo album (il più rappresentato con quattro canzoni) è un’altra blues ballad con uso di resonator, sempre con la voce maschia del nostro in grande spolvero, e sempre dallo stesso disco I See You un altro brano che ricorda grandi cantautori dimenticati degli anni ‘70, oltre a quelli citati finora, tra cui Dirk Hamilton, ricorderei anche Guthrie Thomas, al solito esiziale l’uso dell’armonica. In chiusura la lunga Harley Davidson, altra rock song, con elettrica fremente sullo sfondo, degli Stavin Chain, che chiude alla grande un disco da ascoltare e riascoltare a lungo.

Bruno Conti

Pop Californiano Dalla Louisiana? Si Può! Dylan LeBlanc – Renegade

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Dylan LeBlanc – Renegade – ATO CD

Dylan LeBlanc, originario della Louisiana, è un interessante songwriter attivo dal 2010, che ha già pubblicato tre album nella presente decade. Figlio di James LeBlanc, musicista in proprio a sua volta e sessionman di stanza ai mitici Muscle Shoals Studios (e non di Lenny LeBlanc, cantante degli anni settanta che, insieme a Pete Carr, ebbe un moderato successo con la canzone Falling), Dylan ha però poco da spartire con la musica tipica della sua terra, e con il Sud in generale https://discoclub.myblog.it/2010/08/24/giovani-virgulti-crescono-1-dylan-leblanc-paupers-field/ . Infatti la sua proposta è più vicina a certo pop-rock californiano degli anni settanta (in certi momenti mi fa pensare ai Fleetwood Mac), con melodie orecchiabili ma non banali ed un suono comunque basato sulle chitarre e su ritmi pimpanti e coinvolgenti. Renegade è il titolo del suo quarto album, che conferma il percorso sonoro del nostro ma con qualche passo in avanti sia a livello di composizioni, che sono tutte estremamente gradevoli e riuscite, che di sound, essendosi affidato alle sapienti mani di Dave Cobb. E Cobb, nonostante per una volta non abbia a che fare con sonorità roots (ma vorrei ricordare che in anni recenti ha prodotto anche gruppi come Europe e Rival Sons) se la cava comunque egregiamente, riuscendo a dare ai brani di LeBlanc un deciso feeling anni settanta, avvicinandosi quasi allo stile delle ultime produzioni di Dan Auerbach.

Oltre a Dylan e Dave, che suonano quasi tutte le chitarre e Cobb anche il mellotron, in Renegade troviamo un gruppo ristretto ma capace di musicisti, che comprende James Burgess IV alla chitarra elettrica, Spencer Duncan al basso, Jon Davis alla batteria e Clint Chandler alle tastiere. L’album parte molto bene con la title track, una rock song di ampio respiro, ritmata, elettrica, con una accattivante melodia di presa immediata ed un chiaro sapore seventies: in un mondo perfetto potrebbe addirittura essere un singolo vincente. Born Again è un delizioso pop-rock dal motivo diretto, belle chitarre jingle-jangle ed un altro refrain di quelli che piacciono al primo ascolto: Dylan ha una voce molto melodiosa, quasi femminile, che si sposa molto bene con questo tipo di arrangiamenti. Bang Bang Bang ha un ritmo pulsante ed è piacevole e orecchiabile, decisamente pop nonostante un uso pronunciato delle chitarre (è in pezzi come questo che penso all’ex gruppo di Lindsey Buckingham), Domino è quasi un blue-eyed soul dallo sviluppo sempre diretto, reso più sudista dall’uso del piano elettrico, mentre I See It In Your Eyes è un altro squisito pezzo di quelli dal motivo limpido che piace dopo pochi secondi, con una strumentazione che evoca un certo rock radiofonico del passato (quando in radio non passavano le ciofeche di oggi).

Damned ha una linea melodica che ricorda in parte certe cose di Neil Young, anche se l’accompagnamento è puro power pop, con le chitarre che mordono e la sezione ritmica che non si tira certo indietro; Sand And Stone è uno slow elettroacustico che abbassa un po’ la temperatura, ma Lone Rider è una delle più belle, una ballatona tersa e molto californiana, con piano e chitarre in evidenza ed un retrogusto malinconico. Chiusura con l’intrigante Magenta, altro limpido pop-rock stavolta con un piede negli anni sessanta, e con l’intima Honor Among Thieves, solo voce, chitarra e poco altro, ma con un quartetto d’archi che aggiunge pathos al tutto.  Non lasciatevi trarre in inganno dalle sue origini: Dylan LeBlanc è più californiano di tanti songwriters nati a Los Angeles e dintorni.

Marco Verdi

Rose Rosse Che Profumano Di Ottima Musica! Grayson Capps – Scarlett Roses

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Grayson Capps – Scarlett Roses – Appaloosa Records/Ird

Sei anni separano quest’ultimo lavoro di Grayson Capps dal precedente The Lost Cause Minstrels, un lungo periodo di tempo in cui il songwriter dell’Alabama si è dedicato con esiti positivi al progetto Willie Sugarcapps, il gruppo formato insieme a Will Kimbrough, Corky Hughes e al duo Sugarcane Jane, ovvero Savana Lee ed Anthony Crawford. Insieme a loro ha pubblicato due albums, l’omonimo del 2013 e Paradise Right Here, uscito giusto due anni fa, nell’aprile del 2016. Due buoni dischi che esprimevano le comuni radici dei protagonisti, dal blues al folk, al country rock ruspante della parte southern degli States. Ciò che era rimasto in sospeso quindi, non era tanto l’approccio alla musica, quanto soprattutto la sua evoluzione nel ruolo di autore di testi, da sempre una delle sue migliori caratteristiche. E questi anni, trascorsi a ricostruire una famiglia con l’attuale compagna Trina Shoemaker (stimata produttrice ed ingegnere del suono, premiata anche con il Grammy), lo hanno fatto crescere come uomo oltre che come musicista. Lo ha potuto constatare chi era presente alle date del suo tour italiano dello scorso novembre, in cui Grayson, oltre a presentare i nuovi brani in compagnia del fido Hughes e del nostro ottimo chitarrista J. Sintoni, ha descritto con divertenti introduzioni alcuni dei bizzarri personaggi che popolano le sue canzoni.

Il nuovo CD Scarlett Roses è dunque sotto ogni aspetto il suo lavoro più convincente e maturo, registrato in parte a Mobile, la località dell’Alabama dove attualmente risiede, e in parte nei Dockside Studios di Maurice, in Louisiana. Il disco si apre con l’intensa e nostalgica title track, appassionata rievocazione di un amore ormai finito, irrobustita dai pregevoli fraseggi della chitarra elettrica di Corky Hughes. Hold Me Darlin’ è un blues dal ritmo spigliato che profuma di New Orleans, dobro e lap steel giocano a rincorrersi mentre Grayson canta in tono ironico e rilassato. Bag Of Weed è uno di quei brani che ti entrano sottopelle per non uscirne più, viene voglia di battere le mani seguendone la cadenza e cantandone il ritornello all’infinito, ottima la trovata di mixare la prima parte in studio con un finale dal vivo che si chiude tra gli applausi (meritati). Il ritmo da rock blues schizofrenico che accompagna You Can’t Turn Around ci spinge a muovere ancora il piedino, Hughes e la sua chitarra fanno faville mentre Capps chiude in scioltezza un altro dei suoi sapidi racconti noir. In Thankful l’atmosfera è decisamente più solare, sulle squillanti note di un country rock molto sudista nella forma, a metà strada tra i Lynyrd Skynyrd e Waylon Jennings.

Se già è da considerarsi più che apprezzabile ciò che abbiamo ascoltato fin’ora, la parte migliore di Scarlett Roses deve ancora venire, a cominciare dal prezioso brano intitolato New Again. Un delicato arpeggio e una languida armonica ci introducono in questa sognante folk ballad, un vero e proprio gioiello acustico che vede la partecipazione nel ritornello dell’amico e collega Dylan LeBlanc. Hit Em Up Julie è, per contrasto, un ruvido blues con slide ed armonica a condurre la danza, adeguata introduzione all’episodio più atipico e sorprendente dell’intero lavoro, intitolato Taos. Nei suoi otto minuti e mezzo di crepitanti assoli e distorsioni chitarristiche Grayson ci catapulta in un mondo febbricitante e lisergico, che tanto ricorda le epiche cavalcate elettriche dei Crazy Horse degli anni settanta https://www.youtube.com/watch?v=Zb88nX4Xu5o . Dopo tanta tensione, diviene logico e necessario chiudere il disco con un’oasi di pace, e questo compito viene svolto alla perfezione dalla suadente Moving On, un brano che, per struttura melodica ed efficacia interpretativa, richiama alla memoria quella Love Song For Bobby Long, tratta dalla colonna sonora dell’omonimo film, che fece conoscere Grayson Capps al grande pubblico, ormai tredici anni fa. Oggi, per fortuna, possiamo contare su un autore e un interprete di assoluto livello, che sarà un sicuro protagonista della nostra musica anche negli anni a venire.

Marco Frosi

Adesso E’ Giunta L’Ora Di Scrivere Un Po’ Per Sé Stessi! James LeBlanc – Nature Of The Beast

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James LeBlanc – Nature Of The Beast – Dreamlined/Red CD

James LeBlanc, oltre ad essere il padre di Dylan LeBlanc (un giovane e promettente musicista che ha già qualche disco all’attivo http://discoclub.myblog.it/2010/08/24/giovani-virgulti-crescono-1-dylan-leblanc-paupers-field/ ) è anche un affermato autore per conto terzi, avendo scritto diverse canzoni per nomi di punta a Nashville come Jason Aldean, Martina McBride, Gary Allan e Travis Tritt (il cui successo da Top Ten Modern Day Bonnie & Clyde porta proprio la firma di LeBlanc). Originario di Shreveport, Louisiana, James ha anche un album al suo attivo, Muscle Shoals City Limits (2003), ma in generale ha sempre preferito restare nelle retrovie e sbarcare il lunario con il remunerativo lavoro di songwriter su commissione. Ora però ha finalmente deciso di mettere fuori la testa e dare un seguito al suo ormai lontano primo album, ed il risultato finale è talmente riuscito che mi chiedo perché avesse aspettato così tanto. Nature Of The Beast, nel quale LeBlanc raccoglie alcune canzoni da lui scritte ma tenute nei cassetti, non sembra infatti il lavoro di uno che non ha quasi mai inciso a suo nome, ma bensì è il prodotto di anni di esperienza come songwriter e di frequentazioni di musicisti più o meno noti e di studi di registrazione dove si respira aria di leggenda (per esempio era di casa ai Muscle Shoals Studios, dove ha inciso il primo disco, mentre questo è stato registrato a Sheffield, sempre in Alabama).

Nature Of The Beast non è un disco country, almeno non come uno si potrebbe aspettare: il country c’è, ma è usato quasi da sfondo alle ballate profonde del nostro, canzoni lente, meditate ma piene di feeling e mai noiose. Un tipico disco da cantautore, più che da countryman, registrato con la produzione di Jimmy Nutt (che come ingegnere del suono ha lavorato anche con Jimmy Buffett e Jason Isbell) e vede in studio con lui un numero di musicisti non estesissimo ma di alto livello, tra i quali il figlio Dylan ed il grande bassista della gang di Muscle Shoals David Hood. Il disco inizia con la title track, lenta, crepuscolare, con la chitarra arpeggiata e la voce profonda di James ad intonare un motivo intenso, drammatico e di grande pathos: prendete le cose migliori di Calvin Russell, levategli un po’ di polvere texana ed avrete un’idea. Mean Right Hand è un brano full band, ma anche qui l’accompagnamento è discreto, nelle retrovie, in modo da mettere in primo piano la melodia e la voce, una bella canzone con agganci anche allo Springsteen di Tom Joad; My Middle Name è ancora lenta, ma la batteria scandisce il tempo in maniera netta e c’è una chitarra elettrica che ricama alle spalle del leader, un altro pezzo di buona intensità, da cantautore più rock che country. Yankee Bank è più ricca dal punto di vista strumentale, è sempre una ballata ma con maggiore energia ed un bell’intreccio di chitarra, steel ed organo, oltre ad un motivo di prima qualità.

LeBlanc si conferma un songwriter di vaglia, ma dimostra di essere anche un performer di livello. Bottom Of This è una country song, sempre lenta e malinconica, ma dallo script solidissimo ed ottimo lavoro di piano e steel, Answers (scritta dal figlio Dylan) dà una scossa al disco, il ritmo è più sostenuto e la chitarra elettrica è in primo piano, oltre ad un refrain che prende all’istante, mentre I Ain’t Easy To Love è un altro brano spoglio ma di grande carattere, e qui l’arma in più è la seconda voce femminile di Angela Hacker, fidanzata di James ed artista per conto suo. Una splendida steel (Wayne Bridge) ci introduce alla lenta Nothing But Smoke, dove LeBlanc ha sicuramente fatto tesoro della lezione di Willie Nelson: l’ennesimo slow, ma la noia è bandita; bella anche Anchor, distesa, fluida e con la solita melodia di prim’ordine, tra le migliori del CD, mentre 4885 inizialmente vede il nostro in quasi totale solitudine, poi dalla seconda strofa entra il resto della band, anche se James se la cavava comunque anche con pochi strumenti attorno. L’album si chiude con la vibrante Coming Of Age, più mossa ma sempre senza andare sopra le righe, e con la deliziosa cover di Beans, un vecchio brano di Shel Silverstein che qui è un honky-tonk con arrangiamento di altri tempi ed un bel ritornello corale, un finale in allegria e dunque in decisa controtendenza.

Per quanto mi riguarda James LeBlanc può pure continuare a scrivere per altri, ma se quando incide a suo nome il livello è questo, mi auguro che non faccia passare altri 14 anni prima del prossimo disco.

Marco Verdi