Al “Solito” Buon Rock Californiano, Ma Possono Fare Meglio. Dawes – Passwords

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Dawes – Passwords – Hub Records           

Sesto album per i californiani Dawes, band guidata dai fratelli Goldsmith, Taylor, chitarra, voce solista e leader indiscusso del gruppo, visto che compone anche la quasi totalità delle canzoni, mentre Griffin si occupa della batteria.  Completano la formazione il bassista storico Wylie Gelber e l’ultimo arrivato, il tastierista Lee Pardini. Per questo album, dopo averne cambiati tre nei precedenti album (Blake Mills, David Rawlings e Jacquire King), torna in camera di regia Jonathan Wilson, che aveva prodotto i primi due dischi ed era stato anche loro compagno di jam sessions a Laurel Canyon, nonché di avventure musicali con Jackson Browne, da sempre un punto di riferimento, con Crosby, Stills, Nash, e Young, Joni Mitchell, gli Eagles, il sound West Coast in generale, quasi tutte influenze in comune con il loro produttore, che nell’ultimo anno ha condiviso studio di registrazione e palchi con Roger Waters. In effetti il primo brano, Living In The Future, più rock mainstream e tirato del solito, ha delle sonorità che potrebbero rimandare a Is This The Life We Really Want?, con chitarre e ritmica più grintose del solito, e la presenza più marcata delle tastiere, anche synth, affidati a Wilson, che però rimangono per ora nei limiti della decenza.

Il disco ha avuto critiche discordanti: Mojo e Allmusic gli hanno dato addirittura 4 stellette, mentre qualche sito musicale americano è stato molto meno tenero. Diciamo che siamo ancora lontani dalle svolte oltremodo “moderniste” e poco amate, almeno dal sottoscritto, degli ultimi Decemberists, Kings Of Leon, Mumford And Sons, Arcade Fire e altre band che hanno pompato negli anni il loro sound, ma la china potrebbe diventare quella, a scapito del suono, magari citazionista e old style dei primi album https://discoclub.myblog.it/2015/06/03/from-los-angeles-california-the-dawes-all-your-favourite-bands/ , comunque eseguito con brio e passione, per certi versi lontano da stereotipi solo fini a sé stessi, con belle aperture sonore e interessanti intrecci vocali. Che per esempio ritornano nel suono targato seventies Eagles della morbida Stay Down, non esaltante magari, ma estremamente piacevole, o nella ballata pianistica e introspettiva Crack The Case, che ricorda moltissimo il loro nume tutelare Jackson Browne, anche se pare mancare loro un po’ di nerbo, ma l’amore per le belle melodie è pur sempre presente, con fin troppo rigogliose tastiere e la slide insinuante di Trevor Menear che cerca di ricreare un effetto Lindley ; Feed The Fire vira nuovamente verso il lato più orecchiabile del country-rock, quello degli America del secondo periodo o di Dan Fogelberg, con Taylor Goldsmith al sitar/guitar e Wilson alla seconda chitarra, per un brano sinuoso, per quanto sempre leggerino.

In My Greatest Invention, la presenza di una sezione archi, già utilizzata nel precedente brano, conferisce un effetto fin troppo zuccheroso alla canzone, che, unito all’impiego di un falsetto molto marcato, non depone a favore di una canzone esageratamente soporifera, anche se la parte strumentale centrale non è male, con chitarre e tastiere ben miscelate; Telescope, più incalzante, grazie ad un giro di basso vorticoso, e con un suono che potrebbe ricordare i Fleetwood Mac più avventurosi a guida Buckingham del periodo di Tusk, è più complessa e dalle sonorità inconsuete, assolo di Thumb Jam (qualsiasi cosa sia) di Wilson e baritone guitar di Taylor Goldsmith inclusi https://www.youtube.com/watch?v=wqq6WjN0wh4 . Diciamo che un certo edonismo sonoro è spesso presente, ma ci sono comunque brani piacevoli, come la romantica I Can’t Love, che potrebbe avvicinarsi al Don Henley anni ’80, forse non il migliore, ma c’era in giro di peggio, e il piano di Lee Pardini è il protagonista principale della canzone, ma  in Mistakes We Should Have Made si sfiora e si supera il limite con la canzonetta radiofonica, mentre la love song Never Gonna Say Goodbye sembra una novella Romeo And Juliet dei Dire Straits, meno bella e Time Flies Either Way ritorna nuovamente a citare, con ottimi risultati (piacevole l’uso del sax alto di Josh Johnson),  le belle ballate di mastro Jackson Browne https://www.youtube.com/watch?v=qfsCOk3gwrs  e il suono dei primi album dei Dawes. Diciamo promossi con ma con riserva.

Bruno Conti  

Il Volo Solitario Dell’Aquila. Glenn Frey – Above The Clouds: The Collection

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Glenn Frey – Above The Clouds: The Collection – Geffen/Universal CD – Box Set 3CD/DVD

La carriera solista di Glenn Frey, uno dei principali musicisti scomparsi nel nefasto 2016, sia artisticamente che commercialmente non è neppure lontanamente paragonabile a quella con gli Eagles, dei quali ha sempre condiviso la leadership insieme a Don Henley. Appena cinque album in 35 anni (di cui quattro nei primi dodici), più un live ed un’antologia, nessuno dei quali si può considerare imprescindibile (e con un suono talvolta eccessivamente radiofonico e lavorato), anche se prendendo il meglio da ognuno di essi indubbiamente il materiale interessante non manca, visto che comunque la classe non era acqua. Come dimostra questo box celebrativo appena uscito, intitolato Above The Clouds, che offre in tre CD più un DVD una panoramica più che completa del periodo che Frey ha trascorso lontano dal suo gruppo principale: non ci sono inediti veri e propri, ma qualche rarità sì (prese principalmente da varie colonne sonore) e, nel terzo dischetto, una chicca assoluta e da un certo punto di vista inattesa. Ma “ciancio alle bande” ed esaminiamo il contenuto disco per disco.

CD 1: qui troviamo i brani più popolari di Glenn, quasi a formare un ideale Greatest Hits (ed infatti è uscito anche separatamente in versione singola), a partire dal suo più grande successo, The Heat Is On, tratto dalla colonna sonora di Beverly Hills Cop, canzone però viziata da orrende sonorità plastificate tipiche degli anni ottanta. Molto meglio altri due pezzi presi da una soundtrack (cioè quella del noto telefilm Miami Vice, nel quale Frey ha pure recitato), la raffinata You Belong To The City, che nonostante un suono quasi AOR è una delle sue canzoni migliori, e la grintosa e roccata Smuggler’s Blues, mentre la rara Call On Me, presa dalla serie di detective stories televisive South Of Sunset (che vedevano Glenn protagonista), soffre in parte degli stessi problemi di The Heat Is On. Altri brani degni di nota sono la bella e sinuosa I’ve Got Mine, tra le sue canzoni più riuscite, l’ottima Part Of Me, Part Of You, una scintillante rock ballad che non avrebbe sfigurato nel repertorio degli Eagles (che era nella colonna sonora di Thelma & Louise), e le godibili Sexy Girl e Soul Searchin’, entrambe tra pop ed errebi di gran classe, con la seconda che presenta anche marcati elementi gospel.

CD 2: altri brani presi dagli album solisti di Glenn, ma meno famosi (i cosiddetti “deep cuts”), con diverse selezioni tratte dall’album di standard del 2012 After Hours, invero piuttosto loffio (ma la rilettura in puro stile honky-tonk di Worried Mind, brano di Jimmie Davis reso immortale da Ray Charles, è molto bella). Ci sono anche due dei tre brani inediti della Solo Collection del 1995, la solare This Way To Happiness, pop song vibrante e coinvolgente, e la deliziosa Common Ground, tra country, rock e gospel, cantata alla grande. Glenn era anche un appassionato di soul ed errebi, e questo si nota nella raffinatissima Let’s Go Home e soprattutto nella squisita I Got Love, tra le più belle del box, perfetta sotto ogni punto di vista (suono, arrangiamento e melodia). Meritano una menzione anche il travolgente rock’n’roll Better In The U.S.A., l’emozionante Brave New World, melodicamente inappuntabile anche se con qualche synth di troppo, e l’intensa ballatona Lover’s Moon.

CD 3: probabilmente la vera ragione per acquistare questo box è in questo dischetto: l’unico album, omonimo, pubblicato nel 1969 dai Longbranch/Pennywhistle, un duo formato da Glenn con John David Souther, disco che non ebbe il minimo successo (sparendo presto dalla circolazione), ma che fu importante perché pose le basi del suono country-rock degli Eagles, oltre ad iniziare una collaborazione tra i due musicisti che durerà anche in seguito (Souther scriverà infatti più di un brano per le Aquile). Stampato in CD per la prima volta ufficialmente (le copie che trovate su internet sono di dubbia provenienza), Longbranch/Pennywhistle conta anche sul supporto di una super band, formata da Jim Gordon, batterista per Eric Clapton, George Harrison e Derek & The Dominos, dal grande steel guitarist Buddy Emmons, il violinista Doug Kershaw, lo straordinario pianista Larry Knetchel, e, alle chitarre, l’axeman di Elvis, James Burton, oltre ad un giovane Ry Cooder. Trenta minuti di durata e dieci canzoni, sei delle quali scritte da Souther, due da Frey, una dai due insieme ed una buona versione, molto country, di Don’t Talk Now di James Taylor.

Ci sono momenti davvero pregevoli come la scattante Jubilee Anne, curiosamente simile al suono dei dischi “americani” che Elton John farà di lì a poco, lo spedito country-rock elettrico Run Boy, Run, una sorta di Take It Easy in embrione, o la deliziosa ballata folkeggiante Rebecca. La ritmata Lucky Love non è distante dallo stile che i Byrds avevano in quegli anni, mentre Kite Woman ha i germogli dell’Eagles-sound; la nervosa Bring Back Funky Women non è un granché, meglio la mossa Star-Spangled Bus, con il piano in evidenza, e la delicata e bucolica Mister, Mister. Chiudono la già citata Don’t Talk Now è l’orecchiabile Never Have Enough, con un ritornello facile e diretto. Un ripescaggio molto interessante quindi, pur essendo molto lontani dal capolavoro (e comunque vorrei sapere quanti di voi ne possiedono una copia originale).

DVD – Strange Weather/Live In Dublin: la parte video prende in esame un concerto del 1992 a Dublino, che non è inedito in quanto era uscito all’epoca in VHS, e pure su CD come Glenn Frey Live, con tre brani in meno per questioni di durata (ma entrambi i supporti sono da tempo fuori catalogo). Un bel concerto, molto piacevole, con Glenn in ottima forma fisica e vocale ed accompagnato da una solida band di undici elementi. Ci sono chiaramente i brani più noti del suo periodo da solo, con qualche assenza (You Belong To The City, ma lo show è comunque incompleto), qualche new entry rispetto ai primi due CD di questo box (tra cu la festosa e rockeggiante Party Town), ed una buona versione della classica folk song scozzese Wild Mountain Thyme, qui stranamente attribuita a Bert Jansch, che è solamente uno dei mille artisti che l’hanno incisa. Detto di due trascinanti True Love e Love In The 21st Century, meglio delle loro controparti in studio,  il piatto forte sono i pezzi appartenenti al songbook degli Eagles: le bellissime Peaceful, Easy Feeling e New Kid In Town poste ad inizio serata, uno splendido medley tra Lyin’ Eyes e Take It Easy, presente anche in versione audio nel primo CD, ed il finale con la sempre trascinante Heartache Tonight e la magnifica Desperado, che con Glenn alla voce solista è una rarità (infatti nelle Aquile la cantava Henley).

In definitiva Above The Clouds è un buon modo per celebrare adeguatamente la figura di Glenn Frey e, pur con qualche momento discutibile nei primi due CD, un cofanetto che può stare dignitosamente in qualsiasi collezione che si rispetti.

Marco Verdi

Un’Ottima Band Dal Nobile Lignaggio! Midnight North – Under The Lights

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Midnight North – Under The Lights – Trazmick CD

I Midnight North sono un quintetto californiano con già due album in studio ed un live all’attivo, e sono guidati da un giovane chitarrista e cantante, Grahame Lesh, che è anche figlio d’arte, e non uno qualsiasi: infatti il padre è proprio Phil Lesh, storico bassista dei Grateful Dead, una delle colonne portanti del leggendario gruppo di San Francisco sin dalla prima ora. Quindi Grahame non ha avuto un’infanzia ed un’adolescenza qualunque, ma è cresciuto respirando grande musica ogni singolo giorno, cosa che sicuramente gli è servita a formarsi un background culturale di tutto rispetto: questo è evidente ascoltando questo Under The Lights, terzo album della sua band, che è indubbiamente un signor disco. Lesh Jr. (che è coadiuvato dalla seconda voce solista di Elliott Peck, che nonostante il nome è una ragazza, dal polistrumentista Alex Jordan e dalla sezione ritmica formata da Alex Koford e Connor O’Sullivan) ha però uno stile diverso dal gruppo di suo padre, in quanto è fautore di un rock chitarristico decisamente diretto ed imparentato con il genere Americana: Graheme scrive canzoni semplici e fruibili, ma non banali, ha un senso della melodia non comune e le sue canzoni sono tutte estremamente piacevoli; l’unico punto in comune con i Dead può essere una certa tendenza alla jam nella coda strumentale di alcuni pezzi, anche perché se ci pensiamo un attimo anche il combo guidato da Jerry Garcia nei dischi in studio era spesso piuttosto diverso che durante i concerti.

Under The Lights è quindi un disco di puro rock, con qualche aggancio al country ed una brillante propensione alle melodie corali e dirette, un lavoro fresco e piacevole, che spero metta in luce questo gruppo aldilà del cognome del suo leader. Anche se poi mi viene in mente che i due più bei dischi di studio dei Dead, Workingman’s Dead ed American Beauty, erano anch’essi esempi di Americana ante litteram, e quindi in un certo senso il cerchio si è chiuso. Il CD parte col piede giusto con la bella title track, una rock song fluida e scorrevole, dall’ottimo refrain corale, un tocco country ed un uso scintillante di piano e chitarra. E Grahame è un cantante migliore di suo padre (non che ci volesse molto). Playing A Poor Hand vede la Peck alla voce solista (lei e Lesh si alterneranno per tutto il disco), per una rock ballad ariosa, cadenzata e decisamente gradevole, con un bel gusto melodico che è un po’ il fiore all’occhiello del gruppo; la gioiosa Everyday è una via di mezzo tra un errebi con tanto di fiati ed un pop-rock alla Fleetwood Mac, mentre Greene County è chiaramente una country ballad, sempre di stampo californiano, con qualcosa di Eagles e del Bob Seger più bucolico (Fire Lake).

Roamin’ ha un approccio più rock, con sonorità anni settanta ed il solito ritornello immediato, Headline From Kentucky è una ballata elettrica dal ritmo sostenuto e dal mood intrigante, con un ottimo motivo senza sbavature: tra le più belle del CD; una bella chitarra introduce la fluida Back To California, fino ad ora la più dead-iana (più nella parte strumentale che nella melodia), ed anche qui siamo di fronte ad un brano coi fiocchi, mentre la saltellante e coinvolgente One Night Stand dona al disco un altro momento di allegria e buona musica. Echoes è un rock a tutto tondo, tra le più elettriche del lavoro e con tracce di Tom Petty, con ottime parti di chitarra e solito refrain vincente, The Highway Song è vera American music, un pop-rock terso ed altamente godibile, che porta in un soffio alla conclusiva Little Black Dog, puro country elettroacustico ancora corale e gioioso, che ricorda quasi la Nitty Gritty Dirt Band dei bei tempi. Midnight North è un nome da tenere a mente, il nome di un’altra piccola grande band sotto il sole della California.

Marco Verdi

Un Doveroso Omaggio Ad Un Protagonista Del West Coast Sound. Various Artists – A Tribute To Dan Fogelberg

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Various Artists – A Tribute To Dan Fogelberg – BMG Rights Management

Il 16 dicembre (ieri) è caduto il decimo anniversario dalla prematura morte di Dan Fogelberg, autore di ottimi dischi negli anni settanta e ottanta in uno stile riconducibile al country rock molto in auge in quel periodo grazie a protagonisti di assoluto valore come gli Eagles, Jackson Browne, Crosby, Stills & Nash, James Taylor, Poco e Doobie Brothers, solo per citare alcuni dei nomi più noti. Daniel era originario di una piccola cittadina dell’Illinois, Peonia. Dopo aver militato in alcuni gruppi locali, decise di esibirsi in proprio ed ebbe la fortuna di essere notato da Irving Azoff, colui che sarebbe diventato manager di grandi stelle del rock, tra cui i già citati Eagles. Azoff gli fece ottenere il primo contratto discografico e lo presentò all’esperto bassista e produttore Norbert Putnam che divenne suo amico e fidato collaboratore per il decennio che seguì, dal bel disco d’esordio Home Free, del 1972, fino al capolavoro del 1981, il doppio The Innocent Age (disco strepitoso dove erano presenti Joni Mitchell, Glenn Frey, Brecker Brothers, Richie Furay. Emmylou Harris, Don Henley, Chris Hillman e moltissimi altri grandi musicisti).

Per tutta la sua carriera Fogelberg, oltre a mettersi in luce come valido compositore di ballate spezza cuori e di brani rock dalla tipica impronta della West Coast, esibì notevoli doti di arrangiatore e strumentista suonando ogni tipo di chitarra o tastiera, sempre coadiuvato da session men di primissimo ordine. Pubblicò anche due interessanti album in coppia con il flautista Tim Weisberg, prova tangibile di una passione mai sopita per il jazz e per gli arrangiamenti orchestrali, e un vero gioiello in stile bluegrass, High Country Snows del 1985, realizzato con una band di superstars della musica country tradizionale. Negli anni novanta Dan diminuì progressivamente le sue produzioni e l’ultimo lavoro con materiale inedito rimane Full Circle, del 2003 (senza contare Love In Time uscito postumo nel 2009). Dopo le sua scomparsa nel 2007, Jean Fogelberg, terza delle sue mogli, si è presa l’impegno di onorarne la memoria con un album tributo che coinvolgesse musicisti di grande fama, da vecchi amici e collaboratori del marito a stelle emergenti dell’ultima generazione che riconoscessero Fogelberg come fonte d’ispirazione.

Ad aiutarla, i fidati Putnam e Azoff, oltre al noto produttore Chuck Morris. Dopo sette anni e sette mesi passati a reclutare gli artisti e a trovare il tempo utile per farli incidere, ecco finalmente il risultato di tanta passione, un album piacevolissimo in cui la media delle performances si mantiene elevata e la bellezza originaria delle composizioni di Dan Fogelberg rimane intatta. Ad aprire le danze ci pensa l’icona del country nashvilliano Garth Brooks (supportato ai cori da Trisha Yearwood). La sua versione di Phoenix è fresca e potente con quel bel gioco di chitarre che caratterizzava anche la versione originale. Oibò! Che ci fa la regina della disco music in un contesto di questo genere? Frenate la vostra diffidenza, la scelta di Donna Summer (deceduta nel 2012, aveva registrato il pezzo due anni prima) per interpretare Nether Lands si rivela azzeccatissima.

Ascoltate come si dispiega la sua bella e stentorea voce sull’imponente arrangiamento orchestrale che riproduce fedelmente quello d’origine, e non potrete che applaudire. Michael Mc Donald annerisce con il suo vocione Better Change, sottolineandone il ritornello con un robusto coro gospel. La classe non è acqua, ma onestamente preferivo l’arrangiamento del suo autore. Vince Gill (a proposito, che ne dite del suo recente ingresso negli Eagles insieme al figlio di Glenn Frey?) duetta co nla moglie Amy Grant per uno degli hit di maggior successo di Fogelberg, la delicata Longer, qui impreziosita da un bell’assolo di tromba di Chris Botti. I Train (quelli di Hey Soul Sister) danno prova di coraggio dando ritmo ad una delle canzoni più lente e struggenti che Dan abbia mai composto, mantenendo la citazione finale di Auld Lang Syne suonata con il sax. A me non dispiace, ma siete liberi di pensarla diversamente.

Dobie Gray, protagonista negli anni settanta e ottanta tra country, soul e R&B (sua la mitica Drift Away), prima di arrendersi al cancro nel 2011 fece in tempo a registrare l’intensa  Don’t Lose Heart, uno dei pochi inediti presenti nella quadrupla antologia Portrait, del 1997. Versione di gran classe, che fa il pari con quella di Old Tennessee, eseguita da Danny Henson e Tom Kelly, in arte Fool’s Gold,  che accompagnarono Dan Fogelberg per il tour di Souvenirs nel 1974 ed incisero a loro nome un paio di buoni album nel ’76 e ’77. Casey James è un giovane cantautore e chitarrista texano di grandi prospettive come dimostrano i suoi tre dischi e questa incendiaria versione di As The Raven Flies. Casey ci dà dentro di brutto con la sua sei corde, dando nuova linfa ad un pezzo già trascinante. Randy Owen è meglio conosciuto come voce solista degli ultra noti Alabama. La sua scelta è perfetta perchè la magnifica country ballad Sutter’s Mill gli calza a pennello, melodia in crescendo e perfette armonie vocali nel refrain. Da qui in poi il tributo si assesta su livelli altissimi. Run For The Roses  è un’altra masterpiece song di Fogelberg e qui per riproporla al meglio troviamo altri due nomi eccellenti della country music, Richie Furay e la Nitty Gritty Dirt Band.

Boz Scaggs,  vecchia gloria del rock americano, interpreta con la sua calda ed intensa voce la malinconica Hard To Say, dotandola di un’atmosfera più blusey, con un pregevole assolo centrale di chitarra. Joe Walsh fu il produttore dell’ottimo e già citato Souvenirs, ovvio quindi che abbia scelto di riproporrre, insieme agli altri componenti degli Eagles, la canzone che apriva quell’album, Part Of The Plan. Bella versione, che mantiene la freschezza melodica dell’originale. Da quella che apre a quella che chiude lo stesso disco, manco a farlo apposta: There’s A Place In The World For A Gambler è, a mio modesto avviso uno dei vertici compositivi di Dan, una specie di inno che, non a caso, lui poneva in chiusura dei suoi concerti facendone cantare il ritornello al pubblico con un effetto da pelle d’oca (risentitela sul live Greetings From The West, ne vale la pena!). Il grande Jimmy Buffett la rivisita con tutta la maestria e la sensibilità di cui è capace, ricreando quel finale da brividi con gli strumenti e le voci che si rincorrono.

Il gran finale è riservato alla canzone in assoluto più nota e celebrata di Dan Fogelberg, quella Leader Of The Band che egli dedicò al padre, insegnante di musica e direttore della banda cittadina di Peonia. Zac Brown ne dà una versione scarna e toccante, registrata dal vivo, solo chitarra acustica e voci. Applausi…e da lassù padre e figlio riuniti sicuramente sorridono.

Marco Frosi

Ecco Un Altro Gruppo Con Il Braccino Corto! Eagles – Hotel California 40th Anniversary

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The Eagles – Hotel California 40th Anniversary – Elektra/Warner CD – 2CD – Box Set 2CD/BluRay

(NDM: mi spiace cominciare al solito con una precisazione, ma il disco in questione uscì nel Dicembre del 1976, e quindi questa deluxe edition doveva essere pubblicata lo scorso anno, in quanto se la matematica non è un’opinione gli anni sono 41. Poi siamo d’accordo che il suo enorme successo ha avuto il suo picco nel 1977, ma nessuno si è mai sognato, per esempio, di affermare che The Wall dei Pink Floyd fosse un album del 1980).

Se c’è un gruppo che negli anni ha sempre concesso pochissimo ai suoi fans in materia di inediti e concerti d’archivio, questi sono certamente gli Eagles, e la cosa è ancora più strana in quanto stiamo parlando di una delle band più popolari al mondo. Oggi l’occasione per riparare in parte a questa mancanza è affidata a questa ristampa celebrativa del loro disco più famoso, e per molti il loro capolavoro (per me è Desperado, ma di un nonnulla), cioè Hotel California, uno degli album più venduti di tutti i tempi. L’operazione comprende l’inutile riedizione singola (buona al limite per i neofiti), un doppio CD ed un cofanetto deluxe, ma anche questa volta il gruppo californiano d’adozione (o chi decide per loro) si è contraddistinto per il braccino corto, in quanto la versione doppia propone sul secondo CD un concerto inedito a Los Angeles dell’Ottobre del 1976, ma soltanto dieci canzoni per la miseria di 48 minuti! Cosa ancora più grave, il cofanetto, oltre ad essere ridicolmente caro (circa 90 euro), non aggiunge un solo minuto di musica inedita, essendo il terzo dischetto una versione in BluRay audio dell’album principale: quindi quasi 70 euro in più per un doppione sonoro ed un (bel) libro con foto e note (note completamente assenti dalla versione doppia, solo qualche foto ed i crediti, neppure i testi delle canzoni).

E per le Aquile questo è un vecchio vizio, siccome già in passato si erano contraddistinti per la loro parsimonia: nel cofanetto retrospettivo del 2000 Selected Works, oltre alla miseria di tre inediti che non erano neppure canzoni, c’era il Millenuim Concert, e anche lì solo 12 canzoni, mentre come aggiunta alla versione deluxe dello splendido DVD History Of The Eagles c’era un live del 1977, ma anche stavolta solo una manciata di brani. Esaminiamo quindi il contenuto di questa ristampa, e stavolta mi limito alla versione doppia, dato che basta e avanza. Nel 1976 gli Eagles erano ad un punto di svolta: dopo l’ottimo successo di One Of These Nights avevano perso un pezzo per strada, in quanto Bernie Leadon non era soddisfatto della direzione musicale più commerciale presa dal gruppo; Don Henley e Glenn Frey, da sempre i due leader della band, ingaggiarono quindi Joe Walsh, ex chitarrista della James Gang, che garantiva un approccio più rock ed era considerato il giusto partner per l’altro axeman Don Felder. Don e Glenn avevano in mente quindi di alzare ulteriormente l’asticella, e pensarono ad una sorta di concept album sui problemi causati da fama e successo, dalla perdita dell’innocenza e dalla discesa agli inferi a seguito di un tenore di vita “nella corsia di sorpasso”: Hotel California, l’album che ne risultò (con una iconica copertina che raffigurava il barocco Beverly Hills Hotel di Los Angeles in maniera un po’ inquietante) fu un grande disco, e lo è ancora quattro decenni dopo. Gran parte della sua fortuna la deve indubbiamente alla fantastica title track, una di quelle canzoni che definiscono una carriera intera, un irripetibile equilibrio tra una melodia di prim’ordine, un ritornello strepitoso, un testo degno di una trama da film horror ed un assolo di chitarra finale, suonato all’unisono da Walsh e Felder, che è stato giudicato tra i più belli di sempre.

Ma l’album contiene altre grandi canzoni, ed è in un certo senso il disco di Henley, che canta da solista ben cinque degli otto pezzi totali (uno è una ripresa strumentale di Wasted Time): oltre alla title track Don è protagonista infatti della roboante Life In The Fast Lane, caratterizzata da un gran lavoro di Walsh, della già citata Wasted Time, romantica ma non melensa, la roccata e trascinante Victim Of Love e soprattutto la magnifica The Last Resort, una lunga e sontuosa ballata con una melodia ed un crescendo strepitosi, uno dei pezzi più belli delle Aquile in assoluto. Frey canta da solista in un solo brano, il pop-rock di gran classe New Kid In Town (il brano più di successo dopo Hotel California), Randy Meisner fornisce il suo ultimo contributo (lascerà la baracca l’anno dopo, sostituito da Timothy B. Schmit) con la gradevole Try And Love Again, unico rimando sonoro ai primi Eagles, mentre Walsh a mio parere “cicca” un po’ il suo esordio con la lenta e noiosa Pretty Maids All In A Row: Joe non è mai stato un grande songwriter, e men che meno nelle ballate. E veniamo al secondo CD, che come da copione è davvero bello, in quanto i nostri sono sempre stati una live band coi fiocchi…peccato che finisca quando ci si comincia a prendere gusto! Da Hotel California, che al momento del concerto doveva ancora uscire, ci sono la title track, già imperdibile, ed una New Kid In Town più rock che in studio; l’inizio della serata è riservato alla sempre bellissima e coinvolgente Take It Easy, anch’essa decisamente più chitarristica, subito seguita dall’altrettanto splendida Take It To The Limit, la signature song di Meisner. Ci sono anche due “deep cuts”, ovvero due pezzi poco noti (entrambi tratti da On The Border), James Dean e Good Day In Hell, uno spedito country-rock chitarristico la prima ed un ruspante brano che sa di southern la seconda (ottima la slide). L’intrigante Witchy Woman è sempre una gran bella rock song, mentre Funk # 49 dimostra i limiti di Joe come autore. Finale con la funkeggiante One Of These Nights, la già citata Hotel California ed il travolgente rock’n’roll di Already Gone.

E poi, come già detto, il CD finisce, lasciandoci l’amaro in bocca per l’ennesima occasione perduta.

Marco Verdi

Un Cocktail Di Suoni “Americana”! The Band Of Heathens – Duende

band of heathens duende

*NDB Un po’ in ritardo, ma come promesso, ecco la recensione, buona lettura.

The Band Of Heathens – Duende – Blue Rose/IRD

Tra i diversi gruppi che riescono ad ottenere un certo successo nelle “charts” americane da qualche anno a questa parte, ci sono sicuramente, in un ambito diciamo “moderato”, i Band Of Heathens, sulla breccia ormai da più di una decade, e che a distanza di quattro anni dal precedente Sunday Morning Record (13) http://discoclub.myblog.it/2013/10/02/la-banda-della-domenica-mattina-band-of-heathens-sunday-morn/ sfornano questo ultimo lavoro Duende (il loro quinto disco in studio, tralasciando i tre “live”, nel corso della carriera). I Band Of Heathens vengono dalla sempre viva scena musicale di Austin, Texas e sono una formazione guidata dai due storici frontmen e vocalists Ed Jurdi (chitarra, armonia e piano) e Gordy Quist (chitarre), mentre a completare l’attuale “line-up” troviamo una eccellente sezione ritmica composta da Richard Millsap alla batteria e pèrcussioni, Scott Davis al basso, con l’aggiunta di Trevor Nealon alle tastiere e pianoforte e Russ Pahl alla pedal steel, per un lavoro che spazia, come al solito, dal country-rock al sound sudista, passando per soul, funky, e boogie:, il tutto registrato nei Ronjo Studios, in quel di Austin, sotto la co-produzione dell’ingegnere del suono Jim Vollentine (Spoon e White Rabbits).

Un idea di cosa sono capaci tuttora i Band Of Heathens  la rende bene l’iniziale All I’m Asking, un brano notevole, cantato e suonato con trasporto (con le parti vocali, loro punto di forza, in gran spolvero), a cui fanno seguito un super “funky” come Sugar Queen, e una deliziosa Last Minute Man con un arrangiamento molto “folk-country” oriented, per poi passare alla scanzonata Deep Is Love (sicuramente la meno riuscita del disco). Fortunatamente si continua con la contagiosa melodia di Keys To The Kingdom, il robusto rock nuovamente con venature “soul” di Trouble Came Early, cambiando poi leggermente genere con il soul-funky di Daddy Longlegs, mentre la successiva traccia è uno splendido brano acustico Cracking The Code, che ci rimanda a quei quattro ragazzi “poco noti” di Liverpool. Chiudono degnamente Duende una Road Dust Wheels, dove si viaggia verso il Messico, fondendo ritmi latini con un “sound” di frontiera, mentre la finale Green Grass Of California, viene valorizzata dalle splendide armonie vocali del gruppo (in perfetto stile Eagles).

Quindi ancora una volta i Band Of Heathens, con estrema disinvoltura, continuano ad incidere ottimi dischi, alternando come sempre la loro “miscellanea” di generi, che come detto sono un insieme di rock, blues, funky, soul, country, con ogni componente del gruppo con un proprio stile e modo di cantare e scrivere canzoni, facendo in modo che la passione degli esordi lasci il passo ad uno stile meglio delineato e più elegante. Insomma se amate il genere “americana” e non avete neanche un loro album, beh direi che è praticamente indispensabile, ma pure se non lo amate e ogni tanto vi va di ascoltare un disco in assoluto relax per un ascolto non impegnativo, Duende e le sue canzoni possono sicuramente servire.!

Tino Montanari

Una Eredità Per Nulla Smarrita, Anzi Molto “Viva”! Outlaws – Legacy Live

outlaws legacy live

*NDB Leggendo un commento su loro Live dell’86 che vedete a fianco, e che a grandi linee condivido, mi sono accorto che non avevo ancora postato la recensione di questo doppio dal vivo degli Outlaws, uscito qualche tempo fa, e visto che il Southern rock è sempre bene accetto sul Blog e il Live è notevole, rimedio subito.

Outlaws – Legacy Live – 2 CD SPV/Steamhammer

Ultimamente c’è stata una vera proliferazione di pubblicazioni dedicate a dischi dal vivo degli Outlaws, spesso eccellenti, come il Los Angeles 1976, o comunque molto buone, vedi Live At The Bottom Line Live ’86, entrambi editi dalla Cleopatra http://discoclub.myblog.it/2016/09/14/meglio-il-live-uscito-lo-scorso-anno-anche-male-the-outlaws-live-at-the-bottom-line-new-york-86/ . Ora esce questo Legacy Live, registrato nel tour del 2015 dall’ultima formazione della band, quella che vede presenti dei membri originali solo il cantante e chitarrista Henry Paul e il batterista Monte Yoho. Con loro ci sono anche, nella line-up comunque a tre chitarre, Steve Grisham (Henry Paul Band, Brothers Of The Southland), già presente nel periodo 1983-1986 e Chris Anderson (anche con Dickey Betts, Lucinda Williams e Lynyrd Skynyrd) dal 1986 al 1989, entrambi alla solista, oltre al bassista Randy Threet e al tastierista Dave Robbins, tutti (ri)entrati nella band negli anni 2000. Non c’è più Hughie Thomasson, l’altro leader, scomparso nel 2007, mentre nel disco del 2012 It’s About Pride, l’ultimo in studio, alla chitarra c’era l’ottimo Billy Crain. E contrariamente alle mie aspettative (e a quelle di molti altri fan) anche questo doppio dal vivo è molto buono, la band della Florida è in gran forma e propone il proprio southern aggressivo e chitarristico con una grinta e una vivacità che latitano in altre formazioni storiche del rock sudista.

Niente di nuovo, e ci mancherebbe, ma i nostri non appaiono bolliti e neppure troppo sopra le righe, riuscendo a non fare troppo rimpiangere il periodo d’oro degli anni ’70, il 1975 per la precisione, l’anno di uscita del primo album, di cui nel tour si festeggiava il 40° Anniversario. 21 canzoni (compresa la breve intro iniziale) dove scorrono i grandi successi del gruppo, ma anche alcuni brani tratti da It’s About Pride: si parte subito bene con una gagliarda There Goes Another Love Song, che mette subito in evidenza anche gli elementi country presenti nel DNA del gruppo, sia con ottime armonie vocali, sia con il sound dove le chitarre sono regine, ma la melodia non è mai assente, senza esagerare con continue prove troppo muscolari (che non mancano comunque, non temete). Eccellente anche un altro classico come Hurry Sundown, dove i classici e continui rilanci del loro credo musicale sono in bella evidenza, con assoli di chitarra che si susseguono a ritmo serratissimo. Ma pure la recente Hidin’ Out In Tennessee non sfigura rispetto al vecchio repertorio, con le chitarre spesso impegnate ad armonizzare all’unisono nel classico sound à la Outlaws e poi scatenarsi in micidiali call and response; Freeborn Man era su Lady In Waiting, quando c’era ancora Billy Jones, ed è la consueta perfetta miscela di country e rock di gran classe, anche con cambi di tempo repentini e raffinati. Ma nell’alternanza tra nuovi e vecchi pezzi non ci sono discrepanze, buoni entrambi, come conferma la riffatissima Born To Be Bad del 2012 dove sembra di ascoltare degli ZZ Top più melodici, o Song In The Breeze dal 1° omonimo album.

Girl From Ohio ricorda un pezzo di country-rock degli Eagles, della Nitty Gritty o dei Poco, mentre nell’unisono splendido delle soliste in Holiday sembra di ascoltare i Wishbone Ash migliori. Poi, certo, ci sono i cavalli di battaglia: Gunsmoke, di nuovo da Hurry Sundown o la lunga e tirata Grey Ghost, la title-track del disco omonimo, dove si apprezza di nuovo il finissimo intrecciarsi delle varie chitarre soliste; si torna di nuovo al country velocissimo e corale di una South Carolina che mi ha ricordato di nuovo moltissimo i primi Eagles e nell’attimo successivo passiamo ad una ballata mid-tempo avvolgente come So Long e ancora a una Prisoner, tratta da Lady In Waiting, che ondeggia tra Pink Floyd ed Allman Brothers. Cold Harbor,elettroacustica e raccolta, quasi alla CSNY, è seguita da Trail Of Tears, dall’inedito Once an Outlaw, l’ultima prova postuma con Thomasson. Notevole pure la corale It’s About Pride, dove risalta anche il piano di Robbins, ma a ben vedere non c’è un brano debole in questo bellissimo doppio dal vivo, come conferma il gran finale, prima con la scatenata Waterhole, che rievoca certi strumentali splendidi dei dischi dei Poco, poi la deliziosa Knoxville Girl, sempre dal primo classico album e Green Grass And High Tides, che è la loro Free Bird, un vero festival delle chitarre elettriche, tredici minuti di pura goduria dove le soliste si rincorrono, si intrecciano e si scatenano in modo splendido. E non è finita, perché pure l’entusiasmante (Ghost) Riders In The Sky dimostra che gli attuali Outlaws, almeno dal vivo, non hanno nulla da invidiare alla loro versione più giovane dei tempi che furono. Grande disco!

Bruno Conti

Tra Brooklyn E La West Coast, Sopraffina American Music (Con Norah Jones Ospite)! The Candles – Matter + Spirit

candles matter + spirit

The Candles – Matter + Spirit – The End Records

In passato si sono spesi per loro lusinghieri pareri a livello critico (hanno già pubblicato due dischi, Between The Sounds del 2010 e La Candelaria del 2013), con richiami alla musica di Gin Blossoms, Whiskeytown e Big Star; spesso hanno aperto, ma anche fatto da backing band, per i tour di Alberta Cross, Cory Chisel e soprattutto Norah Jones, che rende il favore duettando con Josh Lattanzi, il loro frontman, nella dolce e languida Move Along, limpido esempio del loro stile tra roots music e Americana, ma aperto anche alle influenze dei cantautori classici degli anni ’70. Lattanzi è un ottimo autore, newyorkese come il resto della band, trae comunque spunto dal lato più gentile della Big Apple, anzi la sua musica sembra più abbeverarsi al West Coast sound della California, oltre che al più genuino folk e country-rock. Oltre a Lattanzi che suona basso, mandolino, chitarra ed è la voce solista, nei Candles troviamo Pete Remm, piano, organo e Wurlitzer (le tastiere hanno un peso notevole nel sound del gruppo), Jason Abraham Roberts è il chitarrista, mentre alla batteria e alle armonie vocali troviamo Greg Wieczorek, che è stato anche l’ingegnere del suono aggiunto, a fianco del produttore Ben Rice, anche lui di Brooklyn, e che vanta collaborazioni, che non depongono a suo favore, con Lady Gaga, Britney Spears e Ramazzotti, ma anche con Springsteen in High Hopes, Aoife O’Donovan, gli Skins, e comunque in questo Matter + Spirit ha svolto un ottimo lavoro, mai importuno ed invadente, ma sempre teso ad evidenziare il sound delicato del gruppo, il tutto registrato nei Degraw Studios dell’omonimo cantautore.

Quando occorre il quartetto utilizza dei musicisti esterni, come la pedal steel di Dan Iead (presente anche nell’ultimo album di Norah Jones), oltre che nella citata Move Along anche in Sunburned e Til’ It’s Gone, gli altri brani dove le radici country e folk sono più evidenti (ma anche il primo James Taylor sembra un punto di riferimento), canzoni calde ed avvolgenti, dolci senza essere zuccherose, con arrangiamenti semplici ed elaborati al tempo stesso, qualche richiamo ai primi Eagles, per l’uso di armonie vocali mai banali, per esempio quelle di Allison Pierce del duo basato a Los Angeles delle Pierces, nella deliziosa Til’ It’s Gone (occhio che se fate una ricerca in rete, vi appare anche il nome di una nota pornostar, ma questi sono i rischi di internet). Tornando al disco, breve e centellinato, nove brani per poco più di trenta minuti, ma nulla di sprecato, non è casuale anche la scelta della cover fatta da Lattanzi & Co: una bellissima Lost My Driving Wheel, lo splendido brano di David Wiffen, che oltre che nelle interpretazioni di Tom Rush, Cowboy Junkies, Roger McGuinn e Byrds, ricordiamo anche nella recente versione su Only Slightly Mad di David Bromberg, molto bella anche questa, grintosa il giusto, dei Candles.

Altro brano notevole è Something Good, sempre caratterizzato dall’uso della doppia tastiera, e che ricorda quelle ballate meravigliose del miglior Jackson Browne targato anni ’70. Non possiamo dimenticare l’iniziale, mossa, Back To The City, altro limpido esempio della classe di autore di Josh Lattanzi, che poi sa come rivestire nel modo migliore le sue composizioni, grazie al lavoro sopraffino dei suoi bandmates e anche degli amici aggiunti, come il grande fotografo Danny Clinch, che suona l’armonica in questo brano. Blue Skies And Sun, più elettrica, grintosa e cadenzata, anche grazie alla presenza della chitarra aggiunta di John Skibic dei Twilight Singers, ricorda persino certe atmosfere sonore alla Neil Young, quello magari più “morbido” e meno selvaggio, ma anche dei Whiskeytown e del loro leader Ryan Adams, comunque altra gran bella canzone. Da ricordare mancano la breve Followed, una folk song acustica ed intimista, con uso di mandolino, e la conclusiva You Won’t Remember Me, dove a duettare con Lattanzi troviamo Wes Hutchinson, in un altro brano che mi ha ricordato il suono dei primi Eagles, quelli non ancora giunti al grande successo. Segnatevi il nome dei Candles, potrebbero essere una delle sorprese di questo scorcio di 2017, anche se il disco è uscito a fine 2016, ma quando la musica è buona non ci formalizziamo.

Bruno Conti  

Un Nuovo Disco Degli Eagles? Più O Meno… Dave Barnes – Carry On, San Vicente

dave barnes carry on, san vicente

Dave Barnes – Carry On, San Vicente – 50 Year Plan CD

Normalmente non ho nulla contro gli artisti derivativi, a patto che comunque facciano della buona musica. Non considero infatti un peccato mortale prendere a modello un cantante o un gruppo e ricalcarne il suono tipico, anzi a volte, in mancanza dell’originale, un buon surrogato può comunque risultare gradito: ci possono essere milioni di esempi, ma chissà perché mi viene in mente il nome di Kid Rock, musicista di dubbio talento ed autore di dischi tra il pasticciato ed il tamarro, il quale nel 2010 ha pubblicato un album di buon livello, Born Free (senza dubbio il suo migliore), che però aveva il difetto (ma abbiamo visto che per il sottoscritto difetto non è) di avere un suono che riproponeva in maniera quasi pedissequa il classico stile di Bob Seger, avete presente quelle ballate pianistiche sferzate dal vento, tipiche del rocker di Detroit? Dave Barnes, cantautore di stampo country-rock originario del South Carolina, ma trapiantato a Nashville, nei suoi dischi precedenti (una mezza dozzina dal 2004 ad oggi, oltre a ben due album natalizi) non aveva mai palesato influenze ben precise, ma per questo nuovo Carry On, San Vicente ha voluto cambiare, ispirandosi direttamente (parole sue) ad un certo tipo di musica californiana degli anni settanta, con un attenzione maggiore verso Eagles, Fleetwood Mac e Crosby, Stills & Nash. Ora, dopo un paio di attenti ascolti di questo album, personalmente non ho trovato grandi tracce di CSN, e giusto qualche accenno qua e là al suono del gruppo di Lindsay Buckingham e Stevie Nicks, ma per quanto riguarda le Aquile sembra davvero di avere per le mani un loro lost album della seconda metà dei seventies.

Sarà per il timbro di voce, curiosamente simile sia a Don Henley che a Glenn Frey a seconda dei brani (più il primo però), sarà per il suono californiano al 100%, con quella miscela di country e pop così diffusa in quegli anni, ma Carry On, San Vicente è una collezione di canzoni (nove) che forse non ci presenta un artista dalla spiccata personalità, ma di sicuro uno che con la penna ci sa fare (a Nashville Barnes è anche un apprezzato autore per conto terzi), e che quindi ci regala una mezz’oretta abbondante di piacevole ascolto Il disco, prodotto dallo stesso Barnes con Ed Cash (e suonato da un ristretto gruppo di musicisti tra cui spiccano Dan Dugmore alla steel e la coppia formata da Derek Wells e Kris Donegan alle chitarre elettriche) è quindi un riuscito omaggio del nostro ad un suono ed un’epoca leggendari, un momento storico in cui la California era, musicalmente parlando, al centro del mondo, un album che farà dunque la felicità di coloro che si sentono orfani degli Eagles all’indomani della recente dipartita di Glenn Frey. E pazienza se qualcuno penserà che siamo di fronte ad un clone… She’s The One I Love apre il CD con un attacco tipico delle Aquile (ricorda Already Gone) e pure la voce è molto Frey, ma il brano sta in piedi con le sue gambe grazie alla ritmica spedita, i bei fraseggi chitarristici e la melodia accattivante (non per niente è il primo singolo).

Con la title track siamo parzialmente sul territorio dei Mac (mentre la voce è molto Henley), un gustoso connubio tra pop e rock, un suono che nei settanta faceva faville; la lenta e pianistica Wildflower ha una melodia struggente e similitudini con brani come Desperado, compresa la struttura in crescendo e l’ingresso della band dopo un minuto e mezzo: a dispetto del suo essere derivativa, una gran bella canzone https://www.youtube.com/watch?v=0yTZdPOdedY . Glow Like The Moon inizia a cappella e poi entrano chitarra acustica e mandolino (alzi la mano chi non ha pensato a Seven Bridges Road) ed il brano si sviluppa in maniera fluida, un pezzo tra folk e rock altamente godibile https://www.youtube.com/watch?v=6Ipor4FF428 ; Sunset, Santa Fe è una ballata crepuscolare ancora molto anni settanta, steel in sottofondo ed atmosfera quieta, oltre ad una scrittura solida e senza sbavature. Honey, I’m Coming Home ricorda invece Heartache Tonight (l’intro è molto simile), bei riff chitarristici per un brano tutto da godere: anche Frey apprezzerebbe; Nothing Like You è la più lunga (quasi sei minuti), ed è un altro slow molto classico, decisamente fluido nel suo sviluppo e dotato di un refrain che si canticchia subito. L’album volge al termine, non prima però di aver apprezzato Need Your Love, altro tipico country-rock Eagles-style (versante Henley), ritmo vivace e sonorità californiane al 100%, e Wildfire Heart, un soft-rock di gran classe che chiude benissimo un disco decisamente piacevole anche se non esattamente innovativo.

Ma siccome di dischi nuovi degli Eagles non ne avremo più (se non eventuali album postumi), allora mi posso accontentare anche di Dave Barnes.

Marco Verdi

Anticipazioni Novità, Ristampe E Cofanetti Aprile, Parte III/Supplemento. Shooter Jennings, Explosions In The Sky, Charles Bradley, Trembling Bells, Black Mountain, King Crimson, Ronnie Spector, Bellowhead, Eagles, Sandy Denny

shooter jennings countach

Controllando le uscite del prossimo mese di Aprile mi sono accorto che avevo lasciato fuori dai due post sulle anticipazioni molti titoli interessanti (alcuni anche perché al momento in cui scrivevo non erano ancora confermati e qualcuna delle uscite previste era proprio per il 1° aprile). Partiamo da uno di questi, il nuovo album di Shooter Jennings Countach (For Giorgio), in America già uscito il 26 febbraio e che ora viene pubblicato per il mercato europeo. Ci eravamo lasciati con il figlio di Waylon Jennings (di cui negli scorsi anni ho recensito positivamente anche http://discoclub.myblog.it/2013/03/15/finalmente-degno-di-tanto-padre-shooter-jennings/) con la segnalazione dell’ultimo EP uscito nel 2014 Don’t Wait Up (For George), dedicato al grande cantante country George Jones: in effetti pensavo che questo Countach fosse una sorta di seguito, tra i nomi coinvolti c’erano anche il recentemente scomparso Steve Young e Brandi Carlile, per quanto la presenza di Marilyn Manson non era diciamo sulla mia lunghezza d’onda. Ma poi ho letto bene i titoli dei brani e ho capito che il Giorgio in questione è Moroder: siamo quindi di fronte ad un tributo dedicato al musicista alto-atesino, quanto di più lontano ci può essere dal country e dal southern che sono gli stili abituali di Jennings. Il problema è che ho anche nel frattempo sentito il disco e siamo proprio in ambito disco elettronica anni ’80, sia pure con qualche violino svolazzante qui e là, e, per i miei gusti, il disco è veramente brutto, tra le cose più pacchiane ascoltate ultimamente. Basta dire che i due brani “migliori” sono The Neverending Story, quella con la Carlile e Cat People, con Manson, E ho detto tutto! Peccato, perché nel recente Southern Family la sua Can You Come Over? era una delle cose migliori.

explosions in the sky the wilderness

Sempre nei prossimi giorni è in uscita il nuovo album degli Explosions In The Sky The Wilderness, il settimo album di studio della band texana di psych-post-rock improvvisato e il primo dopo una serie di colonne sonore, quindi il seguito dell’ottimo Take Care, Take Care, Take Care del 2011. Etichetta Temporary Residence, per nove brani di splendida improvvisazione strumentale, come sempre

charles bardley changes

Cambiando completamente genere, esce la prima settimana di aprile il nuovo album di Charles Bradley Changes, etichetta Dubham, e nonostante il titolo non ci sono cambiamenti nello stile di Bradley, “The Screaming Eagle Of Soul” tiene fede al suo soprannome e continua a pubblicare album di ottima musica nera, sulla scia dei suoi idoli James Brown, Wilson Pickett Otis Redding. Questa volta, forse, la canzoni sono leggermente inferiori a quelle dei due dischi precedenti ( No Time For Dreaming http://discoclub.myblog.it/2011/12/31/un-nuovo-vecchio/ e Victim Of Love), ma trattasi sempre e comunque di grande musica soul. La title-track è una cover di una vecchia ballata dei Black Sabbath (!?!? ed è una versione straordinaria, sentire per credere: dedicata alla madre scomparsa.

trembling bells wide majestic aire

Altro cambio di genere ed altra voce splendida. Parlo di Lavinia Blackwall, la cantante dei Trembling Bells, uno dei gruppi più interessanti del “nuovo” folk britannico. Fondata nel 2008 dal batterista Alex Nelson la band scozzese, autrice di cinque album fino ad ora, è una delle formazioni più eclettiche in circolazione attualmente: paragonati a Pentangle, Fairport Convention, Incredible String Band, per la loro fusione di rock, folk, jazz, improvvisazione e rigore, hanno solo il “difetto” di pubblicare i loro CD per una piccola etichetta la Tin Angel (e prima la Honest John), quindi difficili da reperire e abbastanza costosi per noi euro-centrici, Ma vi assicuro vale la pena di approfondire, cosa che mi riprometto di fare, magari parlando anche dell’album del 2015 The Sovereign Self, oltre che di questo nuovo Wide Majestic Aire, che in teoria è un mini-album (però con ben sette brani e una durata oltre i trenta minuti, una canzone in meno dell’album dello scorso anno, che comunque aveva pezzi anche abbastanza lunghi). Per il momento sentite la meravigliosa title-track del nuovo album e godete dello splendido soprano della Blackwall. Siamo ai livelli di Jacqui McShee, Maddy Prior e Sandy Denny (di cui tra un attimo). Ma che voce ha!.

black mountain iv

Ulteriore cambio completo di genere, rispetto ai dischi di cui si è parlato finora, per il nuovo album dei Black Mountain: la band canadese, dopo sei anni di silenzio, in cui i vari componenti del gruppo si erano dedicati ai loro vari gruppi collaterali e alle meritorie attività di aiuto per poveri e bisognosi attraverso svariate associazioni benefiche, torna con IV, il nuovo disco che ci riporta al loro stoner-psychedelic-heavy rock, molto anni ’70 e anche molto godibile, un sound energico e tirato https://www.youtube.com/watch?v=_USHKQ4Ntc8 , ma anche raffinato a tratti ,come dimostra il nuovo CD, pubblicato come al solito dalla JagJaguwar il 1° aprile.

king crimson live in toronto

Per completare le uscite della prima settimana di aprile manca il nuovo, ennesimo, disco dal vivo dei King Crimson. Il doppio, Live In Toronto, a differenza del solito, non comprende materiale d’archivio, ma un concerto abbastanza recente, tenuto il 20 Novembre del 2015 dalla band di Robert Fripp, nell’ultima configurazione, quella con tre batteristi, più Jakko Jakszyk, chitarra e voce, nel ruolo che fu di Adrian Belew, Tony Levin al basso, Mel Collins a flauto e sax. Si tratta di un doppio CD pubblicato dalla DGM/PANEGYRIC, questi i brani:

Disc 1:
1 Threshold Soundscape
2 Larks’ Tongues In Aspic Part I
3 Pictures Of A City
4 VROOOM
5 Radical Action (To Unseat the Hold of Monkey Mind)
6 Meltdown
7 Hell Hounds of Krim
8 The ConstruKction of Light
9 Red
10 Epitaph

Disc 2:
1 Banshee Legs Bell Hassle
2 Easy Money
3 Level Five
4 The Letters
5 Sailor’s Tale
6 Starless
7 The Court of the Crimson King
8 21st Century Schizoid Man 

ronnie spector english heart

Dopo la recente antologia http://discoclub.myblog.it/2015/11/26/darlene-love-ecco-la-piu-famosa-delle-spector-girls-ronnie-spector-the-very-best-of-ronnie-spector/, esce un nuovo album di Ronnie Spector English Heart, data di pubblicazione 8 aprile, etichetta Caroline/Universal. Come lascia intuire il titolo si tratta di brani inglesi che provengono tutti dai primi anni ’60 (ma incisi oggi), il periodo glorioso del successo delle Ronettes con Be My Baby.  Al solito c’è una Deluxe Edition con DVD, in escusiva per Amazon (che però è il  documentario del making of e interviste varie):

[CD]
1. Oh Me Oh My (I’m A Fool For You Baby)
2. Because
3. I’d Much Rather Be With The Girls
4. Don’t Let The Sun Catch You Crying
5. Tired Of Waiting
6. Tell Her No
7. I’ll Follow The Sun
8. You’ve Got Your Troubles
9. Girl Don’t Come
10. Don’t Let Me Be Misunderstood
11. How Can You Mend A Broken Heart

[Amazon Exclusive Bonus DVD]
1. The Making of English Heart with extensive interview, studio and performance footage.

Come vedete ci sono pezzi dei Kinks, Beatles, Animals, Yardbirds, Gerry & The Pakemakers e una poco conosciuta I’d Much Rather Be With The Girls, che nell’originale finiva con Boys, ed era degli Stones. Questa volta non ho sentito nulla,per cui non vi so dire.

bellowhead the fareweel tour

Bellowhead, un’altra delle migliori formazioni del folk-rock britannico (undici elementi, anche con fiati) stanno completando il loro tour d’addio, in seguito all’abbandono del leader e cantante Joe Boden, tournée che si completerà a maggio del 2016. Come commiato ci lasciano questo splendido triplo dal vivo Live: The Farewell Tour (2 CD + 1 DVD) che uscirà per la Navigator Records l’8 aprile. Sembrano un incrocio tra i Pogues e i Dexys Midnight Runners https://www.youtube.com/watch?v=In-tsizA2Ls

eagles beacon theatre new york 1974 eagles don kirshner's rock concert eagles live at the summit houston 1976

Nell’ultimo paio di anni c’è stata una crescita esponenziale nella pubblicazione di CD relativi a broadcast radiofonici degli artisti più disparati, spesso più interessanti dei Live ufficiali e molti incisi decisamente bene. Dall’inizio dell’anno, in seguito alla scomparsa di Glenn Frey, ne sono usciti e stanno per uscirne, alcuni dedicati agli Eagles. Dei tre dischetti che vedete effigiati qui sopra i primi due sono relativi allo stesso concerto, tenuto al Beacon Theatre di New York il 14 marzo del 1974 per il tour di On The Border (che sarebbe uscito nei negozi il 22 marzo): formazione originale, con Don Henley, Glenn Frey, Bernie Leadon Randy Meisner, più Don Felder che era appena entrato nel gruppo. Incisione eccellente per entrambe le versioni, forse un filo meglio Don Kirshner’s Rock Concert, ma Beacon Theatre, New York 1974 costa meno, quindi vedete voi.

Escono entrambi l’8 aprile e questa è la lista dei brani:

1. DJ Introduction
2. Peaceful Easy Feeling
3. Already Gone
4. Good Day In Hell
5. Silver Threads & Golden Needles
6. Desperado
7. It Doesn’t Matter Anymore
8. Midnight Flyer
9. Twenty One
10. Ol’ 55
11. Your Bright Baby Blues
12. Looking Into You
13. James Dean
14. Doolin-Dalton / Desperado (Reprise)
15. Take It Easy

Grande concerto, in tutti i sensi. Nei brani 6, 7 e 8 canta Linda Ronstadt, nell’11 e 12 Jackson Browne e nel gran finale di Take It Easy tutti insieme. Ottimo anche il medley Doolin’ Dalton/Desperado quasi 9 minuti.

L’altro live degli Eagles Live At The Summit, Houston 1976, è un doppio, giù uscito da qualche tempo, pure questo inciso molto bene. Il concerto è stato registrato nel novembre del 1976, qualche settimana prima dell’uscita di Hotel California, che apre proprio il concerto: in formazione c’è già Joe Walsh che esegue anche brani dei suoi dischi solisti e della James Gang. Si tratta del concerto completo, a differenza del Eagles Live doppio vinile ufficiale che sarebbe uscito nel 1980 ed era tratto da vari concerti diversi del 1976 e del 1980 e pure non particolarmente lungo come durata. Quindi consigliato anche questo

Come vedete per entrambi, più che di broadcast radiofonici parliamo di eventi televisivi.

sandy denny i've always kept a unicorn

E per finire in bellezza con le uscite di aprile un altro CD di una della mie preferite in assoluto, Sandy Denny, in uscita per la Universal il 22 aprile, un doppio al prezzo di uno, si intitola I’ve Always Kept An Unicorn, come la sua biografia ufficiale pubblicata lo scorso anno (solo in inglese, purtroppo) e tra poco disponibile anche in versione paperback meno costosa. Come dice il sottotitolo The Acoustic Sandy Denny, si tratta di una antologia di materiale raro ed inedito, demo, versioni acustiche, in studio e dal vivo, tratto da tutte le epoche: dagli inizi con gli Strawbs, passando ai Fairport Convention, Fotheringay (a proposito splendido il box dello scorso anno), la carriera solista e le collaborazioni: tra cui i 3 brani inediti in assoluto, tratti dalle sessions per il disco Rock On attribuito a The Bunch, di cui cui vi segnalo un duetto alternativo con Linda Thompson in When Will I Be Loved degli Everly Brothers, già presente nella versione originale.

 In questo caso soldi spesi bene. Ecco il contenuto:

DISC ONE

01: Who Knows Where the Time Goes – Acoustic version – The Strawbs & Sandy Denny

02: You Never Wanted Me (Saga album version) – Sandy Denny
03: Milk and Honey (re-recorded version) – Sandy Denny
04: Autopsy (demo) – Fairport Convention
05: Now And Then (demo) – Fairport Convention
06: She Moves Through the Fair (acoustic master) ) – Fairport Convention
07: Fotheringay (acoustic master) – Fairport Convention
08: The Pond and the Stream (demo) – Fotheringay
09: Winter Winds (demo) – Fotheringay
10: Wild Mountain Thyme (BBC Sounds of the Seventies) – Fotheringay
11: Lowlands of Holland (BBC Folk On One) – Fotheringay
12: Wretched Wilbur (demo) – Sandy Denny
13: The Optimist (demo) – Sandy Denny
14: Late November (BBC One In Ten) – Sandy Denny
15: North Star Grassman and the Ravens (BBC Paris Theatre) – Sandy Denny
16: Next Time Around (BBC Paris Theatre) – Sandy Denny
17. John The Gun (BBC Paris Theatre) – Sandy Denny
18: Love’s Made A Fool Of You ( demo ) – The Bunch Previously Unreleased
19: When Will I Be Loved ( demo ) – The Bunch Previously Unreleased
20: Learning the Game (demo) – The Bunch Previously Unreleased

DISC TWO

01: Quiet Joys of Brotherhood (demo) – Sandy Denny
02: After Halloween ( demo ) – Sandy Denny
03: The Lady (demo # 2) – Sandy Denny
04: Bushes and Briars (live – BBC Bob Harris Show ) – Sandy Denny
05: The Music Weaver (demo) – Sandy Denny
06: No End (demo – piano version) – Sandy Denny
07: Solo (BBC John Peel Session – acoustic version) – Sandy Denny
08: Like and Old Fashioned Waltz (BBC John Peel Session – acoustic version)
09: King and Queen of England (demo) – Sandy Denny
10: Rising For The Moon (demo) – Fairport Convention
11: One More Chance (demo) – Fairport Convention
12: Take away the load (demo) – Fairport Convention
13: What Is True? (demo) – Fairport Convention
14: Blackwaterside ( live on Marc Time ) – Sandy Denny
15: No More Sad Refrains ( live on Marc Time ) – Sandy Denny
16: Full Moon (demo) – Sandy Denny
17: I’m A Dreamer (demo # 2) – Sandy Denny
18: By The Time It Gets Dark (studio demo 1976) – Sandy Denny
19: One Way Donkey Ride (acoustic master 1976) – – Sandy Denny
20: Moments ( acoustic version ) – Sandy Denny

That’s all folks.

Bruno Conti