Un “Virtuoso” Elettrico Ed Eclettico, Questa Volta Senza Esagerazioni. Gary Hoey – Neon Highway Blues

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Gary Hoey – Neon Highway Blues – Mascot/Provogue

Dopo una carriera trentennale e una ventina di album nel suo carnet, nel 2016 anche Gary Hoey era approdato alla Mascot/Provogue, che negli ultimi anni sta diventando la casa di gran parte dei migliori chitarristi (e non solo) in ambito blues-rock. Dopo meno di tre anni arriva ora questo Neon Highway Blues che fin dal titolo vuole essere un omaggio alle 12 battute, come ricorda lo stesso Hoey, che cita tra le sue influenze tutti i grandi King del blues, Albert, B.B. e Freddie, e poi aggiunge scherzando anche Burger King, ah ah (battuta che neppure io mi sarei permesso di sottoporre ai lettori). Il chitarrista di Lowell, Massachusetts, anche se il suo stile è sempre stato decisamente più hard’n’heavy, evidentemente nel proprio cuore ha sempre riservato uno spazio pure per il blues, accanto alle derive più “esagerate” e virtuosistiche della sua musica. Diciamo che per l’occasione, autoproducendosi nel suo studio casalingo nel New Hampshire, ha cercato di temperare gli eccessi, riuscendoci in gran parte.

La politica della sua etichetta, la Mascot/Provogue, prevede spesso la partecipazione di alcuni ospiti interscambiabili tra loro nei vari album di ciascuno; per l’occasione nell’iniziale super funky  Under The Rug, a fianco di Gary troviamo Eric Gales, per un brano molto scandito e tirato che ha vaghe parentele con il Jeff Beck meno canonico, con i due che si scambiano sciabolate chitarristiche a volume sostenuto, ma con buoni risultati, anche se Hoey come cantante non è certo memorabile. Josh Smith, ex bambino prodigio della chitarra e protetto di Jimmy Thackery, dà una mano in Mercy Of Love, un blues lento intenso e carico di feeling , di quelli lancinanti, duri e puri, con le soliste che si sfidano in grande stile, e anche in Don’t Come Crying, altro slow di quelli giusti, Hoey si fa aiutare, questa volta dal figlio Ian, ancora una volta con eccellenti risultati https://www.youtube.com/watch?v=HZAAgedTJ0s . L’ultimo ospite è Vance Lopez, che duetta con Gary in un pimpante shuffle come Damned If I Do; per il resto il nostro amico fa tutto da solo, come nella vivace Your Kind Of Love, dove va di slide alla grande, o anche nella swingante I Still Believe In Love, dove il Texas blues di Stevie Ray Vaughan viene omaggiato con la giusta intensità e classe.

Non mancano i brani strumentali, una caratteristica costante nei suoi album: Almost Heaven, in bilico tra acustico ed elettrico ricorda certi pezzi del collega Eric Johnson, e anche, come tipo di sound, il lato più romantico e ricercato delle ballate di Gary Moore, con tutto il virtuosismo del musicista di Boston in bella evidenza. I Felt Alive è un’altra ballata, però dal suono decisamente più duro, con qualche aggancio agli Zeppelin e al loro seguace Joe Bonamassa, però non entusiasma più di tanto, meglio l’altro strumentale, la sognante, maestosa e raffinata Waiting On The Sun https://www.youtube.com/watch?v=IxXA8osxk-A . Viceversa Living The Highlife, più dura e molto riffata, è classico hard-rock seventies style di buona fattura. Il blues torna nell’ultimo brano dell’abum, la title track Neon Highway Blues, un’altra raffinata blues ballad dove si apprezza la sempre notevole tecnica di questo signore. Per chi ama i chitarristi elettrici ed eclettici, questa volta mi pare Gary Hoey abbia centrato il bersaglio.

Bruno Conti

La Classe Non Manca: Una Piacevole Sorpresa “Acustica”! Eric Johnson – ej

eric johnson EJ

Eric Johnson – EJ – Mascot/Provogue

Nel 2014 erano usciti Europe Live http://discoclub.myblog.it/2014/06/17/prossimo-disco-dal-vivo-eric-johnson-europe-live/  e Eclectic, il disco registrato in coppia con Mike Stern http://discoclub.myblog.it/2015/02/11/rock-blues-jazz-eric-johnson-and-mike-stern-eclectic/ , ora, quasi a smentire le voci di scarsa prolificità che sono sempre state accostate a Eric Johnson (anche da chi scrive), esce già un nuovo album, EJ, il primo completamente acustico della sua carriera, diciamo meglio unplugged, perché non tutti i brani sono stati realizzati in solitaria. E volete sapere una cosa? Mi sembra decisamente bello, uno dei migliori della sua discografia, forse alla pari con Tones, con  Eric che si divide tra diversi tipi di chitarra acustica e il pianoforte: nove composizioni originali e quattro cover. Se vogliamo ulteriormente approfondire, contrariamente alle sue abitudini, il disco è stato registrato in presa diretta, con pochissime sovraincisioni, nel suo studio Texas Saucer Sound di Austin, con l’aiuto di alcuni musicisti, l’altro chitarrista Doyle Dykes, la violinista Molly Emerman, John Hagen al cello, e gli abituali accompagnatori di Johnson, la doppia sezione ritmica, a seconda dei pezzi, Tommy Taylor e Wayne Salzmann alla batteria e Roscoe Beck e Chris Maresh al contrabbasso.

Partiamo dalle cover: Mrs. Robinson di Simon And Garfunkel è la prima, una versione strumentale per sola chitarra acustica, molto bella, con un approccio sonoro che ricorda molto quello dei dischi della Windham Hill, pensate a William Ackermann, Alex De Grassi, ma anche Michael Hedges, tra fingerpicking e quei tocchi più moderni che hanno caratterizzato l’etichetta fondata da Ackermann. Eric Johnson è da sempre considerato un vero virtuoso della chitarra elettrica (tra i suoi fans più insospettabili c’era anche il conterraneo Stevie Ray Vaughan che lo considerava uno dei solisti più eclettici in circolazione e ne ammirava la tecnica e la dedizione allo strumento). Tutti elementi che risaltano in questo EJ, proprio a partire dalla appena citata rilettura del classico di Simon, un vero turbine di corde acustiche, accarezzate, pizzicate e percosse con vigore dal nostro amico, che pare quasi moltiplicarsi in questa dimostrazione di tecnica, ma anche di gusto squisito, al pari con i grandi virtuosi del passato. La seconda cover, sorprendente, è l’omaggio a Jimi Hendrix (da sempre tra i  miti di Johnson) qui ripreso con una versione di One Rainy Wish, uno dei brani di Axis: Bold As Love che secondo gli appassionati del mancino di Seattle evidenziava le influenze di chitarristi jazz come Jim Hall e Wes Montgomery (altri punti fermi di Johnson) rivisti nell’ottica unica di Hendrix, e pure nella rilettura del texano ritornano e si evidenziano quegli elementi jazz, tra chitarre acustiche, piano, una sezione ritmica agile ed inventiva e il cantato caldo e partecipe del nostro amico, non sempre vocalist di grande pregio, che però nel brano in questione e in generale in tutto l’album dimostra di essere a proprio agio in questa atmosfera più intima e raccolta.

Il terzo brano non originale è una vorticosa cover, accelerata allo spasimo, quasi a tempo tra bluegrass e ragtime, del classico di Les Paul e Mary Ford (ma era nata come canzone popolare americana degli anni ’20, la facevano anche Stanlio e Olio), The Word Is Waiting For The Sunrise, un duetto con Doyle Dykes che rievoca quelli dei virtuosi della chitarra degli anni ’70. Ancora Simon & Garfunkel per Scarborough Fair, anche se la canzone è in effetti  un traditional imparato da Simon da Martin Carthy, che include la famosa lirica Parsley, Sage, Rosemary And Thyme, titolo di uno dei loro dischi più belli: nell’interpretazione di Eric Johnson diviene una fluente ballata per solo piano e voce dove vengono alla luce anche i lati più melodici del musicista di Austin.

Il resto del disco è tutto farina del suo sacco: dalla delicata e deliziosa canzone Water Under The Bridge, ancora solo piano e voce, passando per Wonder, altro esempio di approccio folk che potrebbe ricordare musicisti inglesi come Carthy, Jansch e Renbourn, e ancora Wrapped In A Cloud, splendido esempio di brano soft-rock (un termine forse desueto ma efficace) con piano, cello, sezione ritmica e voce femminile di supporto, che rimanda ai migliori brani di Elton John, ma anche di vecchi datori di lavoro di Johnson come Carole King e Cat Stevens. Once Upon A Time In Texas è un eccellente strumentale che si rifà a gente come Leo Kottke, con le corde d’acciaio della chitarra di Eric sollecitate al meglio, e anche Serinidad è uno splendido strumentale, questa volta più malinconico, con le mani che scivolano delicate sul nylon delle corde. In Fatherly Downs si accompagna con una Martin D-45 in un’altra bella ballata cantata di stampo folk e svolazzi virtuosistici di chitarra. Mentre November, dove appare anche uno struggente violino, è una ulteriore bella ballata pianistica con tutto il gruppo che lo accompagna e All The Things You Are, solo voce e acustica, se non fosse per la voce più sottile di Johnson, potrebbe rimandare di nuovo ai brani in fingerpicking di Leo Kottke. A chiudere Song For Irene, altro complesso strumentale dove suona la steel string guitar. Veramente tutto bello!

Bruno Conti