Questa Volta La Collaborazione Famigliare Non Ha Funzionato? Neil & Liam Finn – Lighsleeper

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Neil & Liam Finn – Lightsleeper – Inertia/[PIAS]/Self     

Neil Finn, per certi versi, è sempre stato uno “specialista” degli album collaborativi, soprattutto con altri membri della famiglia: negli Spli Enz divideva la leadership con il fratello Tim, insieme al quale, dopo la parentesi nei Crowded House, ha dato vita ai Finn Brothers, autori di un paio di album, e anche Paul Kelly è stato tra i suoi compagni di viaggio, Tra i tanti dischi della sua discografia solista forse il più bello è proprio l’album dal vivo collettivo 7 Worlds Collide, dove il musicista neozelandese collaborava con molti musicisti arrivati da tutto il mondo: Eddie Vedder, Johnny Marr, Ed O’Brien, Tim Finn, Sebastian Steinberg, Phil Selway, Lisa Germano, e i Betchadupa che nel 2002 erano la band del figlio Liam https://discoclub.myblog.it/2009/11/03/7-worlds-collide-sun-came-out/ (uno dei primi post del Blog, nel lontano 2009). Ma specie dal vivo i vari componenti della famiglia si sono trovati spesso sul palco, oltre a Neil, Tim e Liam, anche la moglie di Neil Sharon e l’altro figlio Elroy, rispettivamente al basso e alla batteria in alcuni brani di questo nuovo Lightsleeper.

In tre brani è presente anche Mick Fleetwood, e così sbrighiamo un’altra pratica, perché, per chi ancora non lo sapesse, Neil Finn sarà (insieme a Mike Campbell degli Heartbreakers) il nuovo chitarrista e cantante dei Fleetwood Mac per il tour autunnale, in sostituzione di Lindsey Buckingham (che però dice di essere stato estromesso dalla band, e non di essersene andato di propria volontà). Torniamo a questo album: ascolto il disco molto prima della sua uscita che sarà verso la fine di agosto, non ho moltissime informazioni ma sufficienti, per cui quindi mi affido soprattutto alla musica, che però, devo dire, non mi entusiasma. Il disco viene presentato come un incontro tra la sensibilità pop (e rock) del babbo Neil e lo stile più lo-fi e alternative del figlio Liam: in Back To Life che è il singolo che precede l’album ci sono anche i due musicisti greci Elias Dendias e Spiros Anemogianis, a bouzouki e fisarmonica, belle armonie vocali e un uso intelligente dello studio di registrazione, che è quello di Auckland di proprietà di Neil, per uno stile tra pop, qualche accenno di world music e traiettorie musicali raffinate, non lontane da quello di Peter Gabriel, che pure con una vocalità diversa e più “teatrale” potrebbe rimandare ai dischi dell’ex Genesis. Nell’iniziale Island Of Peace, preceduta da un breve preludio, c’è tutto un florilegio di electronics e tastiere da dove faticano ad emergere le abituali brillanti melodie di Finn,  ancora fin troppo annacquate nella morbida e zuccherosa Meet Me In The Air, cantata con un falsetto eccessivamente levigato, tutto molto raffinato, ma poca sostanza.

La lunga Where’s My Room si apre sul consueto tappeto di percussioni programmate, poi vira verso ritmi quasi dance sicuramente “moderni”,  ma che non sembrano consoni al solito sound della famiglia Finn e anche quando la melodia prende il sopravvento mi sembra molto sempliciotta e banale, sempre per i miei gusti ovviamente. In Angel Plays A Part, il primo dei brani dove Fleetwood siede alla batteria, lo spirito pop sembra prendere il sopravvento, la bella voce di Tim intona una piacevole melodia, nulla di memorabile, ma il tocco di classe non manca, anche se la canzone mi pare nuovamente involuta; Listen, una bella ballata pianistica, sempre molto “lavorata”, finalmente mostra il lato più interessante dei brani classici di Finn, con echi quasi Beatlesiani, diciamo lato Paul McCartney. Anche in Any Other Way si insiste con questo dream pop indie che è più farina del sacco di Liam, Fleetwood è ancora accreditato alla batteria, ma francamente non si nota molto; di Back To Life abbiamo detto, Hiding Place introdotta da arpeggi di acustica e piano, poi viene sommersa da un florilegio di tastiere che però questa volta non nascondono del tutto le melodie di Finn, benché al solito siano ”esagerate” e anche Ghosts non risulta particolarmente memorabile. Lasciando a We Know What It Means, l’ultimo brano con Fleetwood, il compito di risollevare il lato pop-rock dell’album, che si chiude sulla nota gentile della dolce e quasi acustica Hold Her Heart. Fin(n) troppo “sonnacchioso”. Esce domani.

Bruno Conti

La Ragazza Sa Benissimo Dove Andare! Ashley McBryde – Girl Going Nowhere

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Ashley McBryde – Girl Going Nowhere – Atlantic/Warner Music Nashville CD

Quando mi imbatto in una newcomer in ambito country che al suo esordio incide subito per una major e con un produttore affermato, mi insospettisco all’istante. E’ quello che ho fatto anche quando ho avuto tra le mani questo Girl Going Nowhere, disco d’esordio di Ashley McBryde, giovane musicista dell’Arkansas (avrebbe due album autogestiti alle spalle, ma sono introvabili), che vede alla produzione il noto Jay Joyce, uno abituato a passare dall’oro allo stagno, avendo nel curriculum gente di livello come John Hiatt, Emmylou Harris e Wallflowers ed altra molto meno interessante, come Keith Urban, Cage The Elephant e Carrie Underwood. Ma questa volta i miei sospetti erano, con mio grande piacere, infondati: Girl Going Nowhere è davvero un dischetto pienamente riuscito, da parte di un’artista che sa il fatto suo, scrive molto bene, canta anche meglio e passa con disinvoltura dalla ballata più toccante al brano rock più trascinante, uscendo spesso anche dall’ambito del country di Nashville (dove risiede attualmente).

Ed il disco non contiene il solito fiume di musicisti che timbrano il cartellino, né vede la presenza di strumenti che poco hanno a che vedere con la vera musica (come synth e drum machines), ma presenta una ristretta e solidissima band di appena quattro elementi (cinque compresa Ashley), coordinati da Joyce con mano sicura ed esperta: due chitarristi (Andrew Sovine e Chris Harris), un bassista (Jasen Martin) ed un batterista (Quinn Hill). Non ci sono neppure le tastiere. Ed il disco ha pertanto un suono solido, vigoroso ed unitario, perfetto per accompagnare le ottime canzoni scritte dalla McBryde: in poche parole, un album da gustare dal primo all’ultimo brano. La title track non fa iniziare il disco col botto, bensì con una dolce ed intensa ballata acustica https://www.youtube.com/watch?v=9s830jmiqnw , molto cantautorale, sullo stile di Rosanne Cash: dopo due minuti entra il resto della band in maniera discreta, ed il pezzo acquista ulteriore pathos. Per contro Radioland ha un bel riff chitarristico ed un ritmo decisamente sostenuto, un rockin’ country pulito e trascinante al tempo stesso: Ashley ha voce e grinta, ed in questi due brani dimostra anche una certa versatilità; molto bella anche American Scandal, una ballata fluida, potente e di sicuro impatto, con un refrain di pima qualità ed un arrangiamento elettrico che la veste alla perfezione.

Southern Babylon è notturna ed intrigante, cantata con voce quasi sensuale, The Jacket è invece solare, orecchiabile, dallo spirito californiano e similitudini con certe cose dei Fleetwood Mac, uno di quei pezzi che si canticchiano dopo appena un ascolto; Livin’ Next To Leroy ha marcati elementi sudisti, con un motivo che ricorda, forse volutamente, Sweet Home Alabama dei Lynyrd Skynyrd, ed è manco a dirlo tra le più riuscite. La McBryde si dimostra una gradita sorpresa, è brava, ha personalità e sa scrivere belle canzoni, come A Little Dive Bar In Dahlonega, una notevole ballad dalla melodia distesa (neanche tanto country), o Andy (I Can’t Live Without You), altro momento acustico e pacato, ma dal feeling ben presente. El Dorado è roccata ed energica, con una ritmica a stantuffo e la solita grinta, Tired Of Being Happy è uno straordinario slow dal sapore southern country (con un tocco soul), perfetto sotto tutti i punti di vista, un brano splendido e suonato alla grande che non fatico ad eleggere come il migliore del CD. Chiude l’intensa ed emozionante Home Sweet Highway, ancora molto soul nel suono: Girl Going Nowhere è dunque un disco, come ho già detto, sorprendente, ed Ashley McBryde una musicista di cui spero sentiremo parlare ancora.

Marco Verdi

Il “Nuovo” British Blues, Made In Italy. Alex Haynes & The Fever – Howl

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Alex Haynes & The Fever – Howl – Appaloosa Records/Ird

Da non confondere con il quasi omonimo chitarrista texano Alan Haynes, né tantomeno, ovviamente, con Warren Haynes, Alex Haynes è un bluesman britannico: proveniente dal nord del Regno Unito, si è trasferito nella zona di Londra, dove alterna la sua attività di musicista con quella di insegnante (sempre di musica), “mestiere” che condivide con il pianista Richard Coulson, presente al piano come ospite in questo Howl. In attività da una decina di anni ha pubblicato un EP e un album, credo francamente non molto facili da reperire (però il nostro amico nei suoi tour europei  passa spesso dall’Italia, per cui mai dire mai). Anche lui, come le generazioni che lo hanno preceduto è stato influenzato dalla musica di John Lee Hooker e Howlin’ Wolf, per fare un paio di nomi, ma ovviamente anche da tutto il fenomeno storico del British Blues, con una preferenza per i Fleetwood Mac di Peter Green, ma anche altre influenze confluiscono nei suoi brani (10 in questo CD, tutti firmati da Haynes stesso). Ascoltando il primo pezzo Nervous direi anche il Bo Diddley più blues o sul lato inglese i primi Savoy Brown, quando c’era ancora Bob Hall al piano, o i Dr. Feelgood meno deraglianti: comunque c’è grinta, elettricità e potenza, siamo dalle parti di un  blues-rock verace, dove la sezione ritmica italiana dei The Fever, Alessandro Diaferio al basso e Pablo Leoni alla batteria, non si tira indietro e “strapazza” di gusto i propri strumenti, mentre la chitarra di Haynes segue le orme dei grandi solisti di Terra D’Albione che lo hanno preceduto, e anche l’organo di Ernesto Ghezzi, oltre al pianino saltellante di Coulson è a tratti elemento portante del sound.

Ed è solo il primo brano. I’m Your Man (non “quella”) ha qualche retrogusto alla Cream, sempre con l’organo di supporto, e un groove che va anche di boogie, come pure sfarfallii del beat inglese, quello più sporco e genuino delle prime band anni ‘60. Non guasta ricordare che Haynes ha anche una buona voce, solida ed espressiva, come evidenzia l’ipnotica Howl dove si manifesta anche una minacciosa slide, per una canzone dalle atmosfere sospese e sporche, che profumano di Chicago Blues casa Chess rivisto in ottica rock e piccoli tocchi psych, come usava sempre negli anni ’60, prima di rilasciare un esplosivo solo al bottleneck. Shake It Up ha un tiro più roots-rock, saltellante e mossa, con il giusto equilibrio tra melodia e slancio rock and roll, e un riff vagamente alla Creedence; Lonesome Shadows è una ballata tra country e blues, solo la voce di Alex e una chitarra elettrica prima arpeggiata e poi twangy, che rimanda al suono dei primordi del rock, mentre All I Got In This World, con una acustica in modalità nuovamente slide viaggia dalle parti del primo John Lee Hooker, ma anche dell’Elmore James tanto amato dai Fleetwood Mac, senza dimenticare l’hill country blues di RL Burnside ereditato dai North Mississippi Allstars di Luther Dickinson o da Reed Turchi.

I nomi “volano” ma servono ovviamente per far capire la musica, spero: senza dimenticare una poderosa Bad Money, dura e cattiva il giusto, dove il gruppo tira come una cippa lippa. Notevole pure la  deliziosa simil soul ballad con uso d’organo, Solid Sender, dove Alex Haynes sfodera un timbro vocale veramente accattivante e la chitarra disegna interessanti spunti improvvisativi nell’ottimo solo nella parte centrale; e per sparare un altro nome, ecco Andy J Forest,  che appare di persona con la sua armonica per vivacizzare, insieme al piano di Coulson, un pezzo che profuma da lontano di Blues di Chicago, il più classico possibile, con Haynes di nuovo alla slide. E per concludere l’opera rimane la traccia più lunga dell’album Shed My Skin, di nuovo a cavallo tra boogie blues ipnotico e derive psichedeliche elettriche anni ’60 di ottima fattura, con la chitarra che parte per la tangente e non la ferma più nessuno. Decisamente un buon disco, solido e dai contenuti variegati, consigliato a chi ama il blues ancora in grado di sorprendere, non troppo paludato o canonico, per quanto rispettoso dei maestri.

Bruno Conti

Dal Country Al Pop Senza Passare Dal Via! Kacey Musgraves – Golden Hour

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Kacey Musgraves – Golden Hour – MCA/Universal CD

Terzo album, quarto se contiamo il CD natalizio, per la cantautrice Kacey Musgraves, gran bella ragazza ma anche brava artista, che di lavoro in lavoro mostra indubbi segni di crescita: Golden Hour dovrebbe nelle sue intenzioni essere il disco della definitiva affermazione, dopo che Pageant Material nel 2015 aveva fatto drizzare le orecchie a molti https://discoclub.myblog.it/2015/09/18/ultimi-ripassi-fine-estate-bella-brava-texana-kacey-musgraves-pageant-material/ . E con questa sua nuova fatica  Kacey spariglia le carte in tavola e cambia quasi completamente genere: infatti se prima la sua musica poteva essere definita country di qualità, con più di un rimando a sonorità vintage, con questo album la bruna cantante texana si reinventa come pop singer, ma un pop non da classifica (tranne un paio di casi), ma dai suoni raffinati, ben costruiti e spesso anche intriganti. Certo, tutti i brani presenti sul disco sono adattissimi al passaggio in radio, ma nel 90% dei casi sono in grado di soddisfare anche i palati più esigenti. Gran parte del merito va ai due produttori, Daniel Tashian (leader dei Silver Seas) e Ian Fitchuck, che hanno costruito intorno alla bella voce della Musgraves il vestito sonoro giusto, con un piccolo ma misurato (e non invasivo) aiuto dell’elettronica, hanno scelto musicisti solitamente country (tra cui Dan Dugmore e Russ Pahl) adattando il loro sound a quello del disco.

Il resto lo ha fatto Kacey, che ha scritto in collaborazione con i due produttori una serie di canzoni molto piacevoli e le ha interpretate al meglio, riuscendo secondo me a non far pesare più di tanto il cambiamento stilistico. Slow Burn è un inizio attendista (come da titolo), una ballata di ampio respiro che parte solo con voce e chitarra, poi ad uno ad uno entrano tutti gli strumenti ed il suono si fa pieno ma non ridondante: di country non c’è nulla, ma piuttosto siamo nel pop di fine anni sessanta, tipo i primi Bee Gees. Niente male Lonely Weekend, una pop song solare, quasi californiana, dal refrain orecchiabile e cori che rimandano ai Fleetwood Mac classici https://www.youtube.com/watch?v=Zr3gscRpAhA , ed anche Butterflies prosegue il discorso, un brano semplice e ben costruito, con Kacey che canta benissimo e dimostra anche una certa classe (e l’accompagnamento a base di piano, chitarre e steel è perfetto). L’eterea Oh, What A World è affrontata dalla nostra con il consueto approccio gentile, e l’arrangiamento pop le dona particolarmente, mentre Mother è bellissima, una toccante ballata pianistica che però dura poco più di un minuto; anche Love Is A Wild Thing non è da meno, un intenso slow acustico (spunta anche un banjo), che dopo la prima strofa acquista ritmo anche se sempre all’insegna della leggerezza.

Space Cowboy, ancora lenta e meditata, è un’altra ballata di gran classe, Happy & Sad è dotata di uno dei migliori ritornelli del CD, mentre Velvet Elvis è fin troppo radio friendly per i miei gusti, ma comunque non da buttare. Wonder Woman è tersa, limpida e solare, ed anche qui sulla melodia niente da dire, ma High Horse è l’unico pezzo veramente da pollice verso, un misto tra pop e dance piuttosto indigesto che andrebbe bene per Madonna o Taylor Swift, e che non rende giustizia a Kacey. Per fortuna sul finale il CD torna su lidi più vicini ai nostri gusti, con la fluida e raffinata Golden Hour https://www.youtube.com/watch?v=maONL_HfI20  e la bella Rainbow, solo voce e piano ma con una notevole carica emotiva. Forse non arrivo ad affermare che la Kacey Musgraves in versione pop mi piaccia di più di quella country, ma di certo la bella cantante con Golden Hour per il momento è rimasta più o meno dalla parte giusta della città.

Marco Verdi

Sono Passati 20 Anni Ma E’ Sempre Un Piacere (Ri)Ascoltare Questa Voce Splendida. Eva Cassidy – Songbird 20

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Eva Cassidy –  Songbird 20 – Blix Street CD

Eva Cassidy, splendida cantante ed interprete sopraffina, non ha potuto godere del notevole successo avuto dai suoi album, in quanto il destino, sotto forma di un incurabile melanoma, ce l’ha portata via nel 1996 all’età di soli 33 anni. Una storia tristissima: Eva, che era una cantante eccezionale e di grande classe (con una formazione di base jazz e blues) è riuscita a vedere pubblicati solo due album prima di lasciarci, il poco conosciuto The Other Side (inciso con il chitarrista Chuck Brown) e lo strepitoso Live At Blues Alley, ristampato nel 2015 nella sua versione completa e re-intitolato Nightbird http://discoclub.myblog.it/2016/01/10/il-supplemento-della-domenica-disco-club-dimenticare-cantante-sublime-eva-cassidy-nightbird/ : fortunatamente (per noi) Eva aveva inciso una lunga serie di brani in studio (al 99% scritti da altri artisti, Eva era essenzialmente un’interprete), che hanno portato alla pubblicazione di ben sette bellissimi album postumi, molti dei quali di grande successo. Il disco che però l’ha fatta conoscere è Songbird, del 1998, una raccolta di dieci pezzi tratti dal disco dal vivo, da The Other Side e da Eva By Heart (1997), il primo lavoro uscito dopo la sua morte.

Oggi per il ventennale quel lavoro viene ripubblicato con il titolo di Songbird 20, aggiungendo quattro demo voce e chitarra di pezzi presenti nel disco e mai sentiti prima. Se volessi esprimere un giudizio in stellette ne dovrei dare tre e mezza, contrapponendo alle quattro del valore artistico dell’album le tre (e sono generoso) dell’opportunità della ristampa di un disco che già nel 1998 era un’antologia (e con quattro brani presi da un live riedito appena tre anni fa), seppur con l’esca dei quattro inediti per chi già lo possiede. I pezzi tratti dal concerto al Blues Alley iniziano con Fields Of Gold, una versione da brividi (molto meglio dell’originale di Sting) per voce e chitarra, toccante e splendida, per proseguire con un’intensa rilettura dell’evergreen Autumn Leaves, ancora acustica ma con la voce di Eva che è un vero e proprio strumento aggiunto, con una sontuosa People Get Ready di Curtis Mayfield (un plauso per la band, perfetta per accompagnare la cantante di Washington), e con Oh, Had I A Golden Thread, che da folk song resa popolare da Pete Seeger si trasforma in un impeccabile brano di stampo soul.

I pezzi in studio sono una magistrale versione swingata del traditional Wade In The Water, suonata con classe e cantata in maniera straordinaria, una raffinatissima Wayfaring Stranger in chiave jazz-blues (ma che voce!), una sentita riproposizione del classico Over The Rainbow, ancora voce , chitarra e poco altro, per non parlare della deliziosa Songbird (Fleetwood Mac), in cui Eva si produce anche in un raro assolo chitarristico. Infine abbiamo due brani scritti appositamente per la Cassidy (da Diane Scanlon), la sofisticata ballad Time Is A Healer, ancora dal sapore soul (Eva era in grado di affrontare con suprema nonchalance qualunque genere), e la struggente I Know You By Heart. I quattro inediti, quattro versioni spoglie di Songbird, Wade In The Water, People Get Ready e Autumn Leaves (quest’ultima in particolare da pelle d’oca), sono tutti decisamente belli ed intensi, e dimostrano che Eva non aveva bisogno di chissà quali orpelli per emozionare. Se già possedete il Songbird originale, l’acquisto di questa edizione per il ventennale è forse superflua (nonostante la bellezza degli inediti), ma se non conoscete ancora Eva Cassidy la parola indispensabile è l’unica che mi viene in mente.

Marco Verdi

E Questo Se Lo Erano Dimenticato? Fleetwood Mac – Fleetwood Mac

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Fleetwood Mac – Fleetwood Mac – Reprise/Warner CD – Deluxe 2CD – Super Deluxe 3CD/DVD/LP

Quando nel 2013 la Reprise decise di riservare il trattamento “deluxe box set” a Rumors, il disco più bello e più famoso dei Fleetwood Mac, a tutti sembrò semplicemente un omaggio ad uno degli album più venduti di tutti i tempi. Col tempo però il piano della casa discografica è stato rivelato, cioè trattare allo stesso modo tutti i dischi in studio della lineup più popolare del gruppo (cioè quella formata dai britannici Mick Fleetwood, John McVie e dall’allora moglie Christine Perfect McVie e dagli americani Lindsay Buckingham e Stevie Nicks): a Rumors sono seguite quindi le versioni deluxe dell’ambizioso Tusk e dei due episodi degli anni ottanta, il poco considerato Mirage ed il popolarissimo (e commerciale) Tango In The Night. Era però inspiegabilmente assente l’album che diede il via a tutto, cioè l’omonimo Fleetwood Mac del 1975 (o “White Album” come lo hanno soprannominato i fans), mancanza fortunatamente riparata oggi, con l’ultimo (?) episodio di questa serie di box deluxe che contengono anche il vinile originale rimasterizzato (esiste anche la versione in singolo e doppio CD).

E Fleetwood Mac è a mio parere, e non solo mio, il lavoro migliore del gruppo dopo Rumors, un delizioso disco di puro pop-rock californiano in cui le tre anime creative della band (Buckingham e le due ragazze) si amalgamano alla perfezione fin dal primo momento, pur mantenendo ognuno dei tre il proprio stile (il primo incontro tra i tre inglesi ed i due americani in un ristorante messicano di Los Angeles, con conseguente “colpo di fulmine” tra le due fazioni – specie tra la McVie e la Nicks, dato che Fleetwood non voleva nel gruppo due donne che non andassero d’accordo fin da subito – e ben narrato nelle note di David Wild nel libretto allegato). Il primo CD ripropone l’album originale, con i due nuovi arrivati già perfettamente integrati, e che anzi portano un fresco vento di novità nel sound. Buckingham arriva con in dote subito due pezzi da novanta: l’opening track Monday Morning, un perfetto ed orecchiabile pop-rock tipico del suo stile, che stranamente non uscirà su singolo ma diventerà negli anni uno dei pezzi più popolari del quintetto, e la conclusiva I’m So Afraid, rock song tesa e potente, che dal vivo diventerà un momento imperdibile per godere delle evoluzioni chitarristiche di Lindsay. Al riccioluto musicista di Palo Alto è affidata anche Blue Letter (un brano scritto dai fratelli Richard e Michael Curtis per il mai realizzato secondo album della coppia Buckingham-Nicks), un trascinante pezzo di puro rock californiano anni settanta e la ficcante e vigorosa World Turning, scritta e cantata con la McVie.

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Stevie Nicks si comporta ancora meglio, in quanto scrive due dei brani più belli della storia del gruppo: Rhiannon, una delle signature songs della bionda cantante e decisamente il pezzo più famoso del disco, un vero classico, con uno dei riff chitarristici più riconoscibili di sempre, e la splendida Landslide, uno slow acustico che è anch’esso tra le sue più belle canzoni in assoluto. In più, Stevie riesuma Crystal, che appariva anche su Buckingham-Nicks (del quale si attende ancora una ristampa in CD), una dolcissima ballata che viene però cantata da Buckingham. La McVie è sempre stata quella dei Mac che ho amato meno, troppo soft-pop il suo stile per i miei gusti, anche se qui mi smentisce in parte con Say You Love Me, irresistibile uptempo pianistico tra pop e rock’n’roll, un altro classico della band; per contro, Christine offre anche la raffinata (anche troppo) Warm Ways, la cadenzata ed immediata Over My Head, uscita come primo singolo in America (scelta strana, c’era di meglio), ma poi chiude con la deliziosa Sugar Daddy, solare e gradevolissima (e con Waddy Wachtel alla chitarra ritmica). Completano il primo CD le single versions di Over My Head, Rhiannon, Say You Love Me e Blue Letter. Il secondo dischetto, nei primi undici brani, propone versioni alternate (tutte inedite) dei pezzi originali, a dire il vero mai troppo diverse, ma che forniscono comunque un ascolto piacevole: alcune non sono ancora rifinite, altre (Blue Letter, Rhiannon e Say You Love Me, nella quale si sente di più la chitarra) andavano già bene così, mentre Crystal e Landslide in versione spoglia, voce e chitarra, sono lo stesso bellissime, e World Turning, con una lunga coda strumentale, è persino meglio.

A seguire abbiamo quattro brani ripresi dal vivo, tre da questo disco ed uno, Why (una rock ballad che non sfigura affatto), da Mystery To Me; chiudono il CD una fluida e rilassata jam collettiva (già uscita però su una precedente ristampa) e soprattutto una formidabile take strumentale di I’m So Afraid, con una performance mostruosa di Lindsay, un pezzo che da solo vale il dischetto e che forse è persino migliore di quella cantata. Il terzo CD (esclusivo per il box) è decisamente interessante, in quanto propone 14 brani dal vivo registrati nel tour promozionale dell’album, tutti inediti (tranne Don’t Let Me Down Again, uscita su Fleetwood Mac Live del 1980). Ho detto interessante perché ci sono diversi brani appartenenti alle lineup precedenti del gruppo, in quanto questa configurazione anglo-americana non aveva ancora un repertorio così ampio da riempire un intero concerto. Il CD si apre addirittura con un pezzo dei Chicken Shack (la prima band della McVie), la bluesata e trascinante Get Like You Used To Be, e poi prende due canzoni dal periodo “di mezzo”, l’intrigante rock song tinta di blues Station Man (in origine cantata da Danny Kirwan, qui da Buckingham e Nicks all’unisono) e la discreta Spare Me A Little (ce ne sono altre due appartenenti alla stessa fase della band, cioè la già citata Why e l’insinuante Hypnotized, scritta da Bob Welch). Sei pezzi arrivano da Fleetwood Mac, tra cui una scintillante Rhiannon, la solita strepitosa I’m So Afraid ed una spettacolare Blue Letter, con un grande finale chitarristico; completano la già citata Don’t Let Me Down Again, un saltellante pop-rock tratto da Buckingham-Nicks e due tra i pezzi più noti del primo periodo, quello con Peter Green, il rock-boogie Oh Well e la maestosa The Green Manalishi, nelle quali Lindsay fa di tutto per non far rimpiangere il grandissimo chitarrista inglese. Il DVD, solo audio, offre la versione 5.1 surround del disco originale più i soliti quattro singoli in stereo alta risoluzione.

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Ora la “golden age” dei Fleetwood Mac dovrebbe essere al completo, a meno che la Reprise non decida di rimettere fuori anche i due live, quello già citato del 1980 e The Dance del 1997. E non sarebbe affatto una cattiva idea.

Marco Verdi

Mancava Solo Un “Pezzo” Per Fare I Fleetwood Mac Di Nuovo, E Si Sente! Lindsey Buckingham Christine McVie

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Lindsey Buckingham Christine McVie – Lindsey Buckingham Christine McVie –East West/Warner

All’inizio uno potrebbe pensare ad un errore, Buckingham/McVie, ma non era Buckingham/Nicks? Se aggiungiamo che la sezione ritmica è formata da Mick Fleetwood alla batteria e John McVie al basso, non facevano prima a chiamare anche Stevie Nicks e fare un nuovo album dei Fleetwood Mac? Ma sarebbe stato troppo semplice e si sa che i musicisti sono strani, quelli di questo gruppo in particolare, si sono presi e lasciati in mille combinazioni nel corso degli anni, ma una certa amicizia e complicità è sempre rimasta, non credo che nei loro occhi brilli solo il simbolo del dollaro. Oltre a tutto il disco è abbastanza “democratico”: cinque pezzi di Buckingham, due della McVie (da sempre la meno prolifica) e tre firmati insieme. Produce Lindsey Buckingham con Mark Needham e Mitchell Froom, che suona anche le tastiere nell’album, oltre alla stessa Christine McVie. Capolavoro pop-rock quindi? Forse no, semplicemente un solido e piacevole album che ripercorre il classico sound californiano della band originale: quando la McVie è ritornata all’ovile dei FM nell’aprile del 2014, lei e Buckingham erano subito tornati in studio per vedere se la chimica funzionava ancora, e si erano trovati talmente bene che avevano deciso di registrare un album a nome della band, visto che anche McVie e Fleetwood erano della partita, ma poi ci sono stati dei problemi (strano, non lo avrei mai detto!) con la Nicks e quindi è diventato un progetto della coppia Buckingham/McVie, un disco di duetti.

Ovviamente parte del materiale, sotto altre forme, essendo Buckingham quello che è, ovvero un certosino creatore di confezioni pop-rock, in parte si era già sentito: per esempio il brano di apertura Sleeping Around The Corner, era già stato pubblicato, come bonus track, nell’edizione digitale del disco solo di Lindsey Seeds We Sow, e sicuramente altri frammenti e idee sedimentavano nella “diabolica” e fervida mente di Buckingham. Quindi partiamo proprio da questa canzone, tipica del musicista californiano (l’unico “autoctono” del gruppo): classico giro di chitarra del nostro, coretto gioioso, su un groove ritmico al solito complesso ma che si memorizza con facilità, particolari suoni, anche elettronici, ma mai “sgarbati”, aggiunti all’insieme, la voce che ora sussurra, ora ammicca, mentre la McVie per il momento lavora più di conserva, business as usual per il nostro amico. Feel About You, scritta in coppia, ha piccoli tocchi di marimba che aggiungono un sapore caraibico, un insistito giro di basso di John McVie e la deliziosa voce della di lui ex moglie, Christine, che intona un’altra delle tipiche melodie di Buckingham, che gorgheggia pure sullo sfondo, sempre nell’ambito pop raffinato siamo; In My World combina il rock di Tusk, con una ritmica più incalzante di Fleetwood, nel classico tempo à la Fleetwood Mac, unito ad una di quelle solari e sognanti frasi melodiche che sono tipiche del DNA del buon Lindsey, le potrebbe scrivere anche dormendo, ma si apprezzano sempre, anche se sentite mille volte.

La successiva Red Sun, una di quelle firmate in coppia, presenta l’ideale alternativa alle delizie del passato quando a fianco di Buckingham c’era la voce di Stevie Nicks, ma il risultato è quello, forse il miglior pop californiano dopo quello dei Beach Boys, con armonie deliziose e un assolo di chitarra di grande finezza; Love Is Here To Stay con i classici arpeggi della chitarra acustica, la voce sussurrata e poi il classico leggero crescendo armonico del suo pop barocco è ancora puro Buckingham non adulterato, quello che di solito si trova nei suoi dischi solisti. Too Far Gone, di nuovo attribuita alla coppia, ha un ritmo funky-rock con un synth ricorrente, rullate aggressive e tribali della batteria di Fleetwood, ma non entusiasma più di tanto, sembra un pezzo minore degli Eurythmics, anche se l’assolo di chitarra è asprigno il giusto. Lay Down For Free potrebbe essere un outtake di Rumours, il classico pop-rock dei Fleetwood Mac, con le voci dei due sovrapposte e unite per una canzone che al solito piace, ma senza entusiasmare; potrebbe essere meglio Game Of Pretend, una delle tipiche ballate pianistiche della McVie, ma sembra un po’ irrisolta e poi si perde in un ritornello tutto caramelloso e zuccherino ripetuto, che potrebbe provocare il diabete all’ascoltatore. On With Show di nuovo scritta dal solo Buckingham è un altro piacevole brano pop-rock cantato in coppia, con la prevalenza della voce di Lindsey nell’insieme. Insomma, in definitiva un buon album, come conferma l’ultima traccia scritta in solitaria dalla McVie, una sinuosa e sognante Carnival Begin (il migliore dei suoi contributi), graziata da un stridente solo della solista di Buckingham nel finale, ma se mi passate un penoso gioco di parole con il cognome di Christine da nubile, siamo lontani dall’essere “perfect”! A parte nella foto di copertina, dove sembrano dire “passavamo di qui per caso”!

Bruno Conti

Giovane, Ma Tosto Pure Questo. Tom Killner – Live

tom killner live

Tom Killner – Live – Cleopatra Records

Ultimamente i migliori nuovi chitarristi blues (e rock) vengono prodotti dalla scena musicale americana, anche per le dimensioni del bacino da cui pescare, ma ogni tanto pure dall’Inghilterra arriva qualche nome degno di nota: penso a Aynsley Lister, Oli Brown, Laurence Jones, tra le donne a Joanne Shaw Taylor, e tra quelli più affermati a Matt Schofield o Danny Bryant, tanto per ricordarne alcuni. Forse proprio a quest’ultimo si può avvicinare il giovane Tom Killner: ventuno anni, già con un album di studio pubblicato nel 2015, Killner è uno di quelli dal sound “tosto” e tirato, di scuola rock-blues, un repertorio che pesca nei classici (ma nel disco di studio c’erano anche sue composizioni), e infatti questo disco dal vivo, registrato alla Old School House di Barnsley, è composto solo di cover. Quando ho letto il nome dell’etichetta (la mitica Cleopatra!) ho temuto il peggio, ma questa volta devo dire tutto bene. Killner si presenta sul palco con il suo gruppo, un quintetto che prevede un secondo chitarrista e un tastierista: il suono è in effetti, almeno nei primi brani, piuttosto tirato anziché no. Si capisce che il giovane ha messo a frutto gli ascolti della collezione di dischi del babbo, dai Cream a Hendrix, ma anche i vecchi Fleetwood Mac e il southern rock, e per il modo di cantare e suonare, ruvido e grintoso, anche uno come Rory Gallagher (un po’ più “cicciotto”) viene citato dallo stile esuberante di Tom.

Questo almeno è il punto di partenza, ma poi gli ascolti e le influenze si sono ampliate per confluire in questo disco dal vivo: prendiamo la traccia di apertura, Like It This Way, un brano dei primi Fleetwood Mac, firmato da Danny Kirwan, e mai inciso dal gruppo di Peter Green, solo eseguito in concerto e poi uscito in un disco postumo, l’approccio di Killner e soci è quello ruspante e ispido che ci si potrebbe aspettare. Ritmica dura e cattiva, doppia chitarra solista (come i vecchi Fleetwood), voce sopra le righe, ma corposa per un 21enne, e via pedalare, l’organo lavora sullo sfondo e Killner comincia ad esplorare la sua solista con voluttà ; King Bee più che a Muddy Waters (debitamente citato) rimanda proprio al giovane Rory Gallagher, chitarra arrotata, un pianino saltellante e tanta grinta, manco fossero i giovani Taste. Ain’t No Rest For The Wicked non è qualche oscura perla del British Blues, ma un brano dei Cage The Elephant (già presente nel disco di studio), a dimostrazione che il buon Tom ascolta anche materiale contemporaneo, una bella hard ballad con umori southern di buona fattura, mentre Have You Ever Loved A Woman è il suo omaggio al grande blues, un lento legato quasi inestricabilmente a Eric Clapton, ma di cui Killner ci regala una versione calda e raffinata, con uno splendido lavoro in crescendo della sua chitarra che inanella assolo dopo assolo, ben coadiuvato dal secondo chitarrista Jack Allen e dal tastierista Wesley Brook.

Higher Ground di Stevie Wonder non è una scelta che ti aspetteresti, ma l’approccio funky ed hendrixiano, è brillante e riuscito. L’altro brano estratto dal disco di studio è una ripresa di Cocaine Blues, lenta ed atmosferica con un pregevole uso su toni e volumi. Poi tocca ad una esuberante ma rispettosa Crosstown Traffic di Mister Jimi Hendrix, suonata veramente bene. Segue un inatteso doppio omaggio al sound sudista e agli Allman Brothers, prima con una lirica ed intensa Soulshine di Warren Haynes, poi con una veemente e “riffata” Whipping Post, dove si apprezza l’ottimo lavoro di tutta la band, e anche se Killner non può competere con la voce di Gregg Allman, la parte strumentale è eccellente, come pure nella successiva The Weight, con il classico della Band ripreso con rispetto e il giusto approccio per questo capolavoro. Ancora Hendrix con una vorticosa e fumante Foxy Lady, che conferma le buone impressioni sollevate da questo giovane Tom Killner. La stoffa c’’è, come conferma anche la conclusione con una robusta versione di With A Little Help From My Friends di Joe Cocker (di cui sto guardando proprio in questi giorni il documentario relativo alla sua vita Mad With Soul, del quale a tempo debito vi riferirò sul sito) che se non raggiunge le vette di quella che fanno dal vivo i SIMO, ci si avvicina di parecchio. 70 minuti complessivi di rock e blues da gustare tutto d’un fiato, questa volta la Cleopatra non ha “ciccato”!

Bruno Conti

Il Disco “Conclusivo” Del Gruppo Pop Californiano Per Antonomasia! Fleetwood Mac – Tango In The Night

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Fleetwood Mac – Tango In The Night – Warner CD – Deluxe 2CD – Super Deluxe 3CD/DVD/LP

Il titolo del post è in realtà provocatorio, in quanto non stiamo parlando dell’ultimo disco in assoluto dei Fleetwood Mac, ma dell’episodio conclusivo della formazione più celebrata e per certi versi migliore del gruppo (anche se ci sarebbe il primo periodo “inglese” con Peter Green, ma era in partica un’altra band), cioè quella formata dai britannici Mick Fleetwood, John McVie e Christine Perfect McVie e dagli americani Lindsay Buckingham e Stevie Nicks (dal loro reunion album Say You Will del 2003 mancava infatti la McVie). A meno di un anno di distanza dalla riedizione di Mirage http://discoclub.myblog.it/2016/10/04/piacevole-riscoperta-fleetwood-mac-mirage/ , la Warner pubblica in versione cofanetto (ma anche in doppio e singolo CD) quello che è stato il loro album più di successo dopo l’irraggiungibile Rumours, cioè Tango In The Night del 1987, anche se manca sempre, ed è incomprensibile, l’omonimo Fleetwood Mac del 1975. Tango In The Night è sempre stato un album molto discusso: da un lato molto amato dai fans e di grande successo (quindici milioni di copie vendute nel mondo), dall’altro è sempre stato, forse anche giustamente, criticato per il suo suono eccessivamente radiofonico e per il massiccio utilizzo di sintetizzatori che gli conferirono un suono decisamente anni ottanta. La cosa era stata però studiata a tavolino, in quanto il precedente Mirage era stato un parziale insuccesso, e le carriere soliste di Buckingham e Nicks non erano esattamente al top (Stevie era in forte ribasso dopo lo splendido esordio di Bella Donna http://discoclub.myblog.it/2016/12/08/ritorna-degli-album-classici-anni-80-versione-deluxe-stevie-nicks-bella-donna/ , mentre Lindsay non era mai decollato, ed i suoi Law And Order e Go Insane avevano venduto pochissimo).

Non c’era nemmeno nell’aria una particolare voglia dei Mac di fare un nuovo disco, ma un po’ per il bisogno di rilanciarsi un po’ per le pressioni della casa discografica, i cinque misero da parte i rispettivi problemi e si ritrovarono per cercare di tirare fuori qualcosa, pare utilizzando in gran parte canzoni che Lindsay aveva scritto pensando al suo prossimo solo album. L’atmosfera era però piuttosto tesa, e non aiutò il fatto che molte parti del disco vennero incise a casa di Buckingham (che produsse il lavoro insieme a Richard Dashut), con la sua fidanzata dell’epoca che girava per le stanze e la Nicks che si rifiutava di incidere le sue parti nella camera da letto dei due, comprensibilmente imbarazzata dal fatto che nel letto con Lindsay una volta ci stava lei. Il contributo di Stevie fu quindi molto limitato (solo due settimane complessive), ma nonostante tutto i cinque riuscirono a dare alle stampe un lavoro abbastanza unitario e che deliziò la Warner per la sua eccezionale commercialità, anche se scontentò un po’ i vecchi fans (ma ne fece acquisire di nuovi). Risentito oggi il disco non è neanche male: certo il suono in certi momenti suona un po’ datato, altre volte i synth esagerano, e ci sono almeno un paio di riempitivi, ma non mancano i momenti interessanti ed anche due-tre zampate di gran classe, pur non essendo certo in presenza del loro album migliore (ma la nuova rimasterizzazione ha fatto miracoli, ed il suono, già quasi perfetto allora, ha oggi una pulizia incredibile).

Il disco (che ha sempre avuto una copertina davvero magnifica) è caratterizzato da quattro singoli di grande successo, a partire da Big Love, incalzante rock song di Buckingham (nella quale in verità Lindsay si auto-ricicla un pochino), passando per due pezzi della McVie (Everywhere e Little Lies), che si dimostra l’anima pop più leggera del gruppo, due brani orecchiabili ma di limitato spessore ed eccessivamente commerciali, per finire con il migliore tra di essi, cioè Seven Wonders della Nicks, uno dei suoi brani migliori del periodo, una ballata pop-rock cantata con la solita voce carismatica e dal ritornello di grande immediatezza, alla quale mi sento di perdonare i sintetizzatori. Per il resto, Buckingham si carica come al solito sulle spalle gran parte del lavoro, a partire da Caroline, un pop-rock caratterizzato da ritmiche quasi tribali ed un arrangiamento perfetto, decisamente piacevole, per seguire con l’affascinante title track, canzone tipica del nostro (sullo stile di classici come I’m So Afraid), con soluzioni melodiche dirette ma non banali, raffinate parti di chitarra, refrain potente e grande assolo finale, probabilmente il pezzo migliore del disco; il contributo di Lindsay si completa con la solare e danzereccia Family Man, quinto singolo estratto, e la mossa You And I, Part II, forse più adatta ad un cocktail party che ad un album rock. Anche Christine è molto attiva: oltre ai due singoli citati poc’anzi abbiamo la tenue e piacevole Mystified, che a parte l’arrangiamento troppo “rotondo” è una bella canzone, e la roccata ed elettrica (e per lei atipica) Isn’t It Midnight, buona anche se forse la più “ottantiana” in assoluto nei suoni.

La Nicks come già detto è ai minimi storici, ma quel poco che presenta è valido: oltre a Seven Wonders troviamo la fluida e pimpante Welcome To The Room…Sara e la toccante ballata When I See You Again, cantata come al solito benissimo dalla bionda rockeuse. Interessante come al solito il secondo CD, che offre b-sides, versioni alternate e qualche inedito: i quattro lati B sono l’orecchiabile Down Endless Street, vivace pop song di Lindsay che poteva anche aspirare a finire sull’album (anche se soffre degli stessi difetti sonori), lo strumentale Book Of Miracles, il classico riempitivo, la bizzarra ma non disprezzabile Ricky, quasi un divertissement, e la prima parte di You And I, qui per la prima volta unita alla seconda. Le alternate takes sono cinque, tra cui una Seven Wonders già bella e meno strumentata di quella pubblicata, e Tango In The Night che sembra quasi un’altra canzone ma mantiene intatto il suo fascino (e l’assolo formidabile non manca neanche qua); quattro sono gli inediti, e mentre Special Kind Of Love e Where We Belong sono canzoni di poco conto, Juliet è un rock’n’roll improvvisato con Stevie alla voce che avrebbe meritato di più  https://www.youtube.com/watch?v=2HWJwWJ7UDA (ed infatti finirà sul disco solista della Nicks del 1989, The Other Side Of The Mirror, probabilmente il suo migliore dopo Bella Donna), e la discreta Ooh My Love, cantata ancora da Stevie. Il terzo CD, che contiene una marea di remix di brani dell’album, ve lo risparmio, mentre il DVD si limita ai cinque videoclip dei singoli ed alla versione audio 24/96 del disco. Non c’è nulla dal successivo tour in quanto subito dopo l’uscita dell’album Lindsay lascia il gruppo, e viene sostituito da ben due chitarristi, Rick Vito e Billy Burnette, due onesti mestieranti che non valgono un’unghia di Buckingham (ed infatti l’unico album di questa lineup, Behind The Mask del 1990, non lascerà traccia): motivo in più per riscoprire Tango In The Night che, pur con tutti i suoi difetti, testimonia la fine di un’epoca irripetibile da parte di uno dei gruppi più amati di sempre.

Marco Verdi

Un Cofanetto Che Si Può Tranquillamente Evitare, Esce Il 31 Marzo! Fleetwood Mac – Tango In The Night Super DeLuxe

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Il prossimo 10 marzo uscirà l’ennesima ristampa Deluxe di un album dei Fleetwood Mac: dopo Rumours, Tusk e Mirage tocca a Tango In The Night, che però, al di là dell’enorme successo commerciale che ebbe quando fu pubblicato nel 1987, vendendo oltre 15 milioni di copie nel mondo, a mio parere, non merita questa ristampa potenziata e Deluxe. Forse sarebbe stato meglio indirizzarsi sul primo, omonimo album del 1975 (di quelli con la formazione Buckingham-Nicks ovviamente), ma così è stato deciso e quindi vediamo cosa conterrà la ristampa. Intanto, per completare l’informazione, l’album, a differenza del suo predecessore Mirage, non andò al primo posto delle classifiche USA, fermandosi solo al settimo posto, fu un album tipicamente dal suono anni ’80, molto ridondante, con arrangiamenti “esagerati”, uso di molte tastiere e percussioni sintetiche, e fu funestato dall’uscita di molti singoli che contenevano remix dance, dub e quant’altro, decisamente inascoltabili, almeno per me. Purtroppo tutti recuperati nel terzo CD della edizione Deluxe.

E quindi vediamo cosa contiene il cofanetto. Il primo CD è l’album originale, 12 brani in tutto, qualcuno anche discreto, ma globalmente non un disco memorabile, per usare un eufemismo. Ci sono anche tre canzoni firmate insieme, per la prima volta, da Lindsey Buckingham e Christine McVie (e proprio in questi giorni è stato annunciato che probabilmente a maggio uscirà un nuovo disco della strana coppia), e solo tre di Stevie Nicks. Il secondo CD, il più interessante, contiene B-sides, alternate takes, demos, versioni strumentali e anche dei brani inediti, quasi tutto materiale mai pubblicato prima. E i primi due album escono anche come doppio CD, forse il formato ideale, se volete (ri)comprarvi Tango In The Night. Il terzo CD, quello orrido, riporta una sfilza di materiale ottimo per le piste da ballo, meno per i nostri impianti. Poi c’è un DVD, solo con 5 video dell’epoca relativi ai brani del disco, il resto dello spazio è occupato dalla versione ad Alta Risoluzione dell’album originale. E il quinto disco è proprio il vinile originale. Non si poteva mettere un bel concerto in sostituzione, magari questo?

Disc: 1
1. Big Love (Remastered)
2. Seven Wonders (Remastered)
3. Everywhere (Remastered)
4. Caroline (Remastered)
5. Tango in the Night (Remastered)
6. Mystified (Remastered)
7. Little Lies (Remastered)
8. Family Man (Remastered)
9. Welcome To The Room… Sara (Remastered)
10. Isn’t It Midnight (Remastered)
11. When I See You Again (Remastered)
12. You And I, Pt. II (Remastered)

Disc Two: B-Sides, Outtakes, Sessions
1.    “Down Endless Street”
2.    “Special Kind Of Love” (Demo)*
3.    “Seven Wonders” (Early Version)*
4.    “Tango In The Night” (Demo)*
5.    “Mystified” (Alternate Version)*
6.    “Book Of Miracles” (Instrumental)
7.    “Where We Belong” (Demo)*
8.    “Ricky”
9.    “Juliet” (Run-Through)*
10.  “Isn’t It Midnight” (Alternate Mix)*
11.  “Ooh My Love” (Demo)*
12.  “Mystified” (Instrumental Demo)*
13.  “You And I, Part I & II” (Full Version)*

Disc Three: The 12″ Mixes (super deluxe only)
1. “Big Love” (Extended Remix)
2. “Big Love” (House On The Hill Dub)
3. “Big Love” (Piano Dub)
4. “Big Love” (Remix/Edit)
5. “Seven Wonders” (Extended Version)
6. “Seven Wonders” (Dub)
7. “Little Lies” (Extended Version)
8. “Little Lies” (Dub)
9. “Family Man” (Extended Vocal Remix)
10. “Family Man” (I’m A Jazz Man Dub)
11. “Family Man” (Extended Guitar Version)
12. “Family Party” (Bonus Beats)
13. “Everywhere” (12″ Version)
14. “Everywhere” (Dub)

Disc Four: The Videos (DVD) *super deluxe only
1. “Big Love”
2. “Seven Wonders”
3. “Little Lies”
4. “Family Man”
5. “Everywhere”
Plus a High-Resolution Stereo Mix of the Original Album

Tango In The Night (Vinyl)

Side One
1. “Big Love”
2. “Seven Wonders”
3. “Everywhere”
4. “Caroline”
5. “Tango In The Night”
6. “Mystified”

Side Two
1. “Little Lies”
2. “Family Man”
3. “Welcome To The Room… Sara”
4. “Isn’t It Midnight”
5. “When I See You Again”
6. “You And I, Part II”

Da quello che ho visto, stranamente, il box non avrà un prezzo proibitivo, indicativamente tra i 60 e i 70 euro, quindi se volete farvi del male non vi costerà neppure moltissimo. Quindi, ripeto, data prevista di uscita il 10 marzo, etichetta Warner/Rhino.

Alla prossima.

Bruno Conti