Una Piccola Grande Band (E Qualche Amico) Conferma Il Proprio Valore Con Un Album Eccellente! Session Americana – North East

session americana north east

Session Americana – North East – Appaloosa/Ird

I Session Americana sono una sorta di fluttuante collettivo folk-rock, nato a Cambridge, Massachusetts nel 2004, per suonare in serate informali nei pub e nei locali della città: il fondatore Sean Staples, che poi per problemi di salute ha lasciato la band nel 2010, Ry Cavanaugh, che suona di tutto e di più, ma principalmente chitarre acustiche, banjo, basso, mandolino e tastiere, Jimmy Fitting, armonica, fondatore dei Fort Apache Studios ed ex membro dei Treat Her Right, Dinty Child, altro polistrumentista impegnato a fisarmonica, piano, mandocello, banjo e mandolino, Billy Beard alla batteria, Kimon Kirk al basso, ma di recente, per questo album, è rientrato in formazione Jon Blistine, mentre Jefferson Hamer, che aveva prodotto il precedente Great Shakes  , questa volta non è della partita. Ma con la formazione collaborano moltissimi altri musicisti: mi è capitato di vederli dal vivo a Pavia nel 2015 nel tour per questo album https://discoclub.myblog.it/2015/05/08/sorta-moderna-nitty-gritty-dirt-band-musica-solare-deliziosa-session-americana-pack-up-the-circus/ e c’era con loro Laura Cortese al violino e voce, per questo disco come voci femminili troviamo la bravissima Kris Delmhorst che ha co-prodotto l’album con Cavanaugh), la moglie di quest’ultimo Jennifer Kimball, ex delle Story, Rose Polenzani, Ali McGuirk, altra eccellente vocalist, Merrie Amsterburg, cantautrice che opera nell’area di Boston, dove vive la band.

E se non bastasse c’è anche una consistente pattuglia di maschietti, Zak Trojano, anche alle chitarre, con Duke Levine e Peter Linton, Dietrich Strause, tutti che si alternano come voci soliste nelle 14 canzoni  del CD, con il solo Cavanaugh che ne canta due. Questo è il settimo album ufficiale della band , ma ci sono anche alcuni live e antologie ufficiose limitate, si tratta, come lascia intuire il titolo, di brani che provengono dal repertorio di artisti originari del Nord Est degli Stati Uniti, da quelli celeberrimi ad altri meno noti: intanto lasciatemi dire subito che il disco è bellissimo, estremamente vario, pensate ad un incrocio tra roots music e folk, il lato meno country della Nitty Gritty, elementi blues e rock, insomma in una parola, e ci mancherebbe, visto il nome della band, Americana music, il tutto suonato con una leggiadria ed una perizia musicale, e soprattutto vocale, quasi disarmante, se l’aggettivo non fosse inflazionato direi delizioso. Il primo brano è di James Taylor, che tutti associano alla California, ma viene da Boston, Riding On A  Railroad, una canzone dal capolavoro Mud Slide Slim, cantata da Cavanaugh con la Delmhorst, con Levine al dobro e Jim Anick al violino, che ci fa capire subito la qualità della musica, fedele all’originale ma al contempo calda ed avvolgente grazie agli arrangiamenti  raffinati, con la voce di Ry che ricorda moltissimo Taylor. La bellissima You’ll Never Get To Heaven è del compianto Bill Morrissey, folksinger del Connecticut che però anche lui operava nell’area del Massachusetts, un brano malinconico che racconta della disperazione dello spopolamento delle piccole città, cantata con grande partecipazione da Trojano, sempre con le armonie della Delmhorst.

Il nome Charles Thompson forse ai più non dice molto, ma se vi dico Black Francis dei Pixies? I Session Americana reinterpretano, con vigore e rigore folk ,una corale Here Comes Your Man, cantata da Fitting, con Delmhorst, Child e Kimball, e uno sfarfallio in crescendo di banjo, mandolino e chitarre. Meno noto prodotto della zona è Amy Correia, ma la sua You Go Your Way è il veicolo perfetto per la bella voce bluesy di Rose Polenzani, così come la malinconica e notturna (manco a dirlo) The Night di Mark Sandman dei Morphine, ben si attaglia a quella intensa di Ali McGuirk, brano soffuso suonato in punta di dita, con Fitting splendido all’armonica e che sembra quasi una canzone, bella, di Norah Jones. Trip Around The Sun è un brano di Al Anderson degli NRBQ, Stephen Bruton e Sharon Vaughn, scritto per Jimmy Buffett e Martina McBride, una bellissima ballata country cantata da Merrie Amsterburg, Dim All The Lights è l’unica canzone scritta in solitaria da Donna Summer (!), anche lei nativa di Boston, cantata da John Powhida, concittadino della Summer, molto bella pure questa, con doppio mandolino e armonica in evidenza, Roadrunner è proprio il celebre brano di Jonthan Richman, che per l’occasione diventa un rustico country-bluegrass con banjo, mandola e banjo, sempre vivace e coinvolgente, cantata da Dinty Child.

Anche Patty Griffin, da Old Town, Maine, contribuisce con un pezzo, la delicata Goodbye, temi la nostalgia e il desiderio, cantata divinamente da Jennifer Kimball, mentre l’ignoto a me Chris Pappas vede la propria Driving cantata da Jon Blistine, altra canzone malinconica che si apre in una melodia da grandi orizzonti, suonata splendidamente dalla band. Merrimack County è una delle canzoni più belle di Tom Rush, un pezzo quasi dylaniano che il batterista Billy Beard inquadra perfettamente, e poi tocca alla bravissima Kris Delmhorst alle prese con Air Running Backwards, oscura, ma molto bella, canzone di tale Chandler Travis, che è l’occasione per gustarsi una delle più belle voci del cantautorato femminile americano. Una concessione alle canzoni celebri arriva con la versione di Coming Around Again di Carly Simon, che cantata da Cavanaugh diventa di nuovo quasi un brano alla James Taylor, con mandola, chitarre, violino, armonica e tastiere in bella evidenza, oltre alle proverbiali armonie vocali dei Session Americana, che ci congedano da questo incantevole album con una ultima piccola delizia, la piacevole I’m A Fool, un brano “pop” dei Letters To Cleo cantato da Dietrich Strause, con Jeffrey Foucault al dobro. Tutto molto bello e consigliato vivamente.

Bruno Conti

E Con Questo Bellissimo Live Siamo Davvero Giunti (Forse) Al Gran Finale! Runrig – The Last Dance: Farewell Concert

runrig the last dance

Runrig – The Last Dance: Farewell Concert – RCA/Sony 3CD – DVD – BluRay – Deluxe 3CD/2DVD Box Set

Il Lungo Addio è il titolo di uno dei più famosi romanzi noir di Raymond Chandler, con protagonista il detective Philip Marlowe, ma è un titolo che si potrebbe applicare anche in un ideale riassunto degli ultimi anni di carriera dei Runrig, famosissimo (in patria, ma anche in Germania e Danimarca) gruppo folk-rock scozzese che nel 2016 con la pubblicazione dello splendido The Story aveva annunciato il suo addio alle scene. Da allora ci sono state due collezioni di rarità, Best Of Rarities per il mercato tedesco (versione doppia di un cofanetto di sei CD e tre DVD ormai introvabile) ed il bellissimo The Ones That Got Away, che sembrava un disco nuovo fatto e finito https://discoclub.myblog.it/2018/07/10/antologie-che-sembrano-dischi-nuovi-parte-1-runrig-the-ones-that-got-away/ , oltre ad un lungo tour dal quale ora viene tratto questo The Last Dance: The Farewell Concert, che dovrebbe mettere la parola fine all’avventura durata quarant’anni del gruppo originario delle Ebridi.

The Last Dance è un live album magnifico, che in tre CD registrati al castello di Stirling (c’è anche la versione video ed il solito cofanetto che comprende tutto) ci fa assaporare il meglio della carriera di un gruppo che in Scozia è una vera e propria leggenda, una band che ha saputo raggiungere il successo mescolando in maniera decisamente creativa la musica folk tradizionale con sonorità rock ed anche pop, riuscendo a far digerire anche brani cantati in gaelico (ma la maggior parte del loro repertorio è in inglese) ad un pubblico vastissimo. Dal vivo poi sono sempre stati formidabili, come testimoniano i live pubblicati in passato (ed almeno Year Of The Flood e Party On The Moor sarebbero da avere), e The Last Dance è la giusta ciliegina, un concerto davvero bellissimo in cui il sestetto (Bruce Guthro, voce solista e chitarra, Malcolm Jones, chitarra solista e fisarmonica, Brian Hurren, tastiere, Rory MacDonald, basso, Calum MacDonald, percussioni, Iain Bayne, batteria) ci regala quasi tre ore di musica epica ed avvincente, con melodie perfette per il singalong e ritornelli costruiti per il canto collettivo “da stadio” nei brani più mossi, ma con la capacità di essere profondi e toccanti nelle ballate. Dulcis in fundo, la serata vede salire sul palco anche Donnie Munro, storico primo cantante del gruppo che lasciò i compagni nel 1997 per intraprendere la carriera politica, ma è ancora molto amato dai fans.

I Runrig sanno, o dovrei dire sapevano, coniugare rock e folk in maniera mirabile, con canzoni potenti e trascinanti perfette da suonare di fronte ad una marea di persone, come Protect And Survive, Rocket To The Moon, la suggestiva Proterra, la folkeggiante The Ship, la nota The Stamping Ground. E poi ancora Maymorning, Clash Of The Ash, Skye (formidabile) o l’entusiasmante Pride Of The Summer. Ma la band è famosa anche per le sue ballate ad ampio respiro, come l’ariosa Canada, la toccante Year Of The Flood, per sola voce, chitarra ed armonica, Going Home, struggente e bellissima e l’appassionata Every River, con tutto il pubblico che canta per uno dei momenti più commoventi dello show. The Story è rappresentato da ben cinque pezzi (ed è giusto in quanto è uno degli album migliori di Guthro e soci): la maestosa title track, la squisita Somewhere, tra le ballate più belle del gruppo, la splendida ed evocativa Onar, con il bellissimo refrain in lingua celtica, l’irresistibile giga rock The Place Where The Rivers Run e l’emozionante The Years We Shared, una rock song elettrica e coinvolgente, perfetta per aprire la serata. Finale con la strepitosa Loch Lomond, un vero e proprio inno che dal vivo dà il suo meglio, e con una Hearts Of Olden Glory cantata a cappella da tutta la band, altro momento emotivamente notevole.

Staremo a vedere se The Last Dance sarà davvero il capitolo finale della storia dei Runrig, o se sarà la solita promessa da marinaio delle rockstar: sinceramente preferirei la seconda ipotesi, dato che stiamo comunque parlando di una grande band.

Marco Verdi

Ecco Un Altro Che Migliora Disco Dopo Disco! Drew Holcomb & The Neighbors – Dragons

drew holcomb neighbors

Drew Holcomb & The Neighbors – Dragons – Magnolia/Thirty Tigers CD

A poco più di due anni dall’ottimo Souvenir https://discoclub.myblog.it/2017/03/30/saluti-da-nashville-il-meglio-nel-genere-americana-drew-holcomb-the-neighbors-souvenir/ , si rifà vivo con un lavoro nuovo di zecca Drew Holcomb, musicista originario di Memphis ma trapiantato a Nashville da diversi anni. Prolifico come pochi (Dragons è il suo tredicesimo album dal 2005 ad oggi, includendo però anche i live ed un paio di CD natalizi), Holcomb è un cantautore classico che fonde in maniera mirabile rock, country e Americana, ed è dotato di una facilità di scrittura che lo porta a costruire dischi pieni di canzoni belle e dirette, di quelle che piacciono al primo ascolto e che in maniera ciclica viene voglia di rimettere nel lettore (scusate se faccio riferimento a queste arcaiche azioni di fruizione della musica, è già tanto che non abbia detto “viene voglia di rimettere sul piatto del giradischi”).

Dragons vede il barbuto songwriter all’opera in dieci nuovi brani per una durata complessiva di 34 minuti, accompagnato come sempre dai fedeli Neighbors (Nathan Dugger, chitarre, piano, steel, tastiere ed quant’altro, Rich Brinsfield, basso, e Will Sayles, batteria, mentre Cason Cooley produce il disco e funge da membro aggiunto suonando il piano ed altre cosucce) e con l’aggiunta di qualche ospite perlopiù femminile che vedremo illustrando le canzoni. E l’album è davvero bellissimo, piacevole e ben fatto, un lavoro che conferma il talento compositivo di Drew e si pone sin dal primo ascolto come il suo lavoro più riuscito (almeno secondo il mio parere), a partire dall’iniziale Family, un pezzo allegro, gioioso e profondamente coinvolgente, uno sorta di folk-rock elettrificato e corale dal train sonoro irresistibile. End Of The World è una rock ballad ad ampio respiro, arrangiata in modo arioso e potente, cantata benissimo e caratterizzata da un motivo fluido e diretto, ancora influenzato dal folk (lo stile è simile a quello dei Lumineers, ma a livello compositivo siamo su un altro pianeta); But I’ll Never Forget The Way You Make Me Feel è il primo di cinque brani consecutivi con ospiti, nella fattispecie la moglie di Drew, Ellie Holcomb, per una deliziosa canzone dal tempo cadenzato e con un luccicante pianoforte alle spalle, il tutto suonato e cantato con estrema finezza: splendida.

La title track è un sontuoso slow di chiara matrice country, una melodia bellissima (ricorda un po’ Paradise di John Prine) ed un arrangiamento semplice basato su chitarra, piano e sulla partecipazione vocale dei Lone Bellow al completo (ed il pezzo è scritto insieme al leader del trio di Brooklyn Zach Williams): una delle più belle canzoni da me sentite ultimamente, e non esagero. See The World vede il ritorno di Ellie per un altro brano dallo sviluppo disteso e rilassato, con un songwriting classico che si rifà direttamente agli anni settanta ed un bell’assolo chitarristico, mentre You Want What You Can’t Have, in cui la partecipazione vocale è di Lori McKenna, è l’ennesima canzone splendida, una ballatona country-rock vibrante e dal ritmo acceso. In Maybe Drew viene raggiunto dalla brava Natalie Hemby (che con Brandi Carlile, Amanda Shires e Maren Morris ha appena pubblicato l’album d’esordio delle Highwomen, altro gran disco tra l’altro), la quale è anche co-autrice del brano, una rock song lenta ma dall’emozionante crescendo elettrico, mentre Make It Look So Easy ripresenta di nuovo Holcomb in compagnia esclusiva dei suoi “Vicini Di Casa”, per un pezzo dal ritmo sostenuto e contraddistinto dalla solita melodia vincente, puro rock chitarristico con ottimo assolo di Dugger.

Il CD termina con You Never Leave My Heart, toccante ballata pianistica dal pathos notevole, e con Bittersweet, unico pezzo del disco con sonorità moderne e leggermente “sintetizzate”, che però non va ad inficiare la qualità complessiva di un album che potremmo anche ritrovare nelle classifiche di fine anno.

Marco Verdi

Novità Prossime Venture 21. Jethro Tull – Stormwatch: Anche Dell’Ultimo Album Degli Anni ’70 Il 18 Ottobre Viene Pubblicato Il Box Per il 40° Anniversario

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Jethro Tull – Stormwatch – 4 CD/2 DVD Audio – Chrysalis/Rhino/Warner – 18-10-2019

Riprendono le pubblicazioni degli album dei Jethro Tull rimasterizzati da Steven Wilson per il 40° Anniversario dalla loro uscita. Questa volta tocca a Stormwatch, l’ultimo disco degli anni ’70 per la band di Ian Anderson, anche l’ultimo tra i dischi “belli” della band britannica, nonché il terzo della trilogia folk-rock iniziata con Songs From The Wood, proseguita con Heavy Horses, e conclusa con il presente album: che è anche l’album finale a presentare la formazione classica anni ’70, con a fianco di Ian Anderson, Martin Lancelot Barre, John Glascock (che poi sarebbe scomparso nel novembre del 1979, sostituito da Dave Pegg al basso, già presente in un brano), John Evan, David (ora Dee, visto che prima nel 1998 e poi definitivamente nel 2004 ha deciso di cambiare sesso, succede anche questo nelle rock bands) Palmer e Barriemore Barlow.

Alla nuova versione è stato assegnato il nome di Stormwatch 40th Anniversary Force 10 Edition e nel primo CD presenta l’album originale nella versione remixata nel 2019 da Steven Wilson, nel secondo dischetto definito “Associated Recordings” ci sono altri 15 brani registrati all’epoca di cui quattro erano già apparsi nella versione in CD del 2004 e nel cofanetto 20 Years Of Jethro Tull, mentre gli altri sono inediti. Il terzo e quarto CD contengono il concerto completo inedito Live In The Netherlands, registrato il 16 marzo del 1980 al Concertgebouw di Amsterdam, mentre gli ultimi due sono DVD Audio, che interessano principalmente gli audiofili con le versioni  5.1 DTS and AC3 Dolby Digital e 96/24 LPCM stereo dei primi due dischi (ma non della parte live) e che ovviamente come al solito faranno lievitare il prezzo del cofanetto che, molto indicativamente dovrebbe avere un prezzo compreso tra il 40 e i 50 euro a seconda dei paesi di uscita.

Ecco la lista completa e dettagliata dei contenuti.

Disc One: Steven Wilson Remix of Original Album

“North Sea Oil”
“Orion”
“Home”
“Dark Ages”
“Warm Sporran”
“Something’s On The Move”
“Old Ghosts”
“Dun Ringill”
“Flying Dutchman”
“Elegy”

Disc Two: Associated Recordings

“Crossword”
“Dark Ages” (early version) [Previously Unreleased]
“Kelpie”
“Dun Ringill” (early version) [Previously Unreleased On CD]
“A Stitch In Time”
“A Single Man” [Previously Unreleased]
“Broadford Bazaar”
“King Henry’s Madrigal”
“Orion” (full version) [Previously Unreleased]
“Urban Apocalypse” [Previously Unreleased]
“The Lyricon Blues”
“Man Of God” [Previously Unreleased]
Rock Instrumental (unfinished master) [Previously Unreleased]
“Prelude To A Storm” [Previously Unreleased]
“Sweet Dream” (live)

Disc Three: Live in the Netherlands (March 16. 1980) [Previously Unreleased]

Intro
“Dark Ages”
“Home”
“Orion”
“Dun Ringill”
“Elegy”
“Old Ghosts”
“Something’s On The Move”
“Aqualung”
“Peggy’s Pub”
“Jack-In-The-Green”
“King Henry’s Madrigal”/Drum Solo
“Heavy Horses”

Disc Four: Live in the Netherlands (March 16. 1980) [Previously Unreleased]

Flute Solo (incl. “Bourée/Soirée/God Rest Ye Merry Gentlemen/Kelpie”)
Keyboard Duet (Bach’s Prelude in Cm from the “Well-Tempered Clavier 1”)
“Songs From The Wood”
“Hunting Girl”
“Jams O’Donnel’s Jigs”
“Thick As A Brick”
“Too Old To Rock ’n’ Roll: Too Young To Die!”
“Cross-Eyed Mary”
Guitar Solo
“Minstrel In The Gallery”
“Locomotive Breath”
“Dambusters March”

DVD One: Audio Only

Stormwatch mixed to 5.1 DTS and AC3 Dolby Digital
Flat transfer of the original 1979 mix at 96/24 LPCM stereo

DVD Two: Audio Only

Contains 13 associated recordings mixed to 5.1 DTS and AC3 Dolby Digital
15 associated recordings mixed to 96/24 LPCM stereo
Five original mixes at 96/24 LPCM stereo

Uno dei volumi più interessanti a livello di contenuti extra: data di pubblicazione il 18 ottobre p.v..

Alla prossima.

Bruno Conti

Dopo I Gemelli Del Gol, Le Gemelle Del Folk-Rock! Shook Twins – Some Good Lives

shook twins some good lives

Shook Twins – Some Good Lives – Dutch CD

Non conoscevo le Shook Twins, due gemelle identiche (Katelyn e Laurie Shook) originarie dell’Idaho ma da anni stabilitesi a Portland, Oregon. In realtà le Shook Twins non sono un semplice duo, anche se sono loro ad occuparsi di tutte le parti vocali ed in parte anche di quelle strumentali, ma una vera e propria band, completata da Niko Daussis (chitarre), Sydney Nash (basso) e Barra Brown (batteria), e la loro musica si potrebbe considerare una fusione moderna di folk e rock, con elementi pop qua e là. Le loro sonorità di base sono perlopiù acustiche, ma spesso la chitarra elettrica avanza in prima fila e c’è anche un uso moderato della tecnologia, che dona freschezza al suono complessivo. Some Good Lives è il titolo del nuovo album delle gemelle Shook, il quinto complessivo (sono attive dal 2008), ed è una gradevole e riuscita miscela di canzoni ben scritte e ben cantate, che come dicevo prima partono dal folk per toccare vari stili pur mantenendo una buona fruibilità di fondo. Gli arrangiamenti sono moderni ma mai esasperati, ed il disco si ascolta dall’inizio alla fine senza problemi.

Il CD è autoprodotto, e parte con What Have We Done, che è il classico inizio che non ci si aspetta: si tratta infatti di un funk-rock diretto e decisamente godibile, dal ritmo cadenzato e con l’aggiunta di una piccola sezione fiati e buoni spunti chitarristici, cantato all’unisono dalle due gemelle. Safe è un pezzo dallo sviluppo insinuante, una melodia limpida ed un crescendo lento ma costante, con la chitarra a ricamare discreta sullo sfondo fino all’ingresso della sezione ritmica dopo due minuti buoni; niente male anche Figure It Out, un lento dal pathos notevole sempre con la chitarra in evidenza ed una struttura melodica di tutto rispetto. Stay Wild inizia con una chitarrina arpeggiata, poi entra una ritmica pulsante che porta il brano su lidi a metà tra pop e folk, con un uso parsimonioso della tecnologia, al contrario della delicata Vessels che è un gentile bozzetto acustico di sapore folk, mentre What Is Blue ha il respiro e l’intensità dei brani di David Crosby.

In Got Your Message spunta un banjo, e la canzone sembra quasi procedere un po’ sghemba, ma poi ci si rende conto che è tutto in voluto contrasto con la melodia pura e limpida, mentre una bella chitarra introduce Want Love, piacevole canzone dal retrogusto pop cantata in scioltezza. No Choice è dotata di un motivo corale molto interessante ed un accompagnamento più rock, un brano intrigante che è tra i migliori del CD, mentre Talkie Walkie è una folk-rock ballad fluida e tersa; il dischetto termina con la cadenzata Buoy e con una stranezza, cioè una registrazione datata 1989 di un brano intitolato Dog Beach e cantato da tale Ted Bowers, un amico di famiglia degli Shook, con le due sorelle allora bambine ai cori (performance dedicata al loro nonno, scomparso di lì a poco e presente all’epoca dell’incisione).

Un album piacevole, ben costruito e, perché no, creativo.

Marco Verdi

50 Anni Non Li Dimostrano Affatto: Il Disco Folk Dell’Anno? Steeleye Span – Est’d 1969

steeleye span est'd 1969

Steeleye Span – Est’d 1969 – Park CD

Ed anche gli Steeleye Span, storico gruppo che insieme a Fairport Convention e Pentangle forma una ideale triade di band cardini del folk-rock inglese (a mio giudizio la pur ottima Albion Band è un gradino sotto), sono arrivati a celebrare i 50 anni di attività, essendosi formati nel 1969 su iniziativa del “Governatore” Ashley Hutchings. Ma a differenza dei Fairport, che a partire dal 25° anniversario hanno festeggiato ogni lustro in pompa magna, gli Span si sono limitati a fare quello che hanno sempre fatto, cioè incidere nuova musica e pubblicare un nuovo album (il loro 23° in studio), che limita al titolo, Est’d 1969, il riferimento alla ricorrenza in questione (*NDB Almeno il 40° Anniversario lo avevano festeggiato https://discoclub.myblog.it/2010/06/24/40-anni-e-non-sentirli-steeleye-span-live-at-a-distance/). Dopo anni di album di buon valore ma in cui prevaleva il mestiere rispetto a tutto il resto, le presente decade ha visto un ritorno dei nostri ad uno stato di forma invidiabile, prima con l’ottimo Wintersmith (2013, il loro disco più venduto dal 1976) e poi con l’ancora relativamente recente Dodgy Bastards di due anni e mezzo fa, un lavoro molto valido che vedeva un gruppo in palla ed alle prese con una serie di canzoni suonate con invidiabile grinta https://discoclub.myblog.it/2017/03/23/tra-folk-e-rock-una-storica-band-britannica-sempre-in-gran-forma-steeleye-span-dodgy-bastards/ .

Ma con questo Est’d 1969 andiamo aldilà di ogni più rosea previsione, in quanto i nostri ci hanno consegnato un disco di una bellezza sorprendente, nove canzoni ispiratissime ed eseguite da una band in stato di grazia: sarà stato l’anniversario, ma non esagero se dico che sembra di essere tornati agli anni settanta, e non ho paura di eleggere questo disco come il più bello uscito finora in ambito folk nel 2019. L’unica componente del nucleo originale è come saprete Maddy Prior, grande cantante e superba interprete, mentre l’altro membro con la più lunga militanza è il batterista Liam Genokey, in quanto l’ex marito della Prior Rick Kemp ha lasciato il gruppo (per la seconda volta) all’indomani delle sessions di Dodgy Bastards: gli altri componenti attuali sono Julian Littman, chitarra, tastiere e voce solista maschile, Andrey Sinclair, chitarra, Benji Kickpatrick (figlio di John), bouzouki, mandolino, banjo e chitarra, Jessica May Smart, violino, e Roger Carey al basso. Come di consueto, gli Span prendono brani della tradizione britannica e anche Child Ballads e le adattano al loro stile, ed in questo album arrotondano il tutto con un paio di brani di origine più recente. Est’d 1969 si apre con Harvest, un brano che non posso che definire splendido, un folk-rock elettrico dalla melodia emozionante e con un refrain corale dai toni epici, un pezzo tra modernità e tradizione che riesce a coinvolgere al massimo sin dalle prime note: dopo quattro minuti il brano cambia (in effetti è una sorta di medley tra due canzoni diverse) e si trasforma in un’altra fantastica folk song dalla maggiore vena rock ma con lo stesso livello di eccellenza. Sette minuti e mezzo di puro godimento, un pezzo che da solo vale l’album (e siamo solo all’inizio).

Old Matron è una folk ballad dal sapore antico, con accompagnamento potente in cui mandolino e violino vengono suonati con grinta da rock band, ed in più abbiamo la partecipazione del flauto di Ian Anderson (che in passato aveva già collaborato con gli Span, producendo Now We Are Six), che avvicina inevitabilmente il pezzo allo stile dei Jethro Tull di album come Songs From The Wood. The January Man è una canzone scritta da Dave Goulder ed incisa in passato anche da Christy Moore (ma la versione dei nostri è ispirata a quella che un giovane Tim Hart, altro loro ex membro fondatore, usava suonare nei folk club ad inizio carriera): l’incedere è drammatico ed il passo è cadenzato e quasi marziale, con il banjo a scandire il tempo ed un ottimo e pertinente intervento di chitarra elettrica, e con la voce vissuta della Prior ad aggiungere pathos. Decisamente bella anche The Boy And The Mantle, altro lungo ed epico brano impreziosito da un motivo corale splendido, e con il suono arricchito dal delizioso clavicembalo di Sophie Yates che dona al tutto un sapore “rinascimentale”; a seguire troviamo Mackerel Of The Sea, che forse ha un suono più addomesticato ma è nobilitata dalla solita impeccabile prestazione vocale di Maddy (e poi l’atmosfera è anche qui di grande presa emotiva), mentre Cruel Ship’s Carpenter è nettamente più rock delle precedenti, una ballata elettrica che unisce una bellezza cristallina ad un approccio vigoroso, e presenta l’ennesima linea melodica notevole.

La saltellante Domestic è di nuovo uno strepitoso e trascinante folk-rock eseguito in maniera superba, ancora con un cambio di ritmo a metà canzone ed un finale decisamente rock. Il CD si chiude con la lenta Roadways, forse il brano più “mainstream” ma suonato comunque con indubbia classe, e con la breve ma toccante e suggestiva Reclaimed (scritta da Rose-Ellen Kemp, figlia di Kemp e della Prior), cantata interamente a cappella. Buon compleanno quindi agli Steeleye Span, anche se questa volta il regalo lo hanno fatto loro a noi.

Marco Verdi

Un Duo Decisamente Interessante, Lei Una Voce Affascinante. Native Harrow – Happier Now

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Native Harrow – Happier Now – Different Time Records/Loose Music

I Native Harrrow si presentano come un gruppo, ma come lascia intuire la foto di copertina di questo Happier Time, il “loro” terzo album, che ritrae le gentili e delicate fattezze di Devin Tuel, in effetti si tratta principalmente della creatura di questa musicista dell’area newyorchese, benché abilmente supportata dal membro maschile del gruppo, che c’è e risponde al nome di Stephen Harms, il quale suona tutti gli strumenti, chitarre, tastiere, basso e batteria, lasciando a Devin “solo” la composizione dei brani, la voce solista e una chitarra acustica, che sono poi forse le componenti essenziali di questo sodalizio artistico. La prima cosa che balza all’occhio, anzi all’orecchio, è la bellissima voce della Tuel, non quelle vocettine sospirose che spesso vengono identificate con questo tipo di neo folk alternativo, quanto una cantante affascinante, con un timbro corposo e dalle sofisticate nuances sonore, che se non pareggiano quelle di Joni Mitchell o Sandy Denny (e ce ne vuole) comunque si muovono su quelle coordinate folk-rock anni ’70, che intersecano anche le sonorità dei Fairport Convention o di Nick Drake.

Tutte citazioni e rimandi che ci stanno, ma forse caricano di aspettative eccessive, sia gli ascoltatori, che la comunque brava Devin Tuel, una che da giovane voleva diventare una ballerina classica, poi ha studiato da cantante d’opera, ha passato un momento in cui avrebbe voluto essere Patti Smith, prima di ritirarsi nel suo appartamento al Greenwich Village a New York e, sotto il nome d’arte di Native Harrow,  approdare a questo terzo album, registrato in quel di Chicago ai Reliable Recorders Studios, con la co-produzione di Alex Hall (JD McPherson, The Cactus Blossoms, Pokey LaFarge), album che conferma le buone impressioni dei primi due e contiene tutte le indicazioni ed i rimandi ricordati finora. Il disco in effetti è già uscito da Aprile negli States (e per il download è comunque disponibile), con la stessa distribuzione indipendente dei primi due, ma in Europa, tramite l’etichetta Loose, vedrà una circolazione più curata dai primi di agosto: l’iniziale Can’t Go On Like This, pervasa nel testo dalla puntura della precarietà, musicalmente illustra subito questo suono ricco e ricercato, percorso dalla vocalità sicura e ricca di sfumature della Tuel, deliziosa e sinuosa nel suo approccio, mentre chitarre e tastiere e una ritmica basica, ma comunque presente, avvolgono questo fascinoso strumento che è appunto la sua voce, attraverso un folk-rock vibrante e delizioso, che poi sfocia in How You Do Things, che è il brano più vicino alla Joni Mitchell del periodo Court And Spark, malinconica ma assertiva.

Blue Canyon è un omaggio a quella California immaginata, ma forse mai vissuta, un brano acustico, sognante e intimo, che mi ha ricordato certe cose di Nick Drake, sempre per quella melancolia di fondo che si respira nella canzone; e anche se Happier Now, nonostante il titolo, non trasuda felicità, è comunque un altro bell’esempio della musica soffice e delicata, ma complessa, che si respira negli arrangiamenti raffinati dei Native Harrow, sempre con quella deliziosa voce a galleggiare leggiadra, anche con qualche acrobazia vocale appena accennata. Hard To Take è quella che più si ispira al Van Morrison dei primi tempi, con qualche retrogusto à la Ryley Walker, pur se l’approccio è comunque tipico di una unicità femminile, con Something You Have, che, grazie al bellissimo suono vintage di un organo Hammond, rimanda magari alla Band o alla musicalità più influenzata dal soul di una Laura Nyro meno infervorata.

Arc Iris è più elettrica e mossa, con strati di voci sovraincise e una maggiore urgenza nell’approccio sonoro, grazie alla solista di Harms più presente, mentre Hang Me Out To Dry, dal titolo ironico, con la sua chitarra acustica arpeggiata e un cantato più laconico, ha sempre quelle improvvise aperture “mitchelliane” a nobilitarlo, ed è un altro eccellente esempio della vocalità di Devin, che poi si estrinseca al massimo nella lunga e conclusiva Way To Light, una sorta di fantasia agra ed ironica sulla ricerca di una sontuosa ed ipotetica stabilità, brano che secondo alcuni ricorda il giro musicale di Dear Prudence dei Beatles, ma poi nel calderone sonoro introduce anche una ricorrente e pungente slide che punteggia i crescendo sonori e vocali di questo complesso ed articolato brano, uno tra i più interessanti di questa nuova e valida proposta da inserire nel filone folk-rock e tra i nomi da ricordare.

Bruno Conti

Grandi Canzoni Per Un Giovane Songwriter Dal Cognome “Biblico”. Ian Noe – Between The Country

ian noe between the country

Ian Noe – Between The Country – National Treasury/Thirty Tigers CD

Quando mi sono approcciato a Between The Country, disco d’esordio di tale Ian Noe, molte cose mi hanno fatto venire in mente il debut album omonimo di Colter Wall uscito nel 2017: prima di tutto la confezione, un digipak essenziale e con foto in bianco e nero, poi il produttore che in entrambi i casi è l’onnipresente Dave Cobb, e come terza cosa (ma questo l’ho scoperto soltanto dopo) il fatto che ambedue gli artisti avessero già all’attivo un EP. Fin qui le somiglianze, ma poi abbiamo anche le differenze che sono sostanziali: aldilà del fatto che Wall è canadese mentre Noe proviene dal Kentucky, là l’ispirazione principale erano le ballate western dei primi dischi di Johnny Cash, ed il suono era decisamente spoglio, mentre le canzoni di Between The Country sono chiaramente influenzate dal folk-rock anni sessanta di gente come Bob Dylan e i Byrds, ed il suono è più elettrico. E, se l’album di Wall mi era piaciuto molto, questo esordio di Noe mi ha addirittura entusiasmato soprattutto per la bellezza assoluta delle canzoni, dieci gemme preziose che rivelano un talento sorprendente: come ho già accennato Dylan è la fonte di ispirazione principale, ma Ian va ben oltre riuscendo a non sembrare mai derivativo, ha un suo suono ed una sua forte personalità, oltre a possedere una bella voce forte, chiara e squillante.

Cobb da parte sua svolge egregiamente il suo compito, dosando alla perfezione i suoni tra chitarre acustiche ed elettriche (gli stessi Ian e Dave), la sezione ritmica del “solito” Chris Powell (batteria) e di Adam Gardner, che suona il basso ma si destreggia molto bene anche all’organo e pianoforte. Una band come potete vedere ristretta, ma con un sound perfetto per le canzoni del nostro, che in quasi quaranta minuti ci consegna quello che per me è fino ad oggi il disco d’esordio più bello del 2019: d’altronde del talento di Noe se ne sono accorti anche artisti del calibro di John Prine, Son Volt e Blackberry Smoke, che lo hanno voluto come opening act dei loro concerti. L’inizio del disco è formidabile grazie a Irene (Ravin’ Bomb), una folk song strepitosa dal ritmo cadenzato, accompagnamento in punta di dita e melodia profondamente evocativa, che ricorda Dylan ma fino ad un certo punto https://www.youtube.com/watch?v=iQzuyqGFUZU . Bellissima anche Barbara’s Song, più elettrica e con un accattivante jingle-jangle sound: il motivo centrale è anche qui splendido e rievoca in pieno gli anni sessanta, quando canzoni di questo tipo erano “cool” https://www.youtube.com/watch?v=7zQZ1IicM6Y ; Junk Town è di base acustica, tenue e toccante, la chitarra elettrica c’è ma è in lontananza, e riesce comunque a rilasciare un breve ma ispirato assolo: per intensità e purezza un altro nome che mi viene in mente è quello dello sfortunato Tim Hardin.

La cristallina Letter To Madeline è ancora dylaniana ma non troppo, con la solita strumentazione a metà tra folk e rock, un refrain ricco di pathos ed un suggestivo controcanto femminile (Savannah Conley): ottima, anzi direi trascinante; Loving You è una folk song di notevole forza, acustica al 100% e sempre con un piede nei sixties, mentre That Kind Of Life è una sontuosa rock ballad elettroacustica dalla melodia deliziosa ed immediata ed un sapore southern country. Dead On The River (Rolling Down) ha un passo drammatico ed una linea melodica asciutta ma vibrante, con una chitarrina che ricama di fino sullo sfondo ed un’eccellente coda strumentale in cui anche l’organo fa la sua parte; splendida e struggente https://www.youtube.com/watch?v=KPQp62q1b6Y  If Today Doesn’t Do Me In, puro folk d’alta scuola che sembra opera di un veterano, così come Meth Head, tagliente come una lama nonostante sia costruita intorno a piano e chitarra (questa sì la più dylaniana di tutte), mentre la title track, ennesimo brano di incredibile intensità, ha addirittura elementi che fanno pensare ad un traditional irlandese o scozzese, con l’accompagnamento rock che la rende ancora più bella, anzi una delle migliori di un album che purtroppo si chiude qui, anche se mi consolo pensando che queste canzoni mi terranno a lungo compagnia anche nei prossimi mesi.

Marco Verdi

Il Commiato Di Una Piccola Grande Band Folk-Rock Sconosciuta Ai Più. McDermott’s 2 Hours – Besieged

mcdermott's 2 hours

McDermott’s 2 Hours Vs Levellers & Oysterband – Besieged – On The Fiddle Recordings

Premetto che questo CD non è recentissimo, in effetti è uscito nel Febbraio di quest’anno, ma solo in questi ultimi giorni ne sono venuto in possesso, e dato che quasi certamente sarà l’ultimo di una carriera passata ai margini della scena musicale britannica, mi dà l’occasione finalmente per parlarvi di questa piccola grande band. I McDermott’s 2 Hours si sono formati a Brighton nel lontano ’86 dalle ceneri di altri due gruppi, e precisamente degli sconosciuti The Bliffs e The Crack, e sotto la guida del fondatore, compositore, cantante e drammaturgo Nick Burbridge, sono stati tra i primi a pensare di unire il folk irlandese con un tocco di “punk” (con Shane MacGovan come punto riferimento), e in seguito sono quindi diventati una folk-rock band. La formazione originale comprendeva oltre al citato Burbridge, Martin Pannett, Marcus Laffan, e Tim O’Leary, e suonando nei “pub” e nei “club” di Brighton e Londra si sono costruiti una solida reputazione per le loro esibizioni dal vivo “torrenziali” che sono diventate leggenda. Il loro esordio discografico avvenne con il baldanzoso Enemy Within (89), a cui fecero seguito tre album in collaborazione con i più famosi Levellers, e precisamente Wold Turned Upside Down (2000), Claws & Wings (03), e Disorder (04), per poi incidere da soli Goodbye To The Madhouse (07), le cui recensioni all’epoca sono state uniformemente positive; seguì una lunga pausa discografica (in cui si esibivano solo dal vivo), interrotta con la raccolta Anticlockwise (13) un The Best Of McDermott’s 2 Hours (venduto solo ai concerti), fino ad arrivare a questo conclusivo lavoro Besieged, registrato con alcuni amici e componenti sia dei Levellers che della Oysterband (abituali ospiti di queste pagine virtuali).

In quello che sembra l’ultimo capitolo della carriera musicale di Burbridge, il nostro si porta in studio l’ultima line-up della formazione composta dai violinisti Ben Paley e Tim Cottarel, Matt Goorney e Philippe Barnes alle chitarre, con il contributo della parte più “soul” dei Levellers, con Jeremy Cunningham  al basso e Simon Friend alle chitarre, e la sezione ritmica degli ultimi Oysterband con Dil Davies alla batteria, e Al Scott alle percussioni, tastiere, basso, mandolino e bouzouki, con un contributo familiare in veste di “vocalist” della figlia Molly Burbridge, sotto la produzione dello stesso Scott (che ricordiamo ha curato gli ultimi lavori degli stessi Levellers). Questo CD degli “assediati” parte con il potente brano d’apertura Firebird, dove sfacciatamente sembra di sentire il marchio di fabbrica del sound Levellers, seguito da una canzone popolare come Erin Farewell, dove si racconta una meravigliosa storia di lotta e fede, brano che vede protagonisti i tanti irlandesi che sono all’estero, come anche in This Child, altro brano di forte impatto emotivo che narra le sorti di bambini uccisi senza alcuna colpa, con l’accompagnamento dei violini “strazianti” di Ben e Tim.

Le storie proseguono con il grido di protesta di The Last Mile, canzone che pesca dalle influenze musicali dei mai dimenticati Pogues dello sdentato Shane MacGowan, con la band che poi si scatena nell’andamento baldanzoso di Forlon Hope, dove è proprio impossibile non muovere i piedini, mentre la dolce ballata All That Fall si avvale nel finale della voce suadente della brava Molly. Con The Warrior Monk, un’altra storia di guerra, sofferenza, sacrificio e tragedia, ci trasferiamo nel Medio Oriente, con un tessuto musicale di grande aggressività, cantato con rabbia, mentre la deliziosa  Crossed Lines è un’altra dolce ballata cantata da Burbridge in duetto con la figlia, brano che precede gli svolazzi violinistici della title track Besieged, un brano perfettamente in linea con il folk-rock style dei Waterboys. Le storie raccontate da Burbridge purtroppo volgono al termine con una The Damned Man’s Polka, dove tutti sono invitati a ballare sulla pista da ballo, con un crescendo di musica anglo-irlandese dove gli strumenti tradizionali sono in gran spolvero, le danze che proseguono con la tambureggiante All In Your Name, per andare infine a chiudere un lavoro splendido con la commovente e quasi recitativa The Ring, dove come sempre il violino e il cantato di Nick vi accompagnano con la mente e con il cuore attraverso i meravigliosi paesaggi della verde Irlanda.

I Levellers hanno sempre riconosciuto nella formazione dei McDermott’s 2 Hours “una grande influenza formativa”, e ora quindici anni dopo i due gruppi, come ricordato all’inizio, si sono ritrovati in studio  anche con membri della Oysterband, per questo Besieged, che non sembra un commiato finale, ma un lavoro che ha tutto ciò che serve per un album folk, un racconto magistrale di storie, del passato e del presente, con brani incisivi e pimpanti, fortemente radicati nella tradizione, suonati come Dio comanda (violini, percussioni, strumenti tradizionali, cori), e in cui Nick Burbridge non solo dà il meglio come musicista, ma pure come poeta e romanziere, un personaggio che è stato e continua a essere uno dei migliori cantautori di coloro che fanno parte della grande tradizione anglo-irlandese, e se questo veramente fosse il “canto del cigno” sarebbe (per chi scrive) un vero peccato, in quanto ogni ascolto di questo CD è davvero tempo ben speso, se mate il genere, ed è l’occasione di fare conoscenza con una delle folk band più sottovalutate del pianeta, che per motivi che sfuggono agli amanti della buona musica non ha avuto il successo che meritava, e forse neanche lo ha cercato!

*NDT Per chi fosse interessato ad avvicinarsi alla musica della band, ricordo che esiste anche una versione limited in 2 CD dell’album, con allegato proprio il dischetto antologico citato prima, Anticlockwise, il Best Of riepilogativo con altre 14 tracce.

Tino Montanari

Non Siamo Più In “Zona Ciofeca”, Ed E’ Già Molto, Quasi Bello! The Waterboys – Where The Action Is

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The Waterboys – Where The Action Is – Cooking Vinyl CD

Senza per forza dover risalire fino al loro capolavoro Fisherman’s Blues (1988), è da Room To Roam del 1990 che i Waterboys non fanno un grande disco, e per grande disco intendo un album “da copertina”. Dopo un lungo passaggio a vuoto durante tutti gli anni novanta, con due album molto rock ma con poche idee (Dream Harder e A Rock In The Weary Land, che per la verità è uscito nel 2000) e due lavori solisti del loro leader, il vulcanico e geniale Mike Scott, la band britannica si è presentata nel nuovo millennio tirata a lucido, con tre album che richiamavano le vecchie sonorità folk-rock: Universal Hall, ottimo, Book Of Lightning, non male, e soprattutto il raffinato ed intenso An Appointment With Mr. Yeats https://discoclub.myblog.it/2011/09/25/nuovamente-waterboys-an-appointment-with-mr-yeats/ . Poi una nuova preoccupante flessione, come se i nostri dovessero per forza alternare una decade buona ad una deludente: Modern Blues (2015) era un lavoro appena discreto, e privo di grandi canzoni, ma il fondo lo hanno toccato nel 2017 con il quasi orrendo (nel senso che qualche brano si salvava) Out Of All This Blue https://discoclub.myblog.it/2017/09/20/ma-e-veramente-cosi-brutto-come-dicono-quasi-tutti-waterboys-out-of-all-this-blue/ , nel quale Scott palesava il suo nuovo amore per sonorità elettroniche e di stampo hip-hop.

Non vi nascondo dunque la mia paura nell’approcciarmi a questo Where The Action Is, nuovo lavoro del musicista di Edimburgo e della sua band (Paul Brown, organo e tastiere varie, Steve Wickham, violino elettrico, Aongus Ralston, basso, Ralph Salmins, batteria): ebbene, devo riconoscere con un sospiro di sollievo che il disco si lascia ascoltare senza grossi problemi, non è un capolavoro e forse neppure un grande album ma non raggiunge neppure i livelli di nefandezza musicale di Out Of All This Blue (tranne che in un caso che vedremo a breve), e forse si colloca anche un gradino più su di Modern Blues. Le sonorità sono sempre moderne e Scott non rinuncia all’uso dell’elettronica (il nome dei due produttori, Puck Fingers e Brother Paul, è tutto un programma), ma stavolta Mike è più equilibrato, non si è dimenticato a casa le canzoni e la stessa band è abbastanza in palla; il suono è a metà tra rock e pop, il folk ormai è quasi un ricordo, ma la mia paura era che l’hip-hop prendesse un’altra volta il sopravvento. E poi, come se niente fosse, giusto alla fine del disco Scott piazza la classica zampata da fuoriclasse, un brano da cinque stelle che rivaluta da solo tutto il CD. L’album parte fortissimo con la title track, un riff di chitarra aggressivo ed un suono potente, molto rock, con la sezione ritmica che pesta di brutto e Mike che canta in maniera grintosa (e non mancano dei piacevoli fills di organo): una rock song tonica e vigorosa, non il suono che ci si può aspettare ma comunque un pezzo trascinante.

Ancora chitarre in tiro per London Mick, una rock’n’roll song pimpante e diretta tra Stones e Clash (e d’altronde il brano parla di Mick Jones), sicuramente coinvolgente; Out Of All This Blue (canzone che ha il titolo dell’album precedente) è invece un gradevolissimo errebi-pop dalla melodia decisamente accattivante e di derivazione folk, un brano intrigante con i fiati che fanno pensare a Van Morrison anche se l’arrangiamento è moderno. Quando ho sentito per la prima volta Right Side Of Heartbreak (Wrong Side Of Love), il primo singolo uscito già da diverse settimane, non mi sono per nulla impressionato in quanto trovavo questo funky dal ritmo sostenuto piuttosto banale e privo di una vera melodia, ma già il secondo ascolto ha migliorato un po’ le cose, anche se siamo ben lontani dall’eccellenza. Per contro In My Time On Earth è una bellissima ed intensa slow ballad ad ampio respiro, un genere in cui Scott e compagni sono maestri; Ladbroke Grove Symphony torna al rock, un pezzo caratterizzato da una ritmica pressante ma con un arrangiamento rilassato, tutto basato su piano, chitarre ed un motivo coinvolgente, mentre Take Me There I Will Follow You segna il temuto ritorno alle atmosfere funky-pop-rap-hip-hop, canzone fastidiosa ed irritante.

And There’s Love è una ballata ancora dal suono moderno, ma con l’approccio giusto e suoni dosati con misura, oltre ad una certa tensione emotiva di fondo, mentre Then She Made The Lasses O è un traditional folk che mette in contrasto la melodia d’altri tempi con un beat elettronico, ma il risultato finale non mi dispiace. Il meglio, come ho detto prima, si trova alla fine con la fantastica Piper At The Gates Of Dawn (con le parole originali dell’autore Kenneth Grahame, tratte dal settimo capitolo della celebre opera The Wind In The Willows, capitolo che ispirò anche il titolo di una canzone di Van Morrison, oltre che naturalmente del primo album dei Pink Floyd), lunghissima ballata pianistica di nove minuti dall’atmosfera straordinaria, un lento da pelle d’oca in cui Mike ci ricorda il suo amore per Van The Man: il brano è parlato, ma la musica sullo sfondo è sublime ed il pathos generale è altissimo. Se tutto il disco fosse stato a questo livello oggi Fisherman’s Blues avrebbe un serio contendente come miglior album dei Waterboys. Speriamo bene per il prossimo, per ora ci accontentiamo.

Marco Verdi