Dopo 40 Anni Di Grandi Canzoni, Un’Altra Splendida “New York City Serenade”. Willie Nile – New York At Night

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Willie Nile – New York At Night – River House Records

Quando lo scorso ottobre Willie Nile iniziò a registrare le nuove canzoni negli Hobo Sound Studios di Weehawken, New Jersey, non poteva certo aspettarsi, come nessuno di noi, tutto quello che sarebbe accaduto nei primi mesi di questo travagliatissimo 2020: la pandemia che è dilagata in tutto il mondo, avvicinando in modo drammatico Milano, Bergamo e Brescia alla sua New York, tragici epicentri di un male nascosto e spietato che ha stravolto le nostre esistenze. Alla luce di tutto ciò, acquista ancora più valore l’ennesimo affresco traboccante di musica e vita che il rocker di Buffalo ha saputo dedicare alla sua città di adozione, presentandocelo come il seguito ideale dell’eccellente Streets Of New York, pubblicato quattordici anni fa. Prodotto insieme all’esperto amico Stewart Lerman, che ricordiamo in cabina di regia anche con Elvis Costello, Patti Smith e Neko Case, New York At Night è l’ennesima prova dello straordinario talento di Willie Nile nella doppia veste di compositore e performer.

Ad accompagnarlo nell’alternanza di lirismo e adrenalina che pervade questa dozzina di nuovi brani, troviamo un ristretto numero di fidati musicisti che spesso lo hanno supportato anche dal vivo: Il bassista Johnny Pisano, il batterista Jon Weber e i chitarristi Matt Hogan e Jimi K. Bones, a cui vanno aggiunti alcuni ospiti illustri come il blasonato polistrumentista Steuart Smith, che molti ricorderanno nelle più recenti esibizioni live degli Eagles o nei dischi di Rosanne Cash e di Rodney Crowell, il sopraffino tastierista Brian Mitchell, già collaboratore di B.B. King, Levon Helm e Bob Dylan, e, tra i vocalist, il fedele amico Frankie Lee e lo stimato collega James Maddock. Permettetemi di citare anche la copertina dell’album, l’ennesima superba istantanea in bianco e nero scattata dalla compagna di Willie, Cristina Arrigoni, (di cui consiglio caldamente il magnifico libro fotografico The Sound Of Hands, edizioni Wall Of Sound) che ritrae il nostro songwriter con le spalle appoggiate a una colonna di una stazione metropolitana mentre un treno gli sfreccia accanto.

Per saltare idealmente su quel treno, non dobbiamo fare altro che far partire New York Is Rockin’, la traccia di apertura del nuovo lavoro. Sembra di fare un salto indietro di quarant’anni, quando un giovane Willie Nile si presentava al mondo del rock con una sublime serenata elettrica dedicata alla sua luna vagabonda. L’energia e il sound sono gli stessi di allora, tra chitarre sferraglianti e ritmica incalzante, fino ad un ritornello che già ci fa immaginare (quando si potrà) sotto un palco a cantare a squarciagola a braccia alzate. Questa è la meravigliosa spontaneità comunicativa di un piccolo grande rocker capace con quattro semplici accordi di arrivare all’essenza gioiosa del rock ‘n’ roll, come pochi altri sanno fare. Il riff assassino di The Backstreet Slide non dà tregua, trascinandoci nei bassifondi poco illuminati della Grande Mela, con la voce del protagonista che si fa più roca e scura, mentre alle sue spalle le sei corde impazzano con gran lavoro di bottleneck, in omaggio al Willie DeVille di Cadillac Walk. Una tastiera soffusa ci introduce alla prima delle ballads, Doors Of Paradise, che parte lenta ma poi prende ritmo su una piacevole linea melodica, con tanto di coretto in chiave afro-gospel sullo sfondo. Gradevole sì, ma non proprio memorabile.

Decisamente meglio Lost And Lonely World, che lancia subito il suo ripetitivo refrain, tipico dei brani di Willie che diventano inni cantati in coro da tutto il suo pubblico durante i concerti. Tra sventagliate di chitarra e grande pathos nel testo diventerà sicuramente uno degli highlights del prossimo tour, che avrebbe già dovuto partire questa primavera con date in Spagna ed Italia, ma che per i ben noti problemi verrà posticipato all’autunno, se non al prossimo anno. Anche The Fool Who Drank The Ocean, scritta insieme a Frankie Lee, avrà di sicuro una bella resa dal vivo col suo incedere duro ed incalzante, le chitarre che si inseguono a briglia sciolta mentre il testo sembra alludere alla classe dirigente americana, facendo uso di una satira pungente. A Little Bit Of Love, come spiega il suo autore, è nata in seguito agli emozionanti incontri che Willie ebbe lo scorso anno con suo padre, giunto alla veneranda età di centodue anni e definito un grande storyteller. Composta al pianoforte nel corso di una notte, fa emergere tutta la sua carica emotiva reggendosi su una melodia limpida e subito assimilabile. Il suo lento crescendo diventa via via irresistibile e ne fa uno dei migliori brani di questa raccolta, sulla scia di altre grandi ballate del passato come Love Is A Train, Renegades o Back Home.

Non so quale sia la vostra idea della perfetta rock ‘n’ roll song, la mia si avvicina parecchio a quanto si ascolta nella title track New York At Night: chitarre infuocate, ritmica a palla, melodia vincente, parole urlate in modo semplice e diretto, da cantare in coro come una selvaggia catarsi. Chi altri è in grado di pubblicare oggi pezzi di questa potenza e immediatezza? Forse gli Stones o Springsteen, se ne avesse ancora voglia, lascio a voi l’ardua sentenza, perché si cambia completamente registro con la successiva The Last Time We Made Love, una preziosa ballad pianistica sulla falsariga di altri gioielli sparsi da sempre all’interno della sua discografia. E una volta di più Willie ci mette a tappeto, con un’interpretazione vocale da brividi e con le note struggenti del suo piano a cui viene sovrapposta a metà e in coda una chitarra elettrica dal suono abrasivo, quasi a sottolineare la malinconica fugacità di un amore che non può tornare. Ci torniamo noi indietro, fino alla seconda metà degli anni settanta, grazie alle atmosfere acide e allucinate di Surrender The Moon, che pare un tributo ai Television per i suoni taglienti delle chitarre mentre Nile canta in modo declamatorio facendo il verso a Patti Smith.

Questo brano risale a tredici anni fa e nacque da un’idea del fratello minore di Willie, John Noonan (Robert Anthony Noonan è il vero nome del nostro protagonista, per chi ancora non lo sapesse) poi venuto a mancare l’anno successivo. Willie si dice sicuro che il fratello sarebbe contento e orgoglioso di questa versione, e noi lo siamo con lui. Under This Roof ci fa fare un ulteriore salto nel passato, quando la sua casa e i locali che frequentava erano nel Greenwich Village e uno stuolo di romantici bohémiens, armati di chitarra acustica, facevano a gara per farsi ascoltare e trovare fortuna in luoghi poi mitizzati come il Cornelia Street Cafè o il Kenny’s Castaways. Under This Roof è un luminoso ricordo di quegli anni e dei sogni e delle illusioni che nascevano e svanivano sotto quel tetto nell’arco di una sola notte. Dopo questa delicata ed intima parentesi, ripartono i fuochi d’artificio con un altro potenziale singolo, la ruvida Downtown Girl, ennesimo esempio di rock immediato ed efficace, proposto con l’impeto di una garage band. Ma il gran finale è riservato a un brano che Willie registrò nel 2003 con la sua band di allora, The Worry Dolls. Incredibile che un pezzo di questo livello abbia dovuto aspettare 17 anni per essere pubblicato, si intitola Run Free ed è un’esortazione a spezzare ogni tipo di catena e puntare in alto inseguendo i propri sogni. Musicalmente si rivela una trascinante cavalcata elettrica con il piano in bella evidenza e una slide imperiosa che ricama sullo sfondo. A metà strada, acquisisce i colori del gospel grazie all’intervento di un coro di voci femminili che ne accrescono ulteriormente l’impeto e la solennità. Una degna conclusione per un album costruito con ottime canzoni che non mancheranno di avere la loro consacrazione definitiva dal vivo.

Per passione, energia e talento Willie Nile si conferma un punto di riferimento per le nuove generazioni di cantautori rock e, per noi appassionati ascoltatori, un compagno di viaggio insostituibile.

Marco Frosi

Una Bellissima Sorpresa Direttamente Dal Midwest. Frankie Lee – Stillwater

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Frankie Lee – Stillwater – Loose/River Valley CD

Frankie Lee (da non confondersi con l’omonimo blues & soul singer scomparso nel 2015) è un giovane cantautore proveniente dal Minnesota che ha esordito nel 2013 con l’EP Middle West, al quale nel 2016 ha fatto seguire il suo primo album, American Dreamer, che ha ricevuto critiche positive un po’ ovunque. Lee (il cui cognome è Peterson) è un songwriter di stampo classico che si ispira alla musica degli anni settanta, californiana e non solo, e sa costruire melodie all’apparenza semplici ma di grande impatto. Stillwater (dal nome della sua città natale, omonima di quella più famosa in Oklahoma) è il titolo del suo secondo lavoro, un disco che già dal primo ascolto mi ha letteralmente fulminato. Non conosco American Dreamer, ma quello che so è che Stillwater è un lavoro davvero splendido, un album pieno di canzoni una più bella dell’altra, suonate e cantate con un feeling da pelle d’oca (sono in possesso di una copia promozionale ma ecco i nomi dei musicisti: Jacob Hanson, chitarra e basso, nonché produttore, Jeremy Hanson, batteria, Nelson Deveraux, flauto e sax, Charlie Smith, piano e synth, Brent Sigmeth, steel guitar, più lo stesso Lee a chitarre, piano, tastiere, batteria, basso, armonica).

Frankie ha una voce molto particolare, limpida e melodiosa, e si fa accompagnare da una strumentazione molto classica dove si evidenziano pianoforte, chitarre acustiche e spesso anche una steel, mentre le chitarre elettriche non si prendono quasi mai il centro della scena ma si limitano a cucire fra loro i vari momenti strumentali. E, dulcis in fundo, Lee è uno che sa scrivere grandi canzoni, una dote che non è esattamente da tutti: Stillwater è quindi un album di livello notevole, intenso, creativo ma nello stesso tempo diretto e godibile, e nel corso delle sue nove canzoni non c’è un solo momento di stanca. Prodotto dallo stesso Lee con Jacob Hanson, il CD inizia con Speakeasy, una splendida ballata dalla struttura classica: introduzione per chitarra arpeggiata, piano e steel sullo sfondo, sezione ritmica discreta ma ben presente ed un’atmosfera sognante e crepuscolare tipica di certe ballate californiane dei seventies (bello anche l’intervento di flauto nel finale). Canzone di alto livello che dimostra da subito che il nostro non scherza. Only She Knows è più elettrica, ha un bel riff iniziale ed un motivo decisamente riuscito ed orecchiabile specie nel delizioso ritornello (ed il background sonoro, basato sulle chitarre ed un bellissimo pianoforte, è perfetto); la cadenzata Downtown Lights (dedicata all’attrice Jessica Lange che da bambina visse a lungo a Stillwater) ha un approccio alla Neil Young ed è punteggiata da un chitarrone twang, oltre a possedere un gusto melodico sopraffino.

Tre canzoni, una meglio dell’altra. In The Blue è un lento pianistico di grande intensità, con una leggera orchestrazione alle spalle (creata probabilmente da un synth), un brano struggente ed assolutamente adulto nella scrittura; la tenue (I Don’t Wanna Know) John si regge su una chitarra pizzicata con delicatezza e sulla consueta voce gentile di Frankie, mentre sullo sfondo la steel riempie gli spazi, mentre Blinds è più mossa ma ancora guidata dal piano, e l’attacco strumentale ricorda molto certe ariose ballate di Bob Seger: indubbiamente tra le più belle del CD. Ancora il piano (grande protagonista del suono del disco) introduce la limpida One Wild Bird, altra ballad di ampio respiro servita da un motivo di prima scelta, intonato dal nostro con la solita finezza; l’album si chiude con Broken Arrow, ennesima canzone dal motivo squisito che avvicina Lee al Tom Petty più melodico, e con Ventura, uno slow toccante e di notevole pathos per voce, piano e niente altro. Stillwater è un disco sorprendente, a mio parere tra i più riusciti degli ultimi mesi.

Marco Verdi