14 Passi Nel Rock’n’Roll Stradaiolo di New York Con Garland Jeffreys – 14 Steps To Harlem

garland jeffreys 14 steps to harlem

Garland Jeffreys – 14 Steps To Harlem – Luna Park Records

Garland Jeffreys, a parere di chi scrive, è uno di quei musicisti di cui non si può fare a meno, infatti è un cliente abituale di questo blog, ne abbiamo parlato per il concerto a Pavia nel 2013, ma anche in altre occasioni, nelle uscite di The King Of In Between (11)  http://discoclub.myblog.it/2013/07/17/piccoli-ri-passi-della-storia-del-rock-garland-jeffreys-in-c/, Truth Serum (13) http://discoclub.myblog.it/2013/10/05/70-anni-e-non-sentirli-un-grande-garland-jeffreys-truth-seru/ , e la ristampa del live Paradise Theater, Boston October ’79, fatte con la consueta solerzia dall’amico Bruno http://discoclub.myblog.it/2016/03/10/quasi-piu-bello-del-vecchio-live-ufficiale-garland-jeffreys-paradise-theater-boston-october-79/ .In una lunga carriera tutt’altro che lineare (tra cambi di etichetta e lunghe pause ), questo signore, tra un decennio e l’altro, ha consegnato ad ogni tappa almeno un grande disco: Ghost Writer (77), Escape Artist (81), Don’t Call Me Buckwheat (91), e Truth Serum (13) senza dimenticare Live Hot Point (08) con Elliott Murphy e Chris Spedding, piccoli e grandi capolavori nati dalle sue radici che affondano nelle “backstreets” di Brooklyn.

Questo nuovo lavoro 14 Steps To Harlem. prodotto da Garland con il nostro “amico” James Maddock (se ne parlato anche recentemente per il Live At Daryl’s House http://discoclub.myblog.it/2017/03/25/un-rocker-inglese-di-casa-a-new-york-james-maddock-live-at-daryls-house/ ), vede l’apporto di musicisti di riguardo, tra i quali Tom Curiano alla batteria, Brian Stanley al basso, Charly Roth e Mark Bosch alle chitarre, Brian Mitchell e Ben Stivers alle tastiere, con la partecipazione al violino di Laurie Anderson, il fido “compagno di merende” Alan Freedman alla chitarra elettrica, e la figlia Savannah in un duetto e al pianoforte, per dodici brani che danno vita ad un nuovo breve viaggio sui sentieri del migliore rock’n’roll. Vediamo allora cosa ci riserva questo nuovo 14 Steps To Harlem: che parte con il ritmo incalzante di una grintosa When You Call My Name, per poi passare subito allo “shuffle” di Schoolyard Blues, seguito dalla title track 14 Steps To Harlem, una magnifica ballata “soul” che vede la partecipazione ai cori di James Maddock e Cindy Mizelle (cantante e corista di Springsteen), e al pop raffinato di una amorevole Venus (dedicata alla moglie). In ogni disco di Garland che si rispetti non può mancare il “reggae”, e quindi eccoci accontentati con il ritmo di una ballabilissima Reggae On Broadway, poi bilanciata con la splendida ballata Times Goes Away, cantata in duetto con la figlia Savannah, anche al pianoforte e James Maddock alla lap-steel guitar, per poi passare ancora ai ritmi “latini”, tra fisarmonica e mandolino, di una danzereccia Spanish Harlem, e alle delicate e soffuse note di una più che sofferente I’m A Dreamer.

I 14 passi proseguono con due cover, prima Waiting For The Man, un sentito omaggio ai Velvet Underground dell’amico Lou Reed, interpretata da Garland in maniera simile a livello vocale, e una intrigante versione “slow” di Help dei Beatles, dove giganteggia la fisarmonica di Brian Mitchell, e per chiudere il rap moderno di una Colored Boy Said, ma soprattutto la “perla” dell’album, la pianistica e struggente ballata Luna Park Love Theme, impreziosita dal violino magico della moglie di Lou Reed, Laurie Anderson, un brano che avrebbe fatto la sua “sporca” figura anche su Don’t Call Me Buckwheat o sul mitico Ghost Writer (per il sottoscritto i suoi dischi migliori).

Questo arzillo 74enne ( che ho visto personalmente, qualche anno fa, come ricordato saltellare sul palco in Piazza Della Vittoria a Pavia), ancora oggi rimane un artista raffinato, eclettico e istrionico, dalla voce calda e amichevole, stimato dai colleghi (nomi come Bruce Springsteen, Dr.John, David  Bromberg, Joe Ely, John Cale, Willie Nile, Alejandro Escovedo, James Taylor, Phoebe Snow,  e molti altri ancora), ma poco apprezzato (purtroppo) dal pubblico di massa, anche se il suo status di artista di culto gli ha permesso, nonostante tutto, nell’arco di una carriera quarantennale, di disseminare dozzine di splendide canzoni (anche piccoli capolavori), senza mai lasciarsi travolgere dai tempi e dal “cliché” del rock’n’roll business, e per un tipo che fin dagli anni ’70 faceva scorrere nei solchi dei suoi dischi un misto di generi come rock, pop, reggae, ska, black music, soul e anche dance, testimonia, nel bene e nel male che l’artista Garland Jeffreys è ancora vivo, e rimane un musicista essenziale per New York City, e per tutti gli amanti della buona musica.!

Tino Montanari

Quasi Più Bello Del Vecchio Live Ufficiale! Garland Jeffreys – Paradise Theater, Boston October ’79

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Garland Jeffreys – Paradise Theater, Boston October ’79 – Vox Rox 

Ecco un altro prototipo dell’artista di culto quasi perfetto: Garland Jeffreys, da New York, anzi Brooklyn, origini afro-americane e portoricane, compagno di università di Lou Reed (suo grande amico), addirittura prima dell’avventura con i Velvet Underground, una carriera discografica che in oltre 45 anni ha prodotto solo 14 album (compresi un paio usciti solo in Europa), ma con picchi qualitativi elevatissimi e un livello medio elevato costante. Tra una pausa e l’altra Garland ha coltivato le sue passioni, per la cultura, la letteratura, con diversi soggiorni in Italia, dove lo chiamavano “Garlando”, ma anche per la famiglia, con la nascita di una figlia alla fine degli anni ’90, e un’altra lunga pausa dal mondo musicale attivo. Ha collaborato con grandi musicisti che nel corso degli anni gli hanno prestato le proprie band per registrare alcuni dei suoi dischi migliori, o con cui ha diviso i palcoscenici in giro per il mondo. Con uno stile che incorpora elementi rock, soul e blues, ma anche tantissimo reggae, il tutto sempre con la classe del miglior singer songwriter, Garland Jeffreys ha avuto varie fasi nella sua carriera, il periodo di maggior successo sono stati gli anni alla Columbia, tra il 1980 e il 1983, in cui ha realizzato tre dischi formidabili, due in studio, Escape Artist (quello con la E Street Band, ma anche con il grande G.E. Smith alla chitarra), Guts For Love, e in mezzo il Live, Rock’n’Roll Adult, dove è accompagnato dai Rumor di Graham Parker al completo.

Ma anche gli anni settanta ci hanno regalato una serie di album fantastici, a partire da Ghost Writer e One-Eyed Back (per motivi oscuri stroncato dalla critica americana) per arrivare ad American Boy & Girl, il disco del ’79 che è una delle sue vette artistiche più importanti. Come sa chi mi legge non sono un grande cultore del reggae, ma per alcuni artisti faccio un’eccezione, Jeffreys in primis, ma anche la Armatrading, Graham Parker, Joe Jackson, i primissimi Police, dimentico qualcuno sicuramente. Il motivo di questo mio “outing” sarà chiaro tra un attimo. Siamo a fine 1979, Paradise Theater di Boston, una delle culle del rock dell’epoca, Garland è in giro per promuovere American Boy And Girl e la serata viene anche trasmessa dalla WBCN, l’emittente locale radiofonica e oggi proposta a noi posteri sotto forma di un CD di dubbia provenienza, ma indubbia qualità, sia sonora come qualitativa. Il repertorio è differente da quello del pur ottimo Live ufficiale del 1982, e per certi versi forse addirittura migliore, mancano alcuni classici, perché Jeffreys non li aveva ancora scritti (R.O.C.K soprattutto) o nella serata non li esegue, Matador, purtroppo. Ma il resto c’è tutto, corredato da alcune cover fulminanti ed eseguito con la classe del grande performer dal vivo, quale il nostro amico è sempre stato. Tra i pregi della serata anche una touring band di grande compattezza e versatilità, i cui nomi vengono massacrati nelle note di copertina, per il resto interessanti: uno dei chitarristi, Robert Athas, diventa Asis, l’altro, Shane Fontayne, non viene neppure citato, e sono i veri protagonisti, con Garland, della serata, ma anche il bassista Craig Johnson e il batterista Killer Burke (mai sentito, ma vista la bravura, azzardo, potrebbe essere Clem, dei Blondie, o Gary, quello di Hard Rain di Dylan?), creano un vortice ritmico di grande fascino.

A partire dall’iniziale Reggae Rhapsody, dove le due chitarre improvvisano un doppio riff circolare che ricorda quelli dei Television di Marquee Moon, prima di esplodere in un white reggae rock di rara potenza, con la bella voce di Jeffreys e le chitarre arrotate ed “effettate” subito in piena evidenza. Ma il rock non manca mai ai suoi concerti e American Boy & Girl e Rough & Ready sono due schioppettate di rara potenza, poi Garland scherza con il pubblico e con gli ascoltatori della radio, arrivando ad augurare il Buon Natale anche se siamo a fine ottobre, prima di lanciarsi in una sinuosa e reggata (ma rock e reggae convivono sempre) I May Not Be Your Kind, di grande fascino e City Kids, solo voce e chitarra, è da manuale del perfetto cantautore folk. 35 Millimeter Dreams è un altro pezzo rock dal riff accattivante (arte in cui il cantante e compositore di New York è maestro), prima di presentare Mystery Kids, allora inedita e che, sempre scherzando, viene annunciato verrà pubblicata nel 1993, con la band che macina sempre rock alla grande. Ghost Writer è in una versione monstre di oltre 12 minuti, con i due chitarristi, Athas e Fontayne, in vena di improvvisare e pure Wild In The Streets, in quanto a grinta, riff e belle melodie, non scherza per nulla. Pausa e poi tornano per i bis, tanti: Night Of The Living Dead, una fantastica Cool Down Boy, e poi ancora una scatenata Walking The Dog e China, solo voce a cappella, con il pubblico che ascolta in religioso silenzio. Un grande concerto per un grande artista.

P.S. I video non sono di questo concerto, di cui non c’era nulla, ma comunque buona musica dell’epoca

Bruno Conti

70 Anni E Non Sentirli: Un Grande! Garland Jeffreys – Truth Serum

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Garland Jeffreys – Truth Serum – Luna Park Records

Questa estate, all’incirca alla metà di luglio, ho avuto il grande piacere di assistere ad un concerto di Garland Jeffreys, in quel di Pavia, nella piazza principale della città (lo so, non ve ne ho parlato, ma lo faccio ora, incidentalmente, in coincidenza con l’uscita del nuovo album, Truth Serum). Un ottimo concerto: Garland si era esibito anche pochi giorni prima al Buscadero Day, ma nella data di Pavia il tempo a suo disposizione era decisamente superiore e quindi anche la possibilità di sviscerare il suo “magico” repertorio. Garland Jeffreys, come dico nel titolo, ha da poco superato i 70 anni, ma non lo sa, non se ne rende conto, non lo hanno avvisato, un insieme di tutti questi fattori e quindi un suo concerto è un piccolo evento: non ha perso l’abitudine di saltare giù dal palco (diciamo scendere), aggirarsi tra il pubblico con fare birichino, incitarli a cantare, creare alcune gags, anche involontarie.

In quella serata, ad un certo punto, si vede del movimento sul palco, e una signora comincia ad inveire (gentilmente) verso i musicisti della band di Jeffreys, in italiano naturalmente, e questi, non capendo cosa dice questa signora, e pensando ad una pazza, sembrano anche spaventati (in effetti, probabilmente, era un abitante della piazza che si lamentava per il volume della musica, ma erano passate da poco le dieci di sera!), Garland, memore dei suoi trascorsi italiani a Firenze, ai tempi dell’Università, prende in mano la situazione e accompagna, con tatto ma con fermezza, la distinta signora giù del palco, rivolgendosi poi al pubblico e dicendo che in tanti anni di carriera non gli era mai successo nulla del genere e che l’invaditrice ( termine non comune, ma al femminile fa così, non comune anche l’accaduto, peraltro) avrebbe potuto essere sua madre, forse dimenticando, e molti del pubblico non lo sapevano, che anche lui la sua bella settantina di anni ormai l’aveva raggiunta e quindi la “tipa” avrebbe dovuto averne più di 90, di anni, e francamente non mi sembrava. Poi ha ripreso il suo spettacolo, sciorinando con gran classe Wild In The Streets, Matador, R.o.c.k., Mistery Kids, Spanish Town, pezzi del penultimo album King Of In Between, bellissimo (vecchie-glorie-7-garland-jeffreys-the-king-on-in-between.html), cover di Dylan e del suo grande amico Lou Reed e tanti altri brani stupendi.

Nel corso del concerto annuncia ed esegue anche qualche anteprima del nuovo album Truth Serum, in uscita per l’autunno. Ottobre è arrivato e anche l’album, prodotto da Larry Campbell, con lo stesso Campbell e Duke Levine alle chitarre, Steve Jordan alla batteria, Brian Mitchell alle tastiere e Zev Katz al basso. E sapete una cosa, è un gran bel disco, ancora una volta Garland Jeffreys si conferma uno dei migliori autori e cantanti, quindi cantautore, della scena musicale americana, dai tempi dell’esordio nel lontano 1973 con un album omonimo, fiancheggiato dall’ottimo singolo Wild In The Streets e poi nelle decadi successive, la sua discografia, uscita con parsimonia, soprattutto negli ultimi anni passati a crescere la figlia Savannah, raramente ha avuto scadimenti di qualità, anche se le prove migliori, insieme all’eponimo album citato, potrebbero essere Ghost Writer, Escape Artist e l’eccellente live Rock’n’Roll Adult, ma come si fa a dimenticare American Boy & Girl e Guts For Love, quindi tutti in pratica, comunque al link della recensione di The King Of In Between trovate altre informazioni. Bruce Springsteen e David Letterman lo vogliono sui loro palcoscenici e lui non si fa certo pregare, ha detto che ha intenzione di calcare le scene almeno fino ad 80 anni e quindi gli servono nuove canzoni e quelle di Truth Serum sono ottime. Prima di parlarne, per inciso, vi ricordo anche che, a Garland Jeffreys insieme a Robyn Hitchock e al cantante cinese Cui Jian è stato assegnato il Premio Tenco 2013: secondo voi l’ineffabile “Vince Breadcrump” detto anche il Mollicone nazionale di chi avrà parlato nella sua rubrica sul TG1? Si, è proprio quello che state pensando, la Cina è vicina.

Ma veniamo alle canzoni del nuovo album del cantautore di Brooklyn: si apre con la bluesata, à la Jeffreys, title-track Truth Serum, con la slide di Levine a duettare con la solista di Campbell e Brian Mitchell all’armonica, grande partenza. Any Rain è un medium tempo rocker, nella migliore tradizione del suo repertorio, scritta per l’album precedente e conclusa nelle sessions del nuovo disco, grande lavoro ancora di Brian Mitchell, questa volta all’organo, ottimo come sempre Steve Jordan alla batteria e i due solisti pennellano con le loro chitarre, tutta la band nell’insieme è perfetta e la voce di Garland è pimpante come sempre. It’s What I Am è una bellissima ballatona acustica che ricorda il Van Morrison più ispirato o anche il Dylan di Blonde on Blonde, tra folk e soul, una vera delizia aggiunta il lavoro del pianoforte. Dragons To Slay è un “reggae-one” di quelli esagerati, chi legge queste pagine sa che non amo il genere, ma come mi pare di avere detto altre volte faccio una eccezione per Jeffreys, la Armatrading e Joe Jackson, ma non si sappia in giro (Bob Marley aveva detto ai tempi che Garland Jeffreys era il miglior cantante americano di reggae)! Is This The Real World, se non sapessimo chi l’ha scritta, potrebbe essere una canzone, e pure di quelle belle, del songbook del nostro amico Bruce, e non aggiungo altro, anzi…ma no, va bene così! Se fosse un vecchio LP, fine della prima facciata.

La seconda parte inizia con Ship Of Fools, un bel brano di impianto elettroacustico, chitarre elettriche ed acustiche si intrecciano con una fisarmonica suonata da Mitchell, il jolly dei strumentisti presenti nel CD, altra canzone che delizia i nostri padiglioni auricolari. Collide The Generations, scritto con la 17enne figlia Savannah in mente, destinata anche lei ad una carriera artistica, è il pezzo più rock di questa raccolta, con una chitarra tra lo psichedelico e l’hendrixiano nell’abbrivio del brano ed uno svolgimento nello stile del suo amico Lou Reed, gran ritmo e grinta come ai vecchi tempi. Far far away è uno di quei tipici brani in crescendo del repertorio di Jeffreys, parte lenta, con gli strumenti che entrano uno ad uno e poi diventa inarrestabile nelle ondate di melodia che si riversano sull’attonito e felice ascoltatore, ma allora si ancora buona musica in questo mondo? Ebbene sì! Colorblind Love è un funky blues dai ritmi spezzati e in levare, con il drumming agile ed inventivo di Jordan che fa da sfondo alle evoluzioni dei grandi musicisti che suonano in questo disco, con Garland Jeffreys che si lancia brevemente anche nel suo celebre falsetto. E per il finale, un po’ in tono minore, ma è l’unica, di questo Truth Serum, devo dire, ci si sposta ancora su tempi vagamente reggae, ma il ritmo lo detta il banjo(?!?) dell’ospite James Maddock, e Revolution Of The Mind, nonostante il titolo, non resterà negli annali delle migliori canzoni di Garland Jeffreys. Molte altre presenti nel disco però si’, e quindi a buon intenditore poche parole, anzi una: acquistare! Così, brutalmente.

Bruno Conti

Piccoli (Ri)Passi Della Storia Del Rock! Garland Jeffreys In Concerto A Pavia 17 Luglio 2013

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Ultima data del tour italiano di Garland Jeffreys, questa sera, 17 luglio 2013, in Piazza Vittoria a Pavia, concerto gratuito che chiude il breve tour italiano, 4 date, di questo autentico newyorkese, nato a Brooklyn il 3 luglio del 1943, quindi ha appena compiuto 70 anni. Grande amico di Lou Reed, conosciuto all’università di Syracuse nel 1964 e da allora i due sono rimasti grandi amici. In attesa della pubblicazione del nuovo album, finanziato dai fans, che stando al sito di Jeffreys  http://garlandjeffreys.com/ è in dirittura di arrivo, vi ripropongo quanto avevo scritto sul Blog in occasione dell’uscita dell’album The King Of In Between. Nel frattempo, come ha scritto anche sul suo sito “Viva Italia”. Il nostro amico, tra l’altro ha studiato proprio anche nel nostro paese all’Università di Firenze, sempre nei lontani anni ’60, e parla un discreto italiano!

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Garland Jeffreys – The King Of In Between – Luna Park Records

Ma vi sembrava possibile che fosse “scomparso” uno come Garland Jeffreys, anni 67 (le biografie danno come anno di nascita o il 1943 o il 1944, forse perché è nato il 1° gennaio del ’44?), luogo Brooklyn, New York, compagno di scuola (all’università) di Lou Reed, amico personale di Springsteen, nei suoi dischi hanno suonato, tra gli altri: Stan Getz, Dr. John, Sonny Rollins, James Taylor, David Bromberg, Linton Kwesi Johnson, Sly & Robbie, Phoebe Snow e ora, nuovamente, anche il buon Lou! Dicevo, vi sembra possibile che fosse scomparso? E infatti eccolo qua con un nuovo disco dopo quattordici anni di silenzio interrotti solo dalla raccolta I’m Alive pubblicata dalla Universal e qualche best e twofer rilasciato dalla australiana Raven.

E torna in pompa magna con un signor disco (a parte la eventuale reperibilità), uno dei suoi migliori in assoluto, nettamente superiore a quel Wildlife Dictionary del 1997 dove provava a cimentarsi anche con electrodance e trip hop, non con grandi risultati. E questo nonostante Jeffreys sia sempre stato un maestro delle fusioni di più musiche, nei suoi dischi più riusciti (e anche negli altri) hanno sempre convissuto rock, folk, soul e reggae (confesso di non essere un amante del reggae, per usare un eufemismo, ma Garland Jeffreys, con Joan Armatrading e Joe Jackson, è uno dei pochi da cui lo “reggo”). Don’t Call Me Buckwheat del 1991 era il disco dove meglio era riuscito a fondere “modernismo” e rock tradizionale, forse per merito di alcune ottime canzoni e dei testi a sfondo “razziale”, ma i suoi migliori, per il sottoscritto, rimangono quelli del periodo “rock”, l’ottimo Ghost Writer del 1977 e l’uno-due irresistibile di Escape Artist (dove apparivano anche Roy Bittan e Danny Federici) e il grandissimo disco dal vivo Rock’n’Roll Adult con Brinsley Schwarz dei Rumour alla chitarra.

Questo nuovo The King Of In Between (si sarebbe potuto chiamare Streets of New York se non l’avesse già fatto Willie Nile) lo riporta ai fasti del passato: prodotto da Larry Campbell, che ultimamente non sbaglia un colpo, da Tara Nevins agli Hot Tuna, passando per Levon Helm, con Roy Cicala che si occupa della parte tecnica (era l’ingegnere del suono ai Record Plant Studios ai tempi di Lennon e Springsteen), una manciata di ottime canzoni e lo spirito di un ragazzino (dimostra almeno dieci anni meno di quelli che ha), e una figlia di 14 anni (l’età non casualmente coincide con il suo ritiro dalle scene), Savannah, che vuole fare la musicista di professione e duetta proprio ai cori con Lou Reed in The Contortionist.

Coney Island Winter è una partenza fulminante, come ai tempi d’oro, un brano rock in crescendo, con basso funky, la batteria di Steve Jordan, le chitarre di Campbell e Duke Levine, e un tiro musicale che oltre che nel titolo ricorda anche nel suono il miglior Lou Reed e, perché no, anche il miglior Garland Jeffreys, uno dei migliori cantori della città di New York con lo scomparso Willy Deville. I’m Alive era uno dei due brani inediti nella raccolta del 2007, raffinatissimo negli arrangiamenti, tirato nei ritmi rock and soul e con un ritornello facilmente memorabilizzabile, praticamente una canzone perfetta. Streetwise è un funky-rock contaminato da una sezione archi da disco anni ’70 ma non può non piacere nella sua immediatezza e freschezza. La già citata The Contorsionist ha i ritmi cadenzati dei migliori pezzi di Garland con il vocione di Lou Reed che si presta per i coretti simil doo-wop del delizioso ritornello e la chitarra di Larry Campbell che ricama note. All around the world è il primo dei brani in stile reggae ma rivisto nell’ottica newyorkese di Jeffreys, con fiati e cori femminili a impreziosire la struttura sonora.

C’è spazio anche per il Blues con una fantastica ‘til John Lee Hooker Calls Me con la slide di Campbell, una fisarmonica insinuante e un ritmo boogie inesorabile. E di nuovo in Love Is A Not Cliché, quasi atmosferico alla Tom Waits se non fosse per le evidenti differenze tra il vocione di Waits e la voce più malleabile ed acuta di Jeffreys. Rock and Roll Music tiene fede al suo titolo, un brano che oscilla tra rockabilly e blues con grande energia. The Beautiful Truth è un altro brano anomalo, atmosferico, con un sound di chitarra che ricorda le “minisinfonie Stax” di Isaac Hayes mescolate a ritmi reggae e con il falsetto del nostro amico che galleggia sui ritmi spezzati. Roller Coaster Town è proprio reggae, con un filo di ska nei fiati sincopati però con New York sullo sfondo e Junior Marvin dei Wailers a unire passato e presente. In God’s Waiting Room è il pezzo acustico che non ti aspetteresti, solo la voce e una chitarra acustica slide, bellissimo peraltro con la voce che si arrampica improvvisamente verso dei falsetti incredibili.

La “traccia nascosta” sinceramente se la poteva risparmiare, si chiama Rock On, ma di rock non c’è nulla, su un tappeto di batterie elettroniche e synth a go-go cita a casaccio pezzi di vecchi brani e non mi entusiasma per nulla.

Per il resto nulla da eccepire, un signor album. Ora non vi resta altro da fare che trovarlo.

Bruno Conti

Vecchie Glorie 7. Garland Jeffreys – The King Of In Between

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Garland Jeffreys – The King Of In Between – Luna Park Records

Ma vi sembrava possibile che fosse “scomparso” uno come Garland Jeffreys, anni 67 (le biografie danno come anno di nascita o il 1943 o il 1944, forse perché è nato il 1° gennaio del ’44?), luogo Brooklyn, New York, compagno di scuola di Lou Reed, amico personale di Springsteen, nei suoi dischi hanno suonato, tra gli altri, Stan Getz, Dr. John, Sonny Rollins, James Taylor, David Bromberg, Linton Kwesi Johnson, Sly & Robbie, Phoebe Snow e ora, nuovamente, anche il buon Lou)! Dicevo, vi sembra possibile che fosse scomparso? E infatti eccolo qua con un nuovo disco dopo quattordici anni di silenzio interrotti solo dalla raccolta I’m Alive pubblicata dalla Universal e qualche best e twofer rilasciato dalla australiana Raven.

E torna in pompa magna con un signor disco (a parte la eventuale reperibilità), uno dei suoi migliori in assoluto, nettamente superiore a quel Wildlife Dictionary del 1997 dove provava a cimentarsi anche con electrodance e trip hop, non con grandi risultati. E questo nonostante Jeffreys sia sempre stato un maestro delle fusioni di più musiche, nei suoi dischi più riusciti (e anche negli altri) hanno sempre convissuto rock, folk, soul e reggae (confesso di non essere un amante del reggae, per usare un eufemismo, ma Garland Jeffreys, con Joan Armatrading e Joe Jackson, è uno dei pochi da cui lo “reggo”). Don’t Call Me Buckwheat del 1991 era il disco dove meglio era riuscito a fondere “modernismo” e rock tradizionale, forse per merito di alcune ottime canzoni e dei testi a sfondo “razziale”, ma i suoi migliori, per il sottoscritto, rimangono quelli del periodo “rock”, l’ottimo Ghost Writer del 1977 e l’uno-due irresistibile di Escape Artist (dove apparivano anche Roy Bittan e Danny Federici) e il grandissimo disco dal vivo Rock’n’Roll Adult con Brinsley Schwarz dei Rumour alla chitarra.

Questo nuovo The King Of In Between (si sarebbe potuto chiamare Streets of New York se non l’avesse già fatto Willie Nile) lo riporta ai fasti del passato: prodotto da Larry Campbell, che ultimamente non sbaglia un colpo, da Tara Nevins agli Hot Tuna, passando per Levon Helm, con Roy Cicala che si occupa della parte tecnica (era l’ingegnere del suono ai Record Plant Studios ai tempi di Lennon e Springsteen), una manciata di ottime canzoni e lo spirito di un ragazzino (dimostra almeno dieci anni meno di quelli che ha), e una figlia di 14 anni (l’età non casualmente coincide con il suo ritiro dalle scene), Savannah, che vuole fare la musicista di professione e duetta proprio ai cori con Lou Reed in The Contortionist.

Coney Island Winter è una partenza fulminante, come ai tempi d’oro, un brano rock in crescendo, con basso funky, la batteria di Steve Jordan, le chitarre di Campbell e Duke Levine, e un tiro musicale che oltre che nel titolo ricorda anche nel suono il miglior Lou Reed e, perché no, anche il miglior Garland Jeffreys, uno dei migliori cantori della città di New York con lo scomparso Willy Deville. I’m Alive era uno dei due brani inediti nella raccolta del 2007, raffinatissimo negli arrangiamenti, tirato nei ritmi rock and soul e con un ritornello facilmente memorabilizzabile, praticamente una canzone perfetta. Streetwise è un funky-rock contaminato da una sezione archi da disco anni ’70 ma non può non piacere nella sua immediatezza e freschezza. La già citata The Contorsionist ha i ritmi cadenzati dei migliori pezzi di Garland con il vocione di Lou Reed che si presta per i coretti simil doo-wop del delizioso ritornello e la chitarra di Larry Campbell che ricama note. All around the world è il primo dei brani in stile reggae ma rivisto nell’ottica newyorkese di Jeffreys, con fiati e cori femminili a impreziosire la struttura sonora.

C’è spazio anche per il Blues con una fantastica ‘til John Lee Hooker Calls Me con la slide di Campbell, una fisarmonica insinuante e un ritmo boogie inesorabile. E di nuovo in Love Is A Not Cliché, quasi atmosferico alla Tom Waits se non fosse per le evidenti differenze tra il vocione di Waits e la voce più malleabile ed acuta di Jeffreys. Rock and Roll Music tiene fede al suo titolo, un brano che oscilla tra rockabilly e blues con grande energia. The Beautiful Truth è un altro brano anomalo, atmosferico, con un sound di chitarra che ricorda le “minisinfonie Stax” di Isaac Hayes mescolate a ritmi reggae e con il falsetto del nostro amico che galleggia sui ritmi spezzati. Roller Coaster Town è proprio reggae, con un filo di ska nei fiati sincopati però con New York sullo sfondo e Junior Marvin dei Wailers a unire passato e presente. In God’s Waiting Room è il pezzo acustico che non ti aspetteresti, solo la voce e una chitarra acustica slide, bellissimo peraltro con la voce che si arrampica improvvisamente verso dei falsetti incredibili.

La “traccia nascosta” sinceramente se la poteva risparmiare, si chiama Rock On, ma di rock non c’è nulla, su un tappeto di batterie elettroniche e synth a go-go cita a casaccio pezzi di vecchi brani e non mi entusiasma per nulla.

Per il resto nulla da eccepire, un signor album. Ora non vi resta altro da fare che trovarlo.

Bruno Conti