Un Concerto Strepitoso Per Una Band, Almeno In Canada, Leggendaria! Downchild Blues Band – 50th Anniversary: Live At The Toronto Jazz Festival

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Downchild Blues Band – 50th Anniversary: Live At The Toronto Jazz Festival – DMP CD

La Downchild Blues Band  (o semplicemente Downchild come si fanno chiamare da qualche anno) non è forse tra i gruppi più famosi al mondo, ma nel nativo Canada è una piccola leggenda, essendo infatti considerata la prima blues band canadese e citata tra le principali influenze di gente come Blues Brothers, Jeff Healey e Colin James. Fu fondata nel 1969 dai fratelli Donnie e Richard Walsh, e nel corso di cinque decadi ha pubblicato più di trenta album, ò’ultimo https://discoclub.myblog.it/2018/01/01/un-trittico-dal-canada-1-downchild-something-ive-done/ all’insegna di una riuscita miscela di blues, rock e southern soul, una musica nella quale i fiati hanno sempre rivestito la stessa importanza di piano, organo e chitarre, e nel 2019 ha deciso di celebrare i suoi cinquanta anni con un concerto tenutosi il 22 giugno al Toronto Jazz Festival (nella città di casa quindi), show che oggi viene pubblicato su CD. *NDB Però, diciamolo subito, reperibilità molto scarsa dal Canada e prezzo quasi proibitivo, oltre i 30 euro per un singolo CD,

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Ebbene, 50th Anniversary: Live At The Toronto Jazz Festival è un live album strepitoso, nel quale un gruppo in stato di grazia riesce ad entusiasmare con una prestazione decisamente coinvolgente dalla prima all’ultima canzone, e con la ciliegina sulla torta di una serie di ospiti che danno più lustro alla performance. Donnie Walsh, chitarra e armonica, è l’unico membro originale ancora presente all’interno del gruppo (il fratello Richard è passato a miglior vita nel 1999), ma comunque i suoi compagni sono con lui da diverso tempo, alcuni anche da più di trenta anni: Chuck Jackson alla voce solista (e che voce) e armonica, Michael Fonfara al piano ed organo (scomparso pochi giorni fa, l’8 gennaio del 2021), Pat Carey al sassofono, Gary Kendall al basso e Mike Fitzpatrick alla batteria, con l’aggiunta di Peter Jeffrey alla tromba. La serata parte con la swingatissima Can You Hear The Music, un trascinante jump blues con grande uso di fiati e pianoforte ed un ritmo contagioso, con i nostri subito sudati come armadilli: Jackson ha una gran voce ma neanche gli altri scherzano, con una particolare menzione per il sax di Carey. Il mood coinvolgente continua con Understanding & Affection, un pezzo dalle tonalità calde ed un delizioso retrogusto da soul song anni 60, con i fiati ancora protagonisti (una costante in tutto il concerto); il primo ospite è il compatriota David Wilcox, che con la sua slide (ma canta anche) rende irresistibile la saltellante It’s A Matter Of Time, mentre Walsh e soci suonano con un impeto notevole https://www.youtube.com/watch?v=aZ5hGH4nye8 .

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Wilcox resta sul palco per una formidabile ripresa del classico Madison Blues (Elmore James, ma l’ha fatta anche George Thorogood), ritmo sostenuto, chitarre a manetta, piano liquidissimo e via che è uno spettacolo, mentre One In A Million è uno slow blues, quasi una ballata, ma suonato sempre con molta energia e con un sapore southern dato dalla voce “nera” di Jackson e dall’organo di Fonfara. Il grande pianista californiano Gene Taylor (giro Canned Heat, Blasters e Fabulous Thunderbirds) si unisce ai nostri per una torrida I’m Gonna Tell Your Mother di Jimmy McCracklin, ritmo e feeling a volontà (e le dita di Taylor che viaggiano alla grande sulla tastiera), Mississippi Woman, Mississauga Man ospita la brava chitarrista finlandese Erja Lyytinen, una con grinta da vendere anche come vocalist https://www.youtube.com/watch?v=vrJk0hopizo ; cambio di chitarrista: arriva Kenny Neal (ex membro del gruppo) per una strepitosa versione dello slow blues Shotgun Blues, classe e bravura che vanno a braccetto (e sentite i fiati, una goduria).

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Il finale è uno spettacolo nello spettacolo, con la DBB che viene raggiunta da tutti gli ospiti della serata (meno Taylor) ed in più dal grande ex direttore musicale del David Letterman Show Paul Shaffer e da Mr. Elwood Blues himself, ovvero Dan Aykroyd, per tre versioni travolgenti di Soul Man (Sam & Dave, ma anche Blues Brothershttps://www.youtube.com/watch?v=eItGm2uJm40  (versione del 40° annversario), I Got Everything I Need e del classico di Big Joe Turner Flip Flop And Fly: grandissima musica, senza mezzi termini. Ultimo bis con la DBB da sola sul palco per TV Mama, altro evergreen di Turner riletto in maniera sanguigna e con la slide di Walsh in evidenza, degna conclusione di un concerto splendido e, per quanto mi riguarda, da non perdere.

Marco Verdi

L’Avventura “Post-Blasters” Cominciò Così. Phil Alvin – Un”Sung Stories”

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Phil Alvin – Un”Sung Stories” – Big Beat/Ace CD

Nel 1985 i Blasters, grande rock’n’roll band californiana tra le più influenti della decade, pubblicarono il loro ultimo disco, lo splendido Hard Line, all’indomani del quale i fratelli Phil e Dave Alvin presero strade separate. All’epoca si pensò che dei due quello che sarebbe andato incontro ad una luminosa carriera solista fosse Phil, frontman e voce solista della band, dimenticando che le canzoni venivano scritte da Dave: il risultato è che oggi Dave è giustamente considerato uno dei migliori musicisti americani in circolazione, e con una discografia di tutto rispetto, mentre Phil ha avuto diversi problemi ad affermarsi al di fuori del suo gruppo originario. Nel 1986 fu però proprio Phil ad esordire per primo (Dave avrebbe risposto l’anno dopo con Romeo’s Escape), con l’album Un”Sung Stories” (scritto proprio così), un lavoro di buon livello che però non mancò di spiazzare gli ascoltatori, in quanto era il classico caso di artista che non dava al pubblico ciò che il pubblico stesso voleva. Tutti infatti si aspettavano da Phil un vero rock’n’roll record, sulla falsariga di quelli pubblicati con i Blasters, ma il nostro invece rispose con un lavoro più complesso ed articolato, nel quale rivisitava brani (spesso oscuri) degli anni venti e trenta, esibendosi o in perfetta solitudine, da vero bluesman, o a capo di una big band.

 

Un disco tra blues e jazz quindi, con dieci pezzi che poi erano tutte cover di vecchi brani di gente come Cab Calloway, Bing Crosby, Hi Henry Brown, William Bunch ed Alec Johnson: l’unico brano “recente” era una rivisitazione di Daddy Rollin’ Stone di Otis Blackwell. Alvin, nei brani con la big band, scelse poi di farsi accompagnare da gruppi all’apparenza lontanissimi dal mondo Blasters, cioè la Dirty Dozen Brass Band in un pezzo ed in altri tre addirittura da quel pazzo scatenato di Sun Ra e la sua Arkestra, dando quindi a quelle canzoni un deciso sapore jazz. Com’era prevedibile il disco non ebbe un grande successo, e la Slash non lo pubblicò neppure in CD (all’epoca agli albori): oggi la Big Beat mette fine a questa mancanza di più di trent’anni e rende finalmente disponibile Un”Sung Stories” anche come supporto digitale (finora esisteva solo una rara e costosa edizione giapponese), con una rimasterizzazione degna di nota e nuove esaurienti liner notes, anche se senza bonus tracks. Ed è un piacere riscoprire (o scoprire, se come il sottoscritto non possedete il vinile originale) questo lavoro, che vede un Phil Alvin in ottima forma divertirsi con un tipo di musica che in America a quel tempo non era popolare per nulla. L’unico brano con la Dirty Dozen è posto in apertura: Someone Stole Gabriel’s Horn è jazzata e swingatissima, un muro del suono che si adatta benissimo ed in maniera credibile alla vocalità di Phil, con un pregevole assolo di sax ad opera di Lee Allen.

Poi ci sono i tre pezzi con Sun Ra (il cui pianoforte è deciso protagonista) e la sua Arkestra di 14 elementi, a partire dallo splendido medley di brani di Calloway The Ballad Of Smokey Joe (che comprende Minnie The Moocher, Kicking The Gong Around e The Ghost Of Smokey Joe): Alvin canta benissimo ed il gruppo lo accompagna con classe sopraffina, una goduria in poche parole. Le altre due canzoni con Herman Blount (vero nome di Sun Ra) e compagni sono The Old Man Of The Mountain (di nuovo Calloway), vibrante ed ancora ricca di swing, ed una lenta e drammatica rilettura di Brother Can You Spare A Dime?, noto brano risalente al periodo della Grande Depressione. C’è poi l’Alvin solitario, proprio come un bluesman degli anni trenta (ma la chitarra con cui si accompagna è elettrica), che suona tre blues cristallini (Next Week Sometime, in cui anche per come canta mi ricorda David Bromberg, Titanic Blues e Gangster’s Blues) e la folkeggiante e bellissima Collins Cave (per la quale Woody Guthrie si è sicuramente ispirato per scrivere la sua Pretty Boy Floyd, anche se si parla di un Floyd diverso), con in aggiunta il violino di Richard Greene.

Completano il quadro il coinvolgente gospel Death In The Morning, con David Carroll (che negli anni novanta si unirà ai riformati Blasters) alla batteria e soprattutto con l’eccellente contributo vocale dei Jubilee Train Singers, e la già citata Daddy Rollin’ Stone, sempre con Carroll, il piano dell’ex Blasters Gene Taylor e le chitarre di Mike Roach e Gary Masi, un pezzo cadenzato e ficcante, unico caso in cui Phil si avvicina parecchio al suono della sua vecchia band. Il seguito della carriera di Phil sarà piuttosto avaro di soddisfazioni, con l’aggiunta nel nuovo millennio di gravi problemi di salute che verranno fortunatamente superati: un solo altro disco da solista (County Fair 2000 del 1994, altro album che andrebbe rispolverato), varie reunion coi Blasters sia con che senza Dave Alvin, e due splendidi album recenti condivisi a metà con il più talentuoso fratello. Un”Sung Stories” non sarà un capolavoro ma vale sicuramente l’acquisto: nel 1986 la riscoperta delle radici e dei brani dell’anteguerra era di là da venire, e quindi possiamo anche dire che Phil Alvin era avanti coi tempi.

Marco Verdi