Un Bel Disco Di Ispirazione Letteraria. David Starr – Beauty & Ruin

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David Starr – Beauty & Ruin – Cedaredge CD

Pur avendo esordito nel 2003 e vantando una discografia di quasi una decina di unità, il nome di David Starr è abbastanza sconosciuto presso il pubblico. Originario dell’Arkansas ma da anni spostatosi in Colorado, Starr è un cantautore classico, di quelli che si ispirano alla scuola californiana degli anni settanta (Jackson Browne, Dan Fogelberg, ecc.) costruendo le sue canzoni attorno alla voce ed alla chitarra, e rivestendo il tutto con pochi ma selezionati strumenti: una steel in sottofondo, talvolta un organo, una sezione ritmica mai invadente, in certi casi un violino. Per il suo nuovo lavoro Beauty & Ruin David ha scelto di farsi produrre da John Oates, che dopo i fasti del duo Hall & Oates si è reinventato come artista roots-oriented (ottimo il suo album Arkansas del 2018 https://discoclub.myblog.it/2018/02/13/chiamatelo-pure-mississippi-john-oates-john-oates-arkansas/ ), ed i due hanno selezionato una serie di autori noti e meno noti, tra i quali Jim Lauderdale, il duo formato da Doug e Telisha Williams (più conosciuti come Wild Ponies) ed Oates stesso, dando ad ognuno dei quali una copia del libro Of What Was, Nothing Is Left, opera del 1972 del noto autore Fred Starr (nonno di David), e chiedendo ad ognuno di loro di scrivere un testo ad esso ispirato al quale poi lui e John avrebbero aggiunto la musica.

Il risultato è appunto Beauty & Ruin, un album di ballate intense e profonde suonato da un manipolo di gente molto nota tra cui Glenn Worf, Dan Dugmore e Greg Morrow: musicisti che solitamente troviamo in dischi country, anche se qui il country è solo un tramite (e neanche sempre) per dare un suono ai brani di Starr, che come dicevo poc’anzi derivano direttamente dalla lezione dei cantautori classici dei seventies. Laura è una gentile ballata acustica, profonda ed intensa, con David che canta con voce limpida: un brano da vero songwriter, con strumentazione parca ma dosata al punto giusto e la steel di Dugmore che si staglia sullo sfondo https://www.youtube.com/watch?v=pvk2p81XXGk . Bella anche la title track, un pezzo tenue suonato in punta di dita che rimanda allo stile pacato di James Taylor, anche se qui l’accompagnamento è più “rootsy”; Rise Up Again è ariosa e tersa, un brano che sembra uscito proprio da qualche disco degli anni settanta, mentre Bury The Young ha un delicato sapore western ed è dotata di un motivo profondamente evocativo ed emozionante, una gran bella canzone. Il quinto brano si intitola proprio come il libro di nonno Fred, Of What Was, Nothing Is Left, ed è un pezzo attendista che si sviluppa con lentezza intorno alle chitarre, fino al refrain in cui il suono si fa più corposo: David si conferma un autore coi fiocchi, brani come questo non si scrivono per caso.

Cracks Of Time è soffusa e raffinata, con un arrangiamento che valorizza la melodia ed un bel gioco di percussioni, Road To Jubilee (il brano di Lauderdale) ha una strumentazione avvolgente con le chitarre e l’organo che creano un tutt’uno col motivo centrale https://www.youtube.com/watch?v=6RKBZKhFLRA , mentre con My Mother’s Shame torniamo alle atmosfere interiori, e non manca una certa tensione di fondo (non è un brano rock, ma è quello che si avvicina di più) https://www.youtube.com/watch?v=L_31JXbnNIw . Il CD prosegue senza sbavature: Fly By Night ha una bella chitarra che accompagna la melodia solare ed è uno dei brani più belli ed immediati, con un suono vagamente jingle-jangle; chiusura con Laurel Creek, deliziosa ballata dal sapore country, e con I Don’t Think I’ll Stay Here, canzone distesa ed orecchiabile che mette il sigillo ad un bel disco di cantautorato d’alta classe.

Marco Verdi

Vende Tanto, Ma Ci Sa Fare! Tracy Lawrence – Made In America

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Tracy Lawrence – Made In America – LMG CD

Tracy Lawrence, texano trapiantato a Nashville, è un countryman tra i più popolari in USA, grazie anche ad una lunga carriera che si sta avvicinando ai trent’anni. Infatti il suo esordio risale all’ormai lontano 1991 (Sticks And Stones) e da allora ha pubblicato una quindicina di album che in molti casi sono entrati nella Top Five country, il tutto senza rinunciare alla qualità. Sì perché Lawrence fa del vero country, elettrico e dal piglio spesso rockeggiante, retaggio indubbio delle sue origini texane: certo, il suono nei suoi brani è curato nei minimi dettagli per risultare radio-friendly, ma almeno usa strumenti veri e non è un fantoccio come altri suoi colleghi, ed in più è dotato anche di una buona capacità di scrittura. Nessuno dei suoi album è da considerarsi un capolavoro, ma di sicuro non è uno che fa rimpiangere i soldi spesi: anche la sua ultima fatica, Made In America, è un buon disco di country moderno, elettrico al punto giusto e suonato da veri professionisti come il bassista Glenn Worf, i tastieristi Mike Rojas e Jeff Roach ed i chitarristi James Mitchell e Brent Rowan.

Vero country quindi, forse non indispensabile, ma una boccata d’aria fresca rispetto a certe porcherie che escono mensilmente da Nashville. La title track, che apre l’album, non pretende di inventare niente ma è un ottimo country-rock elettrico e solare, con chitarre e steel in evidenza e ritmo alto: un pezzo buono sia per le radio che per gli estimatori del genere. Forgive Yourself è anche meglio, un godibilissimo e cadenzato honky-tonk che profuma di Texas lontano un miglio, bella voce ed ottimi interventi di piano e steel; non male neanche Running Out Of People To Blame, country ballad dal ritmo comunque sostenuto e dal refrain accattivante ed immediato, mentre When The Cowboy’s Gone è puro country dai suoni autentici e puliti ed un’atmosfera ancora texana al 100%; la lenta Nothin’ Burns Like You ha sempre i suoni giusti ma come canzone è un gradino sotto le precedenti.

First Step To Leaving è invece una spedita country tune bucolica con mandolino e violino in risalto, e più di un rimando al suono degli anni settanta. La saltellante It Ain’t You è quasi bluegrass, con un ritmo coinvolgente e risulta tra le più riuscite del CD, e si contrappone all’atmosfera intimista di Givin’ Momma Reasons To Pray, una ballatona di notevole spessore ed indubbio pathos (non per niente è scritta da Chris Stapleton), davvero bella. La guizzante e gradevole Working On My Willie , con l’ombra di Johnny Cash, e l’elettrica e grintosa Chicken Wire, decisamente più rock che country, precedono le conclusive Just The South Coming Out e Stay Back A Hundred Feet, altri due  pezzi maschi e chitarristici sostenuti da un ritmo importante.

Non sarà un genio Tracy Lawrence, ma è sicuramente meglio di tanta robaccia che gira a Nashville oggigiorno, e poi la sua musica ha i cromosomi del vero country.

Marco Verdi

Giù Lo Stetson Di Fronte A “The King Of Country”! George Strait – Honky Tonk Time Machine

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George Strait – Honky Tonk Time Machine – MCA Nashville/UMG CD

Non è facile recensire il nuovo lavoro di un artista che viene considerato quasi all’unanimità un mito vivente del genere musicale di sua competenza: sto parlando di George Strait, uno dei capisaldi mondiali della musica country, che a 66 anni di età ha ancora voglia di fare musica. George, musicalmente parlando erede diretto di Conway Twitty e George Jones, nella sua carriera ha infranto ogni tipo di primato, arrivando in cima alle classifiche 22 volte con gli album e ben 45 con i singoli (record assoluto, non solo country), e riuscendo a vendere più di cento milioni di album dal 1981 (anno del suo esordio): cifre impressionanti, ed il tutto senza scendere più di tanto a compromessi con sonorità pop e easy listening Da buon texano infatti, George ha continuato a fare vera musica country per non essendo mai stato un integralista alla Dwight Yoakam, ma non ha mai nemmeno venduto l’anima al diavolo come ha fatto ad esempio Kenny Rogers: certo, per avere così tanto successo un occhio alle sonorità radiofoniche lo ha sovente buttato, ma sempre con molta misura e senza perdere d’occhio la vera essenza della country music.

E Honky Tonk Time Machine, il nuovo album di George (trentesimo in studio) prosegue il discorso avviato 38 anni fa: puro country classico di matrice texana, con il giusto bilanciamento tra ballate e brani più mossi, una produzione super-professionale (Chuck Ainlay, uno che ha lavorato a lungo con Mark Knopfler, ma anche con Emmylou Harris, le Pistol Annies, Marty Stuart e Mary Chapin Carpenter) ed un manipolo di sessionmen che danno letteralmente del tu agli strumenti, con veri e propri “Nashville Cats” del calibro di Glenn Worf, Paul Franklin, Stuart Duncan, Greg Morrow e Mac McAnally. Il CD inizia con Every Little Honky Tonk Bar, che mantiene ciò che promette il titolo, un honky-tonk ritmato, terso e suonato alla grande, con melodia e refrain coinvolgenti e Strait che mostra di avere ancora una bella voce, chiara, limpida e decisamente giovanile. Two More Wishes (scritta da Jim Lauderdale) è un delizioso pezzo dal sapore anni sessanta e con un sentore di Messico, il tipo di brani che hanno fatto la fortuna dei Mavericks; Some Nights è una ballata dal suono sempre elettrico senza la benché minima deriva pop ed un ritornello evocativo, mentre God And Country Music è uno slow intimo e con un bel testo, punteggiato da steel e piano e con il supporto vocale del nipote di George, Harvey Strait, di appena sei anni!

Blue Water, country ballad limpida e solare, è eseguita con classe e misura, Sometimes Love è un lentone di quelli da suonare al crepuscolo quando i cavalli sono stanchi ed i cowboy si accampano per la notte, un brano che contrasta con la bella Codigo, frizzante honky-tonk texano al 100%, al quale il violino dona un tono swingato e la fisarmonica fornisce il tocco mexican. Old Violin è una cover di Johnny Paycheck, altro pezzo lento e toccante dal bel motivo centrale, cantato al solito con voce sicura; Take Me Away è un rockin’ country chitarristico e coinvolgente, tra le canzoni più immediate del CD, mentre The Weight Of The Badge riporta l’album dal lato delle ballate, un pezzo intenso e gentile allo stesso tempo. La trascinante title track, puro rock’n’roll with a country touch, e la soffusa What Goes Up, portano al gran finale del disco: Sing One With Willie, dove Willie è proprio Willie Nelson, che partecipa sia in veste di co-autore che di cantante, per una bella slow song di matrice texana in cui i due celebrano con orgoglio il fatto che, dopo aver duettato con mezzo mondo, finalmente sono riusciti ad incidere una canzone insieme. Altro bel disco, Mr. Strait.

Marco Verdi

Lo Avevo Quasi Dato Per Disperso! Kevin Welch – Dust Devil

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Kevin Welch – Dust Devil – Dead Reckoning CD

L’ultima volta che Kevin Welch aveva pubblicato un disco (A Patch Of Blue Sky, 2010), il sottoscritto non collaborava ancora a questo blog. Eppure c’era stato un momento all’inizio degli anni novanta che il musicista californiano sembrava una delle “next big things” del cantautorato americano: l’omonimo esordio Kevin Welch (1990) era già molto bello, anche se ancora decisamente country, ma il seguente Western Beat era stato per chi scrive uno dei dischi più belli del 1992, uno splendido album di puro rockin’ country a stelle e strisce, in cui Joe Ely incontrava idealmente John Prine. Life Down Here On Earth (1995) era ancora un lavoro di grande livello, ma i due seguenti, Beneath My Wheels (1999) e Millionaire (2001), pur validi, erano qualche gradino sotto; la scorsa decade Kevin l’ha poi dedicata alla collaborazione con Kieran Kane (e Fats Kaplin), due album di studio ed uno dal vivo, ed è tornato appunto nel 2010 con il già citato A Patch Of Blue Sky, un passo avanti rispetto a Millionaire.

Otto anni di silenzio assoluto, ed ora finalmente Welch ritorna tra noi con Dust Devil (uscito lo scorso Ottobre, ma piuttosto difficile da trovare), un album di puro cantautorato in cui non solo il nostro dimostra di non aver perso il tocco, ma addirittura ci consegna il suo disco migliore da Life Down Here On Earth in avanti. Persona gentile e modesta (ve lo posso confermare dato che ho avuto la fortuna di viaggiarci a fianco durante un volo Milano-Atlanta proprio nel 2010, io per lavoro e lui tornava a casa da una breve tournée italiana: cortese, disponibilissimo, zero atteggiamenti da star, perfino onorato e stupito del fatto che lo avessi riconosciuto), Kevin è uno che non ha mai voluto fare il salto quando avrebbe anche potuto, ma ha scelto di fare la sua musica con i suoi amici, nel modo più rilassato possibile, senza pressioni. E, come dicevo, in Dust Devil, di ottima musica ce n’è a iosa: otto brani originali e due cover, Welch ispiratissimo ed una backing band davvero da leccarsi i baffi, che comprende il già citato Fats Kaplin al mandolino, steel, violino e banjo, Glenn Worf al basso, Harry Stinson alla batteria, il grande Matt Rollings al piano ed organo ed il chitarrista Kenny Vaughan, leader dei Fabulous Superlatives di Marty Stuart, oltre ai backing vocals di Eliza Gilkyson e dei figli di Kevin, Dustin e Savannah Welch (quest’ultima di professione attrice e ragazza bellissima, cercate le sue foto su Google e ne converrete con me).

La cadenzata Blue Lonesome apre bene il CD, un brano suadente e caratterizzato da un insistente riff di mandolino ed un ritmo crescente, con gli strumenti che a poco a poco si inseriscono fino a dare al pezzo un suono pieno e corposo (c’è anche un sax), il tutto per sei minuti di durata. Just Because It Was A Dream è una bellissima e toccante ballata dal sapore anni sessanta, leggermente country e cantata con grande intensità da Kevin, The Girl In The Seashell è una struggente slow song pianistica dalla melodia deliziosa, suonata in punta di dita e con un languido violino che sa d’Irlanda, mentre High Heeled Shoes è la cover di un vecchissimo brano del Kingston Trio, ripreso con uno squisito arrangiamento dixieland, con tanto di clarinetto e batteria spazzolata: grande classe. Splendida Brother John, una rock song elettrica dal ritmo quasi marziale, un motivo evocativo ed emozionante ed un tappeto strumentale dominato da chitarre (ottimo l’assolo di Vaughan) e fiati; Dandelion Girl è una ballatona che Kevin canta con il consueto approccio pacato, mentre intorno a lui il gruppo cuce un vestito sonoro perfetto, con la batteria in levare e la solita bella chitarra. Anche True Morning è tenue e limpida, una country ballad dal motivo molto diretto, cantato sempre con voce espressiva ed un delizioso sapore d’altri tempi, mentre Sweet Allis Chalmers è la rilettura di un pezzo dei Country Gazette, musicalmente spoglia ma dall’indubbio pathos, con il piano di Rollings che guida la melodia. Siamo quasi alla fine, il tempo per l’avvolgente A Flower, intenso talkin’ di stampo western, e per la folkeggiante title track (con un bell’intervento di corno francese, molto The Band), che chiude positivamente un disco pieno di belle canzoni.

Kevin Welch è finalmente tornato tra noi, e Dust Devil merita ampiamente lo sforzo per accaparrarselo.

Marco Verdi