Il Texano Stavolta Ha Fatto Fiasco! Granger Smith – Country Things

granger smith country things

Granger Smith – Country Things – Wheelhouse/BMG CD

E’ già da qualche anno che seguo il cammino di Granger Smith, countryman texano di Dallas autore dall’inizio del nuovo millennio di una manciata di discreti album: niente di particolarmente innovativo, ma una musica di buona qualità caratterizzata da una valida scrittura e da un approccio sufficientemente elettrico, con in più una giusta dose di umorismo che lo ha portato a crearsi un alter ego, tale Earl Dibbles Jr., che è un po’ la parodia del cowboy “redneck” reazionario. Da qualche anno Smith ha iniziato anche ad assaporare un certo successo (i suoi ultimi due lavori sono entrati nella Top Three country), e questo lo ha portato a prendere la via di Nashville, non solo fisicamente ma anche come suono https://discoclub.myblog.it/2018/02/06/country-texano-buona-musica-non-sempre-granger-smith-when-the-good-guys-win/ .

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Country Things è il suo nuovo album, un lavoro lungo e, almeno sulla carta, ambizioso, ben diciotto canzoni per quasi un’ora di durata, con uno stuolo interminabile di sessionmen al suo servizio e ben sette produttori diversi. Un’operazione in grande stile quindi, peccato che però il risultato finale si allontani abbastanza dal vero country che piace a noi, e si posizioni in quella fascia di mercato rivolta all’americano medio che si accontenta di un pop annacquato che di country ha molto poco. Il suono è moderno e fin troppo ricercato quando non eccessivamente prodotto, ed anche i testi sono piuttosto stereotipati (famiglia, buoni sentimenti, Dio, il baseball, allegre bevute di birra ed un Messico da cartolina in Mexico): non siamo ai livelli delle schifezze di uno come Keith Urban solo perché qualche canzone piacevole c’è, ma siamo comunque di fronte al classico disco che, una volta ultimato l’ascolto, non ti lascia nulla.

photo jeremy cowart

photo jeremy cowart

La title track è una country song pura ed abbastanza riuscita, bella voce e ritmo spedito https://www.youtube.com/watch?v=PamhiCVQeJE , Where I Get It From e Buy The Boy A Baseball sono orecchiabili e ben strutturate, ma brani come Hate You Like A Love You, I Kill Spiders, That’s What Love Looks Like e 6 String Stories https://www.youtube.com/watch?v=q2bSu04fszQ  sono decisamente pop, ed anche il finto southern Chevys, Hemis, Yotas & Fords non è il massimo https://www.youtube.com/watch?v=4X1EqzwZqqo . Perfino i cinque brani a nome Earl Dibbles Jr., che solitamente sono i più diretti e “texani”, qui sono altalenanti: se la robusta Country & Ya Know It ha dalla sua un refrain contagioso https://www.youtube.com/watch?v=qafB86EEfj0 , Workaholic è proprio brutta https://www.youtube.com/watch?v=9124xd6Rw1o  e la dura Diesel è tagliata con l’accetta. Peccato: fino ad oggi il nome di Granger Smith era sinonimo di musica country equilibrata e piacevole, ma in Country Things c’è davvero poco da salvare.

Marco Verdi

Country Texano = Buona Musica? Non Sempre… Granger Smith – When The Good Guys Win

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Granger Smith – When The Good Guys Win – Wheelhouse CD

Granger Smith, countryman texano di Dallas, pur avendo solo 38 anni è già attivo, discograficamente parlando, da quando ne aveva 19. La sua gavetta è stata piuttosto lunga, fatta di ben sei album autodistribuiti, ma poi è stato notato dal produttore Frank Rogers (l’uomo dietro a Brad Paisley), il quale lo ha preso sotto la sua ala protettiva contribuendo ad aumentare notevolmente la sua popolarità ed anche le sue vendite. Come però spesso succede, soprattutto nel mondo di Nashville, l’incremento della fama è coinciso con un progressivo decremento della qualità della musica proposta: se l’EP 4×4 del 2015 ed il suo album dello scorso anno, Remington, riuscivano ancora a barcamenarsi abbastanza bene tra una musica country di buon piglio elettrico e sonorità adatte ai passaggi radiofonici, con quest’ultimo When The Good Guys Win sembra che anche Granger abbia imboccato definitivamente la strada delle canzoni da classifica. Il disco non è un totale disastro, anzi inizia anche discretamente (pur senza far gridare al miracolo), ma brano dopo brano la proposta del nostro diventa sempre più banale e prevedibile, senza particolari guizzi, ed in più con un inutile ricorso a sonorità fasulle.

Non credo che Smith abbia nelle corde un grande disco, ma un prodotto di buon livello sarebbe anche in grado di metterlo a punto, dato che la voce non gli manca e nemmeno la capacità di scrivere o di interpretare a dovere ciò che gli viene messo a disposizione: però in questo album, pur impeccabile dal punto di vista formale (neppure una virgola fuori posto), manca la scintilla, o quel qualcosa che lo faccia elevare dalla massa di lavori che suonano tutti allo stesso modo (e ci sono pure 14 canzoni, quindi nemmeno poche). When The Good Guys Win non parte neanche male: Gimme Something è una fluida ballata elettrica, con un ritornello molto orecchiabile ed un suono calibrato al punto giusto, ma in grado di piacere anche a chi non ama il country da classifica. Stesso discorso per la cadenzata You’re In It, un rockin’ country chitarristico dove nulla è lasciato al caso, ma nonostante tutto il brano risulta piacevole ed anche coinvolgente, mentre Raise Up Your Glass è uno slow dall’atmosfera rarefatta ma con la strumentazione giusta, dato che le chitarre e la sezione ritmica sono comunque in primo piano.

Happens Like That è il primo singolo, e rispetto alle precedenti qualcosa inizia a scricchiolare, essendo fin troppo tendente al pop; meglio la tonica Still Holds Up, sempre elettrica ma più spostata sul versante country, mentre la title track tiene un piede da tutte e due le parti e scivola via abbastanza anonima. Da questo punto in poi il disco perde mordente e, per chi scrive, interesse, tra pezzi nei quali l’anima country di Granger tenta di prendere il sopravvento senza molto successo ed altri fin troppo normali, senza particolari doti, e con in più una esagerata predominanza di ballate e qualche suono sintetizzato in eccesso, come nella quasi danzereccia Never Too Old, che ci sta come i cavoli a merenda su un disco country, o l’ultra-radiofonica Reppin’ My Roots, o ancora la pasticciata Don’t Tread On Me (nella quale Granger assume i panni di Earl Dibbles Jr., il suo alter ego redneck-parodistico già incontrato sui dischi precedenti), a metà tra musica da ballo e southern rock di grana grossa. Si salva il finale con il discreto slow acustico Home Cooked Meal, ma è un po’ poco per far entrare questo disco nella wish list di chi ama il vero country. Per la serie: non tutti i texani riescono col buco.

Marco Verdi