Grande Rock-Blues Tra California e Texas Per Un Trio Italo-Anglo-Americano! Supersonic Blues Machine – Road Chronicles: Live!

supersonic blues machine road chronicles live

Supersonic Blues Machine – Road Chronicles: Live! – Provogue/Mascot CD

Primo album dal vivo per i Supersonic Blues Machine, power trio formatosi nel 2015 a Los Angeles ma solo per un terzo americano (il ben noto e poderoso batterista Kenny Aronoff, il miglior rock drummer sulla terra insieme a Max Weinberg), in quanto gli altri due membri sono l’italianissimo bassista Fabrizio Grossi ed il chitarrista e cantante inglese Kris Barras (che ha sostituito nel Gennaio del 2018 il texano Lance Lopez). I due dischi di studio dei SBM, West Of Flushing, South Of Frisco e Californisoul https://discoclub.myblog.it/2017/11/28/anche-loro-sulle-strade-della-california-rock-supersonic-blues-machine-californisoul/ , non avevano mancato di attirare l’attenzione della critica internazionale e dei fans della musica rock-blues più sanguigna, grazie anche alla serie impressionante di ospiti che vi partecipavano (Billy Gibbons, Walter Trout, Warren Haynes, Eric Gales, Robben Ford, Chris Duarte e Steve Lukather) da loro conosciuti, oltre che per le molteplici collaborazioni di Aronoff, grazie all’amicizia di Grossi con Gibbons, che ha aiutato l’italiano ad entrare nel giro che conta.

Ora i nostri pubblicano questo Road Chronicles: Live!, resoconto dell’ultimo concerto del tour europeo dello scorso anno, tenutosi il 20 Luglio a Brugnera, in provincia di Pordenone (la hometown di Grossi). Ci troviamo di fronte ad un disco dal vivo di grande valore, che testimonia la bravura dei tre sul palco (la formazione è completata da Serge Simic alla seconda chitarra, Alex Alessandroni alle tastiere e dal supporto vocale di Andrea Grossi, moglie di Fabrizio, e Francis Benitez): rock-blues di notevole potenza, con le chitarre sempre a manetta ed una sezione ritmica schiacciasassi (e d’altronde Aronoff non lo scopriamo oggi), il tutto condito dalla voce arrochita di Barras, una via di mezzo tra Haynes e Mellencamp. Già così il disco sarebbe da consigliare, anche perché oltre alla potenza ci sono anche le canzoni che non sono affatto male, ma la ciliegina sulla torta è la presenza proprio di Gibbons nei sei pezzi finali, e senza nulla togliere a Grossi e compagni da lì in poi la temperatura sale di brutto. Dopo una breva introduzione registrata parte I Am Done Missing You, che inizia con il tipico drumming travolgente di Aronoff e poi vede entrare la chitarra di Barras ed il resto della band per un solido rock-blues di matrice sudista, con cori femminili che donano un retrogusto soul. I Ain’t Fallin’ Again è una rock song potente e granitica che dimostra la solidità dei nostri, con influenze che vanno dai Cream a Jimi Hendrix, mentre Remedy è una ballatona sempre decisamente elettrica con chitarre in tiro, una melodia fluida e distesa ed un ritornello corale ancora molto southern (facendo le debite proporzioni, siamo dalle parti della Tedeschi Trucks Band).

Can’t Take It No More è uno slow blues con organo e chitarra solista in grande spolvero e solito refrain corale: la SBS ha dei numeri e sembra americana al 100%, e non solo per un terzo; Watchagonnado è un funk-rock decisamente annerito e coinvolgente, con un  refrain perfetto per il singalong, uno dei pezzi più convincenti della serata, e precede la possente Elevate, un rockaccio diretto come un macigno dai toni quasi hard, ma sempre con elementi blues nel dna (chi ha detto Gov’t Mule?). Chitarre taglienti anche in Bad Boys, ancora tra rock e funky, mentre la lunga Let It Be (i Beatles non c’entrano) è nuovamente un ficcante blues con robuste iniezioni di rock, ed ottime parti chitarristiche stavolta ispirate da un maestro come Stevie Ray Vaughan. Ed ecco iniziare il concerto nel concerto, con Billy Gibbons che sale sul palco ed entusiasma subito il pubblico con una tonante versione della leggendaria La Grange, seguita dalla travolgente Broken Heart, una rock’n’roll song dal riff assassino che ricorda gli ZZ Top più diretti (e chi se no?), ed una vorticosa rilettura del classico di Elmore James Dust My Broom, strepitosa e coinvolgente https://www.youtube.com/watch?v=KhalRIkRoFE : tre canzoni e Billy si è già preso la scena. Il barbuto axeman resta on stage anche per i tre pezzi finali, la roboante Running Whiskey, con Aronoff che picchia come un ossesso, una tostissima interpretazione dell’evergreen di Muddy Waters Got My Mojo Working, con la band che va come un treno (ed un grande assolo di piano), ed il saltellante rock-blues Going Down, degna conclusione di una serata musicalmente torrida.

I loro due album di studio erano più che buoni, ma è sul palco che i Supersonic Blues Machine danno il loro meglio: garantisce Billy F. Gibbons.

Marco Verdi

In Studio O Dal Vivo, Non Ne Sbaglia Uno. Tommy Castro And The Painkillers – Killin’ It Live

tommy castro killin' it live

Tommy Castro And The Painkillers – Killin’ It Live – Alligator/Ird

Tommy Castro viene da San Jose, California, dove è nato nel 1955, ma è sempre in giro per gli Stati Uniti (e ogni tanto anche in Europa) a proporre la propria musica dal vivo, anche se nella sua carriera solista iniziata negli anni ’90 (prima suonava con i Dynatones), questo Killin’ It è già il suo terzo disco dal vivo. Il quarto CD registrato con i Painkillers, in una discografia che conta su una quindicina di album, più un paio di EP: da alcuni anni si è accasato con la Alligator, etichetta che ormai da un po’ di anni non sbaglia un disco, e anche questo CD non fa eccezione. Se amate del blues robusto, a forte componente rock, con elementi soul  e southern, non vi potete esimere, anche questa nuova prova di Castro centra l’obiettivo. Registrato nel tour del 2018 Tommy ha pescato da registrazioni effettuate con il suo quartetto tra New York, Michigan, California e in Texas, al leggendario Antone’s: niente ospiti per l’occasione,  solo il bassista Randy McDonald, il batterista Bowen Brown e il tastierista Michael Emerson, che sono diventati uno delle formazioni più gagliarde in circolazione. La scelta del repertorio spazia un po’ in tutta la sua produzione, con due cover, Leaving Trunk di Sleepy John Estes, cavallo di battaglia di Taj Mahal, ma suonata spesso anche da Derek Trucks e Gov’t Mule, nonché Them Changes di Buddy Miles, il celebre brano presente anche nel Live con Santana ed estratto da Stompin’ Ground  l’ultimo album del nostro amico https://discoclub.myblog.it/2017/10/09/delaney-bonnie-e-pure-eric-clapton-avrebbero-approvato-tommy-castro-the-painkillers-stompin-ground/ .

Quindi niente fiati questa volta, ma l’impressione da blues and soul revue è tipica sempre nelle produzioni di Tommy Castro, fin dall’annuncio iniziale “Party Time, It’s Saturday Night Everybody”, l’atmosfera è subito gioiosa e spumeggiante, con una Make It Back To Memphis che sta giusto a metà strada tra il sound della J. Geils Band (anche senza l’armonica di Magic Dick) e il Texas sound di un pimpante Delbert McClinton, grazie ad un ritmo ondeggiante, alla bellissima voce di Castro e al pianino debordante di Emerson, poi nel finale entra la chitarra di Tommy e non ce n’è più per nessuno, il divertimento è assicurato. Can’t Keep A Good Man Down tratta dall’omonimo album del 1997 non è da meno, con una pulsante sezione ritmica e la solista che comincia a  lanciare traccianti rock-blues sul pubblico presente, si capisce perché il musicista californiano è considerato uno dei migliori chitarristi in circolazione, come viene ribadito nelle volute funky di Leaving Trunk, che nella versione di Taj Mahal aveva Ry Cooder e Jesse Ed Davis alle chitarre, ma il nostro amico fa di tutto per non farli rimpiangere, con il suo timbro grasso e pungente, mentre Emerson passato all’organo lo sostiene con brio.

Lose Lose era un brano scritto con Joe Louis Walker presente nel disco del 2015, uno slow blues di quelli tiratissimi e lancinanti dove la chitarra di Castro fa i numeri in un fluentissimo assolo ricco di una forza e una tecnica strabilianti, notevole anche il vibrante shuffle Calling San Francisco, tratto da un vecchio album del 1999, sempre cantato e suonato in grande spinta da tutta le band, che poi accelera vorticosamente a tempo quasi di rock and roll per una potente Shakin ‘The Hard Times Loose dove impazza il batterista Bowen Brown e sembra di sentire appunto una rock’n’soul revue devastante. Un attimo di quiete per godere della bella ballata soul Anytime Soon, che anche vocalmente ricorda il miglior McClinton, con breve solo di grande finezza in punta di dita, She Wanted To Give It To Me è tratta dal disco del 2014 con i Painkillers The Devil You Know, un brano scritto con Narada Michael Walden dal groove funky accentuato, chitarra dal suono nuovamente “grasso” e pungente e ottimo lavoro dell’organo, ancora con quell’aria da party music che spesso trasuda dai brani di Castro; ottima anche Two Hearts altro blues up-tempo con retrogusto soul e il “solito” assolo furioso della Gibson del nostro amico, che per chiudere sceglie Them Changes, un classico del rock-blues, che oltre che con Carlos Santana Buddy Miles era solito suonare nella Band Of Gypsys di Hendrix, versione gagliarda, con lungo assolo di organo nella parte centrale e la solista di Castro che imperversa nel resto del  brano, e spazio anche per i classici assoli di basso e batteria, come in tutti i Live che si rispettano, e questo lo è!

Bruno Conti

Un Altro Chitarrista Formidabile. Ryan McGarvey – Live At Swinghouse

ryan mcgarvey live at swinghouse

Ryan McGarvey – Live At Swinghouse – Ryan McGarvey.com

I chitarristi ai primi posti delle classifiche dei più grandi di tutti i tempi vengono principalmente dagli anni ’60 (almeno i primi cinque), con un paio di eccezioni per maestri del blues e del R&R come BB King e Chuck Berry, e solo Stevie Ray Vaughan e Eddie Van Halen a rappresentare gli anni ’80: tutto questo per ricordare che le ultime decadi non sono state generose per l’avvento di nuovi solisti di prima fascia sulla scena del rock. Forse solo gli anni ’90 hanno visto alcuni chitarristi come Joe Bonamassa, Kenny Wayne Shepherd, Derek Trucks, Warren Haynes, tanto per citarne alcuni, affacciarsi tra le nuove stelle dei virtuosi dello strumento. Alcuni di questi (lui cita anche Chris Duarte) sono proprio quelli che maggiormente hanno influenzato Ryan McGarvey, musicista proveniente da Albuquerque, New Mexico, ma attivo soprattutto nella scena californiana, un chitarrista veramente dalla tecnica e dalla potenza di suono impressionante, con alcuni album al proprio attivo a livello indipendente, poco conosciuto ai più, per usare un eufemismo, anche per la circolazione quasi “carbonara” dei suoi CD, di cui questo Live A Swinghouse è sicuramente quello che maggiormente ne  valorizza lo stile esplosivo e la tecnica sopraffina, nonché la propensione all’improvvisazione in lunghe cavalcate che rimandano a gran parte dei nomi citati poc’anzi.

Il disco è stato registrato a Los Angeles nel 2016, in un piccolo studio di registrazione con la presenza di un pubblico non numeroso ma entusiasta; nel frattempo McGarvey ha già pubblicato nel 2018 anche un nuovo album di studio, Heavy Hearted, ma il disco da avere per iniziare a conoscerlo è sicuramente questo album dal vivo. Registrato nella classica formazione da power trio, con una sezione ritmica veramente notevole, Logan Miles Nix alla batteria (John 5), anche lui di Albuquerque, e soprattutto il bassista veterano di 1000 battaglie Carmine Rojas, già in azione con Bowie (e decine di altri artisti) negli anni ’80, e in anni più recenti, dal 2006 al 2015 nella band di Joe Bonamassa. Proprio Bonamassa è stato tra i primi a scoprire e sponsorizzare McGarvey, dicendo “ mi ricorda me stesso alla sua età” https://www.youtube.com/watch?v=Fp6BF5jAZfs . Già definito da alcuni critici musicali The Guitar Maestro, il nostro amico in effetti è una sorta di “iradiddio” della chitarra, un solista impetuoso e dalla tecnica variegata: nei due brani più lunghi dell’album, Prove Myself, oltre dodici minuti, e Mystic Dream, 17 minuti e trenta, mi è sembrato di sentire il Jimmy Page degli inizi https://www.youtube.com/watch?v=Nm7nXi2Cwwk , ma anche lo stesso Bonamassa dei primi anni, con improvvisazioni formidabili, assoli ricchi di inventiva, con continui rilanci, e con uso di slide, wah-wah, con una timbrica della chitarra “arrapante” sia che usi la Gibson come la Fender, in grado di lasciare a bocca aperta anche l’ascoltatore più scafato e abituato ai grandi del passato, ma senza quella freddezza tipica di certi chitarristi della categoria “fenomeni della 6 corde”, insomma tra i suoi pregi c’è anche il calore, tanto blues e una discreta propensione vocale.

Tra gli altri brani di valore in questo Live At Swinghouse anche uno strumentale come Texas Strut, che fin dal titolo rende omaggio alle furiose cavalcate di Stevie Ray Vaughan, il poderoso rock-blues hendrixiano della iniziale Wish I Was Your Man con wah-wah in libertà, la fantastica Blues Knockin’ At My Door dove va di slide come se ne andasse della sua vita https://www.youtube.com/watch?v=w9xgKRJfq8g , o lo slow blues accorato della ballata My Heart To You con un assolo “strappamutande” nel finale, degno di Jimi , senza dimenticare la “riffatissima” Little Red Riding Hood o la tirata ode al power trio rock di una vigorosa Memphis. Praticamente tutti i brani, non ce n’è uno debole, compreso il bis Joyride, richiesto a gran voce dal pubblico presente, un’altra sferzata rock-blues che ricorda i brani del miglior Ted Nugent degli anni ’70. Ma i due brani lunghi sono quelli che fanno capire che siamo di fronte ad un vero talento, insomma se siete appassionati dei chitarristi e di blues-rock non fatevi sfuggire questo Live At Swinghouse, che grida forte e chiaro “talento in azione”, insomma, nonostante le difficoltà nel recuperalo e i costi non indifferenti, sarebbe da avere!

Bruno Conti

Si Può Fare Di Meglio, Grande Tecnica E Talento, Due Canzoni Notevoli, Il Resto Meno. Eric Gales – The Bookends

eric gales the bookends

Eric Gales – The Bookends – Mascot/Provogue          

Secondo album di Eric Gales per la Mascot/Provogue, dopo il discreto Middle Of The Road del 2017 https://discoclub.myblog.it/2017/02/21/anticipazione-nuovo-album-il-24-febbraio-esce-eric-gales-middle-of-the-road/ : come mi è capitato di dire più volte recensendo i suoi dischi, Gales è un vero talento, un ragazzo prodigio all’esordio a 16 anni con la Eric Gales Band in un eccellente album per la  Elektra. Poi da allora 15 album, fino a questo The Bookends, con risultati alterni: la tecnica del mancino di Memphis non si discute, come le sane influenze,  Jimi Hendrix in primis, e Muddy Waters e Howlin’ Wolf, con i quali il nonno di Eric, Dempsey Garrett Sr., era solito cimentarsi in jam sessions, ma anche, tramite i fratelli Eugene e Manuel (conosciuto come Little Jimmy King), Albert e B.B. King. Hendrix è rimasto un imprimatur indelebile, i bluesmen meno, a favore di elementi rock, che sconfinano anche nell’hard e nel metal, oltre, negli ultimi anni, a parer mio purtroppo, pure derive pop, R&B “moderno”, persino hip-hop, con risultati non sempre eccitanti: molti alti e bassi, per quanto, come testimoniano i suoi dischi Live, rimane sempre un grande chitarrista a livello concerti.

Anche questo nuovo album non risolve il dilemma, a fianco di un paio di brani strepitosi, ce ne sono altri veramente scarsi: nella prima categoria metterei una rilettura gagliarda di With A Little Help From My Friends, insieme alla voce femminile del momento, ossia Beth Hart, una versione a due voci dove si apprezza la capacità di interprete di Beth, sempre in grado di incendiare le canzoni dove mette il sigillo della sua voce imponente ed appassionata, e anche il classico dei Beatles che tutti conosciamo nella versione di Joe Cocker, riluce con forza in questa interpretazione magistrale, dove non manca il ruggito vocale della Hart, che è ormai un marchio di fabbrica del brano, naturalmente per chi se lo può permettere, e anche Gales sia a livello vocale che con la sua chitarra contribuisce alla riuscita del tutto. L’altro brano notevole, non casualmente, è un altro duetto, questa volta con Doyle Bramhall II (altro musicista, eccellente come gregario, meno continuo come artista solo https://discoclub.myblog.it/2018/10/09/bravo-come-gregario-chiedere-a-clapton-ed-altri-meno-come-solista-in-proprio-doyle-bramhall-ii-shades/ ), alle prese con Southpaw Serenade, una canzone anni ’40, che qui diventa un lungo blues’n’soul raffinato, ma ricco di trasporto, dove le soliste dei due mancini si scambiano assoli con libidine e classe, sullo sfondo creato dalla band di Gales, dove brillano i suoi compagni di avventura, Mono Neon (Basso), Aaron Haggerty (Batteria),  la moglie LaDonna Gales (alle armonie vocali) e Dylan Wiggins (Organo).

Se tutto il disco fosse così non dico che si griderebbe al miracolo, ma sarebbe un bel sentire: come avrete capito anche questa volta non ci siamo del tutto, per usare un eufemismo, anche se grazie a questi due brani il disco si meriterebbe la sufficienza, ma le collaborazioni con B. Slade, ex cantante gospel “pentito”, come Tonéx, e ora artista a cavallo tra neo soul, hip-hop, trance, con qualche ricordo della musica di famiglia, prima illudono nella bella intro acustica di Something’s Gotta Give che poi si trasforma in un discreto duetto di soul moderno, ma poi deludono nella pasticciata bonus Pedal To the Metal (remix), un funkettino insulso https://www.youtube.com/watch?v=UHjuqqZAG6Y , in entrambi i brani si salva giusto il lavoro della solista di Gales. E non è che It Just Beez That Way, dove Eric si cimenta con un beatboxing hip-hop (giuro!) sia molto meglio, anche se il brano contiene la prima volta su disco di Gales alla slide, anche con wah-wah, ma il suono ha sempre questo arrangiamento “moderno” che almeno a chi scrive non piace molto https://www.youtube.com/watch?v=U9kkoYEJEhE . Più interessante, anche se non memorabile, Whatcha Gon’ Do, con qualche spunto hendrixiano, epoca Band Of Gypsys; insomma la produzione di Matt Wallace, famoso per il suo lavoro con i Maroon 5 (!) e che ha sostituito David Bianco, scomparso durante la realizzazione del disco, non entusiasma molto. Discreta la soul ballad How Do I Get You e non male il poderoso rock Reaching For A Change e il vorticoso strumentale virtuosistico Resolution. Finirei con il solito” Mah” che dedico ultimamente alle sue recensioni.

Bruno Conti

Per Essere Una “Reliquia” Del Mississippi Delta Blues Suona Vivo E Vibrante Come Pochi! Cedric Burnside – Benton County Relic

cedric burnside benton county relic

Cedric Burnside – Benton County Relic – Single Lock Records

Se fate una ricerca in rete nelle sue biografie, Cedric Burnside viene quasi sistematicamente indicato come batterista, e infatti il suo ultimo premio ai Blues Music Awards del 2014 lo ha vinto proprio nella categoria strumentisti per il suo lavoro alla batteria. A ben vedere la cosa ha un senso, visto che Cedric ha iniziato la sua carriera proprio dietro lo sgabello, nella band del nonno R.L. Burnside, subentrando al padre Calvin Johnson. Poi però il nostro amico, pur suonando ancora spesso la batteria, si è affermato come chitarrista e cantante, ed è tra le punte di diamante dell’Hill Country Blues, spesso in dischi dove la formula era quella classica chitarra/batteria, tipica dei juke joints dove aveva suonato il nonno, ma modernizzata con un approccio più moderno ed elettrico, suono sporco e potente, condiviso con gente come i North Mississippi Allstars, Lightnin’ Malcolm (con cui ha condiviso un album come 2 Men Wrecking Crew), altri componenti della famiglia, tra cui il fratello Cody, scomparso nel 2012, e lo zio Garry.

Nel 2015, ma arrivato alla fama (si fa per dire) nel 2016, grazie alla candidatura ai Grammy, ha pubblicato quello che forse è il suo miglior disco finora, una sferzata di blues elettrico condito da ampie venature rock, intitolato Descendants Of Hill Country https://discoclub.myblog.it/2016/12/10/figli-nipoti-del-blues-delle-colline-cedric-burnside-project-descendant-of-hill-country/ , quasi un manifesto della sua musica. Il nuovo album Benton County Relic è ironicamente dedicato al fatto di essere una sorta di reliquia (o un “relitto” se preferite) della Contea di Benton, sempre zona Mississippi Delta e dintorni, come la cittadina di Holly Springs da cui proviene il 39enne Cedric, che questa volta si accompagna con il batterista (e chitarrista slide, se non sanno suonare almeno due strumenti non li vogliono come compagni) Brian Jay, che però viene da Brooklyn, e nel cui studio casalingo sono stati registrati in due giorni ben 26 brani, tra cui scegliere le dodici canzoni che sono finite sul CD. Girando il suono intorno a due batteristi/chitarristi ovviamente il groove e l’uso dei riff sono gli elementi portanti delle tracce contenute nell’album: dall’iniziale We Made It, che racconta di una infanzia povera passata in una casa modesta dove non c’erano acqua corrente, radio e TV e dell’orgoglio di avercela fatta, il tutto fra potenti sventagliate di chitarra e batteria, su cui Burnside declama con la sua vibrante voce.

Get Your Groove On evidenzia fin dal titolo l’importanza del ritmo in questo tipo di musica, scandito e in crescendo, con forti elementi rock ma anche le scansioni della soul music più cruda, grazie ad un basso rotondo e pulsante; Please Tell Me Baby è il presunto singolo del disco, un bel boogie che sarebbe piaciuto agli Stones di Exile o all’Hendrix più nero, ma anche agli attuali North Mississippi Allstars. Typical Day è un altro rock-blues di quelli tosti e vibranti, mentre Give It To You è un potente slow blues, sempre elettrico ed intenso, ma non mancano anche un paio di brani più intimi e raccolti, la bellissima Hard To Stay Cool che ruota intorno ad una slide risonante che ricorda il miglior Ry Cooder, e il delicato country blues acustico del traditional There Is So Much, che con la sua andatura ondeggiante rimanda anche al gospel. L’omaggio al repertorio del nonno avviene con la potente Death Bell Blues, un pezzo che era anche nel repertorio di Muddy Waters, un tipico lento di quelli palpitanti, dove la voce declama e la chitarra scandisce grintosamente il meglio delle 12 battute più classiche https://www.youtube.com/watch?v=5qQJ-IuqdJQ ; Don’t Leave Me Girl è un altro fremente rock con elementi hendrixiani ben evidenti e la chitarra viaggia che è un piacere. Call On Me è un atmosferico lento che ricorda certe cose del Peter Green meno tradizionale, con la chitarra in vena di finezze e la voce porta con gentilezza e trasporto https://www.youtube.com/watch?v=Aug2e-i8osY ; I’m Hurtin’ è un poderoso boogie tra Hound Dog Taylor e le cavalcate elettriche dell’ultimo R.L. Burnside, notevole, e a chiudere un ottimo album che conferma la statura di outsider di lusso di Cedric Burnside, troviamo un’altra scarica rock ad alto contenuto adrenalinico come Ain’t Gonna Take No Mess, con slide e batteria che impazzano veramente alla grande.

Bruno Conti

Forever Young: Un Chitarrista Per Tutte Le Stagioni, Basta Trovare I Suoi Dischi! Eric Steckel – Polyphonic Prayer

eric steckel polyphonic prayer

Eric Steckel – Polyphonic Prayer – Eric Steckel Music

Passano gli anni ma Eric Steckel rimane sempre giovane: il musicista della Florida è nato nel 1990, ma il suo esordio discografico risale al 2002 quando aveva solo 11 anni. Da allora ha già pubblicato una dozzina di album, comprese alcune rielaborazioni di vecchi dischi, sempre fedele alle sue origini di chitarrista blues e rock, scevro dalle moderne tecnologie e legato ad un suono che rimane volutamente tradizionale nelle sonorità. Solo le sue chitarre, di cui è un virtuoso assoluto, l’uso dell’organo, del quale nel corso degli anni è diventato un buon praticante, ma se la cava anche al piano, e un batterista a cui affida la parte ritmica dei brani, tenendo per sé anche le parti di basso (anche se dal vivo usa una band). L’album precedente Black Gold, uscito circa tre anni fa http://discoclub.myblog.it/2016/09/08/amanti-dei-bravi-chitarristi-ex-ragazzo-prodigio-eric-steckel-black-gold/ , optava per un suono più duro rispetto alle radici blues del “ragazzo” (in fondo ha solo 27 anni), mentre in questo nuovo Polyphonic Prayer c’è a tratti un certo ritorno alle 12 battute classiche, anche se la quota rock e virtuosistica rimane intatta: però brani come She’s 19 Years Old o It’s My Own Fault illustrano chiaramente le sue radici, il sound è quello dei classici dischi rock-blues degli anni ’70, quindi Zeppelin, Bad Company, Humble Pie, aggiungete nomi a piacere, ma anche Bonamassa o Kenny Wayne Shepherd, senza dimenticare Hendrix e Stevie Ray Vaughan, tutti nomi “giusti”.

Prendete She’s 19 Years Old che viaggia sull’onda di un bel lavoro di raccordo dell’organo, quando entra la chitarra in modalità slide di Steckel è un florilegio di note inarrestabile, con tutta la tecnica ma anche il feeling di questo ex ragazzo prodigio in mostra, come pure nel super slow It’s My Own Fault dove Eric si raddoppia sia al piano che all’organo, mettendo in mostra anche la sua eccellente attitudine di vocalist, non lontana da quella di un Robben Ford, mentre la chitarra è guizzante, fluida e ricca di tono, come pochi altri chitarristi attuali possono vantare. Waitin’ For The Bus è dura e tirata come l’originale degli ZZ Top, southern rock potente e cattivo, forse fin troppo “esagerato” nelle sue sonorità, ma le chitarre viaggiano che è un piacere; We’re Still Friends parte con un eccellente introduzione pianistica di grande pathos e poi diventa una piacevole ballata atmosferica, con gli strumenti che si aggiungono mano a mano, fino all’ingresso della voce e alla quasi inevitabile esplosione della chitarra che rilascia un vero e proprio fiume di note nel lungo e lancinante solo nella seconda parte del brano, dove Eric mette in mostra nuovamente tutta la sua grande perizia tecnica.

Can’t Go Back, come altri brani già presente nel suo repertorio Live da anni, ha un suono più duro e scontato, anche se temperato dall’uso dell’organo che gli conferisce una patina molto seventies e le consuete acrobazie sonore della chitarra, mentre Unforgettable ha qualche velleità radiofonica grazie ad un ritornello orecchiabile, ma il brano in sé non è memorabile, un po’ banale, anche se la solista lavora sempre di fino. Tennessee è un poderoso rock-blues che ricorda certe cose di Ted Nugent o delle frange più hard del southern-rock, tipo Molly Hatchet o Blackfoot, sound già presente anche nel precedente Black Gold, con Picture Frame che concede di nuovo ad un suono più commerciale e radiofonico, pur se sempre nobilitato dall’irrisoria facilità con cui Steckel estrae dal suo strumento assolo dopo assolo. Through Your Eyes è un’altra ballata pianistica, melodica ed intensa, forse poco legata al suono d’insieme del disco, ma sicuramente di buona fattura e la conclusiva Make It Rain ritorna alla modalità più blues e raffinata dei migliori brani dell’album, quelli dove si percepisce una sorta di affinità di intenti con lo stile raffinato e di grande valenza del miglior Robben Ford (ma anche l’assolo di organo in questo brano è da applausi), insomma il nostro amico è veramente bravo, e chi ama il suono puro della chitarra elettrica troverà in questo Polyphonic Prayer più di un motivo di interesse, ammesso che si riesca a rintracciare Il CD sempre di difficile rperibilità.

Bruno Conti

Cielo Grigio Su, Chitarra Rossa Giù… Indigenous – Gray Skies

indigenous gray skies

Indigenous – Gray Skies – Blues Bureau International/InakustikIrd

Mi scuso per l’ardita citazione poetico/canzonettistica nel titolo, ma mi scappava, comunque…

Questo dovrebbe essere l’undicesimo disco degli Indigenous (o 12°, a seconda dei conteggi delle discografie, se si contano forse anche gli EP e i Live), ma escluso il disco fatto in trio, a nome Mato Nanji, con David Hidalgo e Luther Dickinson. Per lui (loro), come per altri, vale il discorso che il meglio di solito esce ad inizio carriera, ma la band guidata dal nativo americano ha comunque creato spesso parecchi motivi di interesse, soprattutto per gli appassionati di rock-blues e di chitarristi in generale, con dischi dove “l’attrezzo musicale” è elemento importante ed imprescindibile del tutto, ma non sempre le canzoni sono all’altezza del contorno. L’ultimo disco del 2014 Time Is Coming, come dicevo all’epoca dell’uscita http://discoclub.myblog.it/2014/07/16/nativo-americano-sempre-piu-rock-indigenous-featuring-mato-nanji-time-is-coming/ , era comunque un buon album, in grado di soddisfare chi da questi dischi cerca grinta, perizia tecnica e tanta chitarra. Direi che anche in questo Gray Skies, per quanto i cieli siano grigi l’orizzonte pare comunque sgombro e ben visibile: la “parrocchia musicale” è sempre quella di Cream, Hendrix, Stevie Ray Vaughan e soci e discendenti, anche se la produzione di Mike Varney, boss della Blues Bureau (e anche della Shrapnel) evidenzia a tratti aspetti più hard ed esagerati nel genere del nostro amico.

Questa volta però il suono mi sembra più bilanciato e raccolto, e quindi sono abbastanza d’accordo con chi trova il nuovo album uno dei suoi migliori in assoluto e un ritorno alla forma dei tempi migliori: Stay Behind è una buona partenza, il groove è abbastanza alla Cream, ma l’uso dell’organo di Tommy Paris, un feeling sudista e una melodia che entra subito in testa permettono di gustare con piacere le evoluzioni della solista di Nanji, sempre brillante e ricca di inventiva, ma pure grintosa e potente, la parte cantata è onesta, pure i riff non mancano. Le canzoni al solito portano la firma di Mato Nanji, aiutato di tanto in tanto dalla moglie Leah Williamson e dallo stesso Varney: I’m Missing You è un buon rock-blues dalle parti di Stevie Ray Vaughan (e per analogia di Hendrix), al solito nobilitato dal lavoro della chitarra, mentre le parti vocali sono più scontate, croce e delizia di questo tipo di dischi (ma neppure SRV era questo gran cantante); Lonely Days è una piacevole rock ballad dal ritmo ondeggiante e con una buona melodia, al solito punteggiata dal timbro piacevole della solista di Mato, mentre Healers è più potente e tirata, anche se al di là del consueto phrasing sempre brillante dello strumento, comunque al centro del sound degli Indigenous, il resto è meno memorabile.

On My Way, sulle ali di un riff trascinante è un altro bel pezzo di classic rock, con un wah-wah veramente scatenato, e non può mancare un classico slow blues di stampo hendrixiano come l’eccellente Hear My Voice, dove la Stratocaster di Nanji, ben sostenuta dall’organo di Paris, costruisce una bella atmosfera sonora, intrigante e sognante, prima di rilasciare un assolo di rara classe e sensibilità, non lontano parente di brani alla Little Wing. Let It Shine è di nuovo dalle parti del blues-rock texano alla SRV, sentito mille volte, ma sempre gradito, come pure la scarica di pura energia della poderosa Don’t Know Where To Go e le 12 battute classiche di Let’s Carry On, cariche di blues, poi reiterate nel vibrante slow blues della lunga Both To Blame, dove la chitarra è sempre protagonista assoluta, grazie alla tecnica sopraffina e al feeling di uno dei migliori chitarristi del genere attualmente in circolazione. Il southern boogie della frizzante e coinvolgente You Broke It, You Bought It  e la frenetica e tiratissima What You Runnin’ From, concludono in bellezza un disco che non mancherà di entusiasmare chi ama questo tipo di musica: file under rock-blues.

Bruno Conti

Funky, Soul, Desert-Rock, Psichedelia E Tanto Blues-Rock. Tornano I SIMO Con Rise And Shine

simo rise and shine

SIMO – Rise And Shine – Provogue/Mascot

Il disco precedente http://discoclub.myblog.it/2016/01/29/ritmi-sudisti-blues-vecchie-chitarre-simo-let-love-show-the-way/ , uscito a gennaio 2016, era stato, non dico un fulmine a ciel sereno, ma una bellissima sorpresa: un album come quelli che si facevano una volta, tra blues, rock e southern, suonato alla grande, con il suo protagonista principale, il chitarrista JD Simo, in grado di utilizzare nelle registrazioni la vecchia Gibson Les Paul che fu di Duane Allman, custodita proprio nella Big House di Macon, Georgia, la vecchia magione degli Allman Brothers nel loro periodo più fertile, libero e selvaggio, dove incidevano e provavano. E lo spirito di quello strumento e di quelle sonorità era presente in modo massiccio nell’album Let Love Show The Way, un tipico disco da power trio vecchia maniera: irruente, ma anche ricco di finezza, e con l’aggiunta di una bella cover come Please Be With Me, Cowboy via Eric Clapton. Dopo quell’album i SIMO sono partiti per un tour mondiale durato tutto l’anno, 215 date in giro per il mondo (Italia compresa, grande concerto anche a Milano come opening act dei Blackberry Smoke): poi sono tornati alla loro base di Nashville, e da febbraio del 2017 sono entrati in studio di registrazione per incidere il nuovo album Rise And Shine, con l’aiuto dell’ingegnere del suono Don Bates, e producendosi da soli, oltre a JD Simo alla chitarra, Elad Shapiro al basso e Adam Abrashoff alla batteria.

Undici canzoni nuove, scritte dal gruppo, che per l’occasione, oltre ai generi citati, esplora anche altre forme sonore, secondo le loro stesse parole, Stax soul, funky, desert-rock e psichedelia, quindi andiamo a sentire. Come spesso accade sto ascoltando in streaming in anteprima l’album, parecchio prima dell’uscita e quello che sento mi sembra veramente più che valido: Return è un sinuoso, moderno, quasi futuribile, R&B degli anni duemila, con voce filtrata, ritmo quasi minimale e sospeso, con un corposo giro di basso ad ancorarlo, e una chitarrina sorniona che poi esplode in un assolo dalle timbriche inconsuete, con la solista che quasi se la “ride”. In effetti lo stesso JD Simo ha ricordato che nella sua collezioni di dischi, ai fianco dei nomi e degli stili citati, ci sono anche artisti contemporanei, tipo D’Angelo, Alabama Shakes, Prince e i Roots, solo che, a modesto parere di chi scrive, lui li rielabora molto meglio nella sua visione musicale. Meditation è un funky-rock che fonde Stax, Sly And Family Stone e un pizzico di Blaxploitation, con le scintille di una chitarra hendrixiana e la voce nera del musicista di Chicago, per una eccitante cavalcata a tutto ritmo nella musica rock del futuro o nel futuro della musica rock, come preferite. Shine, potrebbe rimandare a degli ZZ Top leggermente schizzati e psych, con una tastiera ad irrobustire il power rock del trio e ad un assolo di chitarra con wah-wah che rallenta improvvisamente in un blues acidissimo e poi riesplode a tutta velocità, mentre People Say insiste in questa carnale combinazione di blues-rock alla Cream, voci e chitarre impazzite e acrobazie sonore di basso e batteria che ne sostengono le divagazioni verso sonorità che ricordano Funkadelic o Parliament https://www.youtube.com/watch?v=fPqgQiItkEo .

I nostri amici, soprattutto Simo, mettono a fuoco suoni e grooves probabilmente studiati in centinaia di dischi di altri musicisti, ascoltati o perché ci hanno suonato, il melting pot ogni tanto funziona bene, altre volte è più pasticciato, ma ci sono comunque sempre interessanti situazioni musicali anche in un brano “strano” come Don’t Waste. In I Want Love il buon JD sfodera il suo miglior falsetto da soul crooner, per una ballata lenta ed avvolgente che ogni tanto viene percorsa da brevi e brusche sferzate di chitarra che cercano di turbarne la quiete; The Climb è quello che abbiamo definito desert-rock psichedelico, uno strumentale che deve qualcosa sia alle furiose schitarrate dell’Hendrix sperimentale, quanto, in parte, anche alle colonne sonore dei western all’italiana. Non poteva mancare ovviamente uno slow blues cattivissimo e malevolo come Light The Candle, dove la chitarra va in overdrive verso il blues-rock più heavy di stampo power trio anni ’70, con un assolo selvaggio ed incontenibile che conferma la reputazione di JD Simo come uno dei guitar heroes più fenomenali del nuovo millennio, anche senza la chitarra di Duane Allman.

E il trio, non pago, dopo gli oltre sette minuti di questo tour de force, rilancia con altri sette di minuti di gran classe in Be With You, una lenta soul ballad che viene travolta da un’altra torrenziale cascata di note della solista del nostro che sale e scende nei volumi e nell’intensità in un altro assolo, formidabile per timbri, feeling e gusto squisito, e che nel crescendo finale ricorda With A Little Help From My Friends, il loro cavallo di battaglia delle loro esibizioni Live, mirabilmente registrata in una unica take notturna. Siamo quasi al finale, ma prima uno sketch acustico, The Light che è una sorta di folk blues intimo e intenso, solo voce e chitarra; a questo punto manca un solo brano, ma che brano, tredici minuti di “follia” sonora in modalità jam, per una I Pray, di nuovo tra derive psichedeliche alla Grateful Dead e rintocchi chitarristici tribali che rimandano al Peter Green esoterico di End Of The Game, in una orgia di wah-wah di rara potenza, ma anche passaggi jazzati di rara finezza e tocco. Se volevamo una conferma questo Rise And Shine ce la dà a pieno titolo: non solo per JD Simo, ma per tutta la band, un trio di musicisti veramente, si spera, dal luminoso futuro,  ma per ora anche dal presente brillante e stimolante!

Esce domani venerdì 15 settembre.

Bruno Conti  

Lunga Vita Agli Anni ’70, 2! The Apocalypse Blues Revue

apocalypse blues revue

The Apocalypse Blues Revue – Apocalypse Blues Revue – Provogue/Mascot

Il disco, obiettivamente parlando, non è brutto, il vocabolo Blues, infilato tra Apocalypse e Revue, indica subito quale è il genere che il gruppo vuole affrontare, ma il risultato è decisamente heavy, e sarebbe strano il contrario, visto che i due componenti principali della band, il chitarrista Tony Rombola e il batterista Shannon Larkin, vengono dalla nota band Godsmack,, hard, heavy e nu metal, a seconda delle catalogazioni che leggete nelle varie biografie, potremmo anche aggiungere post-grunge, che non so cosa sia, ma sulla carta fa il suo effetto. Per questo progetto satellite i due hanno voluto con loro il cantante Ray “Rafer John” Cerbone e il bassista Brian Carpenter. Il disco, come si diceva, è duretto anziché no, nelle loro parole una versione del blues recuperata attraverso l’ascolto di Jimi Hendrix, Led Zeppelin, AC/DC (se hanno mai fatto blues) e tra gli artisti più recenti Stevie Ray Vaughan e Eric Gales, ma potrei aggiungere Frank Marino, Robin Trower e la pattuglia degli hendrixiani tutti: non a caso con il pedale del wah-wah spesso e volentieri pigiato a manetta. Ci sono anche echi dark dei primissimi Black Sabbath (Tony Iommi agli inizi evidenziava delle influenze blues) e tra le ultime band gente come la Blindside Blues Band e la pattuglia di artisti della Shrapnel e della Blues Bureau.

E, non a caso, secondo chi scrive, forse il miglior brano del disco, messo in coda come bonus, è una abbastanza fedele, quasi didascalica, cover di When The Music’s Over dei Doors, dove il cantante Cerbone mette in luce la sua voce profonda e baritonale che ricorda parecchio nel timbro quella di Jim Morrison, un altro che amava il blues “meticciato”. Insomma se volete la vostra razione delle 12 battute, molto, ma molto elettrica, diciamo hard e pure rock, qui potreste trovare pane per i vostri denti, in fondo c’è molto di peggio in circolazione (anche di meglio, per la verità) e quindi se l’air guitar davanti allo specchio è ancora una delle vostre forme di ginnastica preferita, con questo album potreste praticarla agevolmente. Diciamo che la Apocalypse Blues Revue lodevolmente cerca di sciorinare tutti i tempi del blues, dalllo slow, allo shuffle, passando per quello acustico e per  il blues-rock, ma poi alla fine prevale una certa “viuulenza”nel sound, come esplicato nella iniziale Evil Is As Evil Does, che è uno shuffle cadenzato, ben cantato da Cerbone e con la chitarra che non è ancora sull’11 del volume, ma si lascia gustare; già nel secondo brano Junkie Hell, in teoria uno slow blues, Rombola comincia a spremere la sua solista, con vibrati in evidenza e la voce morrisoniana di Rafer John, e nel finale l’Hendrix che è in lui si scatena, anche con profitto, con una orgia di wah-wah.

Subito replicata nella successiva Devil Plays A Strat (sarà vero?), dove i gemiti della chitarra si fanno ancora più selvaggi e dark, con modello forse più Trower che Hendrix, ma gli originali in entrambi i casi sono superiori. I Think Not dimostra che volendo i nostri amici possono suonare anche della musica più raccolta e tranquilla, a volumi meno sparati e con buona tecnica e feeling. Whiskey In My Coffee tenta anche la strada del southern boogie d’atmosfera, non male https://www.youtube.com/watch?v=bFhfdxFyTQU  e pure The Tower, di nuovo ispirata da Robìn Trower e quindi per proprietà transitiva Hendrix, ha addirittura delle derive leggermente psichedeliche, a conferma del fatto che questi signori non suonano affatto male https://www.youtube.com/watch?v=vdG3jpcJNiA . Crossed Over è più scontata, per l’amor di Dio, la chitarra è sempre molto presente ed “effettata”, ma si esagera un tantino con le acrobazie sonore. Comunque gli ex baldi giovanotti cercano di bilanciare le due facce della loro musica e Blues Are Fallin’ From The Sky è quasi tradizionale, con una parte centrale dove Rombola fa lo SRV o il Ronnie Earl della situazione, con un assolo tutto feeling e tecnica. Work In Progress è un’altra variazione sul tema Hendrix con pedale wah-wah di nuovo in azione, e il diavolo, che era sempre in agguato dietro l’angolo, torna per The Devil In Me, un lentone hard tra Black Sabbath e Zeppelin, mentre Blue Cross, l’ultima traccia prima dell’ottima cover dei Doors, mette in evidenza anche un lato elettroacustico della band, insomma si parte con una chitarra acustica ma poi non riescono a trattenere il loro lato più duro e finiscono su ritmi tribali. Ribadisco, se amate il genere rock 70’s, questo album degli ABR potrebbe anche interessarvi.

Bruno Conti

Per Amanti Dei “Bravi Chitarristi”, Ex Ragazzo Prodigio! Eric Steckel – Black Gold

eric steckel black gold

Eric Steckel – Black Gold – Eric Steckel Music

Rispetto all’imberbe ragazzino che nel 2002 esordiva a soli 11 anni con l’album A Few Degrees Warmer, ora, a giudicare dalla foto di copertina di Black Gold, Eric Steckel è un giovane dal lungo capello, con barba, sempre fulmine di guerra con la sua chitarra, non più legato ad un blues deferente verso i dettami del passato, ma dal sound più vicino al rock https://www.youtube.com/watch?v=iFtL5CHC8ms . Però anche lui ha sempre dovuto fare i conti con il mercato discografico: i suoi dischi sono comunque autoprodotti, con una distribuzione difficoltosa (in effetti questo nuovo Black Gold risulta essere uscito da circa un anno, ma pochi se ne erano accorti), registrati al risparmio. Nel nuovo album Steckel, oltre alla solista, suona anche basso e tastiere, lasciando al co-produttore dell’album, Maikel Roethof, il ruolo di batterista. Se il nome non vi sembra americano non vi sbagliate, viene da Amsterdam, dove il disco è stato in parte registrato, meno alcune parti realizzate a Nashville. Rispetto al precedente Dismantle The Sun (uscito quasi quatto anni fa, con un EP digitale ad interrompere la lunga pausa) http://discoclub.myblog.it/2013/02/12/ex-bambini-prodigio-crescono-eric-steckel-dismantle-the-sun/  mi sembra che il nuovo album sia di un gradino inferiore, sempre molto ricco e fluente nell’ambito chitarristico, ma meno vario e più orientato verso un rock più duro rispetto al passato.

Diciamo che Steckel continua a seguire le tracce di un Bonamassa, ma mentre negli ultimi anni il chitarrista newyorkese ha affinato il suo stile, andando a pescare ancora di più anche nel blues e nel soul, l’ancora giovane Eric (in fondo viaggia tra i 25 e i 26 anni) preferisce privilegiare un suono più vicino all’heavy rock targato anni ’70, come evidenzia la traccia di apertura Holding On, molto legata a quello stile, anche se gli interventi di chitarre e tastiere, i continui cambi di tempo e la voce sicura del nostro, rendono il tutto comunque molto piacevole, e poi il suono della chitarra è brillante e ricco di grande tecnica , come è sempre stato per Steckel. Juke Joint inserisce qualche elemento southern, ma privilegia un suono troppo leggerino; anche El Camino può ricordare le band sudiste più rock, tipo Blackfoot o Molly Hatchet, anche se il lavoro di slide di questo strumentale è comunque apprezzabile. Fugitive ricorda addirittura certo AOR americano anni ’70 o gente come Nugent, Journey, Bad Company (non i primi), con My Darkest Hour, che nei suoi quasi 6 minuti, grazie ad un arrangiamento più complesso che evidenzia anche l’uso dell’organo, mi sembra migliore, con interessanti aperture melodiche e il solito lavoro fluente della chitarra, però sempre soggetta a quel sound a tratti troppo “leggerino”.

Però Speed Of Light è di nuovo quasi lite metal, e neppure del migliore, mentre Texas 1983 è una bella improvvisazione strumentale di stampo Vaughan/Hendrix, peccato sia troppo breve https://www.youtube.com/watch?v=NJ_c2Jwn610 . Outta My Mind, un funky-blues più vicino ai lavori passati di Steckel e What It Means, una sorta di ballata d’atmosfera ha tratti dell’antico splendore, con un lirico solo posto in conclusione, ma Rocket Fuel con il suo riffing grasso e “acrobatico” quasi alla Van Halen, è abbastanza scontata e ripetitiva. L’ultimo brano è l’unica cover del disco, If I Ain’t Got You di tale Alicia J. Augello-Cook, se il nome vi dice, non posso che confermare, è proprio un pezzo di Alicia Keys, tratto dal suo secondo disco, The Diary Of A.K,, ed è tra le cose migliori del disco, una ballata soul, cantata veramente bene e nobilitata da un finissimo solo di Eric Steckel che conferma, quando vuole, il suo gusto e la sua tecnica https://www.youtube.com/watch?v=Vy3pk6QNN1U . Luci ed ombre, ma gli amanti dei “bravi chitarristi” troveranno motivi per apprezzare.

Bruno Conti