Il “Cantautore” Che Dice No Ai Social (?!). Henrik Freischlader Band – Hands On The Puzzle

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Henrik Freischlader Band  – Hands On The Puzzle – Cable Car Records             

Questa volta vi risparmio il chi è costui, perché lo sappiamo: ce lo dice lui stesso, anzi la sua etichetta. “Il cantautore che dice no ai social!”: qualsiasi cosa voglia significare, però la frase fa scena e ci piace (almeno a me). Henrik Freischlader, perché di lui stiamo parlando, se le scrive e se le canta, almeno le dodici canzoni di questo Hands On The Puzzle, oltre a suonarvi la chitarra, accompagnato dal suo quartetto, la HFB, ovvero  Moritz Meinschäfer,  Batteria, Armin Alic,  Basso Roman Babik, Tastiera  e Marco Zügner , Sassofono, che non conosco, ma ascoltando il disco sembrano dei musicisti di buon valore, il genere è blues, diciamo un “blues contemporaneo”, dove confluiscono però anche elementi rock, jazz, funky e soul, praticamente tutto: quando non sapete cosa dire usatelo perché è sempre chiarificatore, oppure confonde le idee ulteriormente.

Appurato che Freischlader non sta sui social, ha quindi molto tempo per incidere dischi, visto che questo è il suo 14° album (inclusi alcuni live). Diciamo che in passato il suo stile era più orientato verso il power trio, ma ora con l’aggiunta di sax e tastiere, si inserisce in un filone più mainstream: anche lui più che simile a…, appartiene alla categoria di quelli che hanno suonato con… (che non è per forza un merito ma fa curriculum), per lui si ricordano B.B. King, Gary Moore, Peter Green, Johnny Winter e Joe Bonamassa (che è anche apparso in un suo disco del 2011), tra i tanti. Community Immunty ad aprire le danze, un buon funky-rock, tra i Cream e i Back Door , (trio anni  ’70 che pochi ricordano ma che a me piace citare, famoso per la presenza del sax  e l’uso del basso solista https://www.youtube.com/watch?v=srAwz7mNavU ), la voce è valida, benché non memorabile, l’arrangiamento fin troppo attendista, che poi sfocia in un finale quasi jazz-rock, Love Straight è un buon pezzo  di classico rock-blues, vaghi agganci zappiani, quello più commerciale, ma anche un  primo saggio delle capacità chitarristiche di Freischlader, un bel tocco fluido e scorrevole.

Those Strings è il primo vero blues del disco, con chitarra, sax e tastiere che duettano con buoni risultati tra loro e con la voce di Henrik, niente per cui strapparsi le vesti, ma la chitarra al solito è la parte più interessante del menu proposto; Winding Stair, tra blues e R&B è decisamente più vivace a conferma una buona attitudine al blue eyed soul. Ma è nei brani più lunghi che Freischlader e la sua band danno le migliori prove: Where Do We Go è una gradevole ballata notturna, quasi da cantautore, molto calda ed avvolgente, con un fluente lavoro della solista nella parte centrale,  Animal Torture ha ancora un feeling jazzato, di nuovo vicino a certo blue eyed soul americano raffinato, con piano elettrico e sax a disegnare belle melodie su cui poi lavora di fino la chitarra del nostro amico. Altri brani, tra blues classico e shuffle sono più scolastici, mentre Mournful Melody, come da titolo, è nuovamente una bella ballata quasi da songwriter californiano, cantata e suonata con classe e souplesse notevoli, e con un bel crescendo vibrante nella parte centrale e assolo liquido di chitarra nel finale. A chiudere, i dieci minuti di Creactivity, un altro onesto funky-soul-blues di buona fattura, illuminato in parte dal lavoro della chitarra, ma per il resto abbastanza scontato. A differenza del disco che nel complesso si lascia comunque apprezzare.

Bruno Conti