Valeva La Pena Di Attendere. Selwyn Birchwood – Pick Your Poison

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Selwyn Birchwood  – Pick Your Poison – Alligator Records/Ird

Sono già passati tre anni dal precedente? Così pare, comunque torna il prodigioso chitarrista di Orlando, Florida, Selwyn Birchwood, uno dei migliori delle nuove generazioni del blues: il nuovo album si chiama Pick Your Poison e non ha nulla da invidiare al suo predecessore, sempre su Alligator, Don’t Call No Ambulance http://discoclub.myblog.it/2014/06/14/piccoli-alligatori-pettinature-afro-selwyn-birchwood-dont-call-ambulance/ . Una scarica di pura energia, tra cavalcate boogie, deep funky soul e R&B, atmosferiche canzoni dove strapazza da par suo la lap steel in modalità bottleneck o la sua classica Gibson, coadiuvato da un gruppo, dove brillano sia il sassofonista, flautista Regi Oliver, come il bassista Huff Wright, e pure il nuovo batterista Courtney “Big Love” Girlie, anche lui pescato in Florida, non scherza. Tredici nuovi pezzi, tutti firmati dal super riccioluto musicista americano, che si conferma una vera forza della natura, con la sua solista sempre pronta ad intessere assolo dopo assolo, con una continuità ed una varietà di temi sonori impressionante ed ammirabile, veramente uno dei nuovi maestri della 6 corde più interessante attualmente in circolazione.

Se aggiungiamo che Birchwood è anche un eccellente cantante è difficile rimanere indifferenti di fronte alle sue evoluzioni: siano quelle vorticose dell’iniziale blues-rock Trial By Fire, dove in un inconsueto interscambio tra flauto e slide siamo attirati nel mondo sonoro di questo talentuoso musicista, o nel boogie a tutto velocità di una divertente e divertita Even The Saved Need Saving, con sax e chitarra con slide più wah wah che si inseguono con brio, per poi scatenarsi in un finale dove irrompe anche un magnifico inserto a tempo di gospel, con tutto il gruppo che canta con libidine, pardon, visto l’argomento, direi più con fervore https://www.youtube.com/watch?v=G2dCpHX7-og . Guilty Pleasures ha qualche retrogusto à la Tom Waits, se il cantautore di Pomona si immergesse più a fondo nel blues, la voce è molto simile (al Waits giovane), ma slide e sound complessivo sono di pura marca Alligator, con la slide furiosa che rievoca un Hound  Dog Taylor (sempre peraltro nato sull’etichetta di Chicago), “aggiornato” ad un modello 2.0; tra gli stili in mostra nel menu non manca il funky irriverente della title track Pick Your Poison, sempre interessante negli scambi strumentali tra sax e chitarra, che poi parte per la tangente in un assolo quasi zappiano https://www.youtube.com/watch?v=DbJ-kQGeJh4 . E ovviamente il nostro Selwyn maneggia con grande perizia anche lo slow blues, in un torrido ed intensissimo attacco alle coronarie dell’ascoltatore con una vibrante Heavy Heart, dove gli strali della sua Gibson sono lancinanti come richiede il miglior blues elettrico.

Haunted vira verso il rock, sempre con questo strano connubio tra sax e chitarra che cerca di scombinare le gerarchie tipiche delle 12 battute, riuscendoci. Are Ya Ready? ha ancora quello “strano”approccio zappiano al blues, con tempi sghembi, ma quell’amore sconfinato per le misure metriche tipiche di questa musica, solo viste senza troppa deferenza verso il passato, in modo fresco e variegato https://www.youtube.com/watch?v=M2g7d-CGpeU ; anche quando ci si immerge nelle paludi del Mississippi per una elettroacustica Reapimg Time il sound rimane comunque variegato, con l’acustica slide maneggiata con classe. R We Crazy è un altro funky dai tempi sghembi e obliqui, quasi jazzati, con un riff irresistibile, Police State è un Chicago Blues acustico a tutta slide, come Alligator insegna. Un altro ironico pezzo è My Whiskey Loves My Ex, dove comunque a livello musicale la band gira di brutto, con Selwyn Birchwood sempre magistrale ed irruente con la sua Gibson in un brano che ha un finale quasi alla Thorogood. Lost In You è una rara ballata notturna con assolo di sax di Oliver e il nostro che sfoggia un timbro vocale quasi da crooner per l’occasione, per poi rituffarsi in un errebì/funky alla James Brown per la conclusiva Corporate Drone, dove Selwyn dà un ultimo scossone alla sua solista per la gioia dei suoi ammiratori, a conferma del suo talento.

Bruno Conti

Ancora Eccellente Blues “All’Italiana”! T-Roosters – Another Blues To Shout

T-Roosters Another Blues To Shout

T – Roosters  – Another Blues To Shout – Holdout’n Bad/Ird

Non sono passati neppure due anni dal precedente Dirty Again http://discoclub.myblog.it/2015/09/08/la-via-italiana-al-blues-2-t-roosters-dirty-again/  ed ecco pronto il nuovo album dei T-Roosters, Another Blues To Shout, sempre con la classica formazione a quartetto, anche se con un nuovo bassista, Lillo Rogati, che affianca il classico trio di Tiziano Tiz “Rooster” Galli, voce solista e chitarre, Marcus “Bold Sound” Tondo alla armoniche (o se preferite Mississippi Sax) e Giancarlo Cova alla batteria. Rispetto al precedente album sono spariti gli “esperimenti” con tromba, piano, organo e contrabbasso con l’archetto, a favore di un suono più classico e compatto, al solito tra boogie, shuffles, ballate lente e qualche leggero tocco soul, un menu immancabile nei praticanti delle 12 battute, e al solito, se devo esprimere un parere, ma scrivo per quello, e quindi lo dico di nuovo, il sound al sottoscritto ricorda, a tratti, quello dei Canned Heat dell’epoca d’oro, tra serrati boogie che risvegliano pure ricordi di Hound Dog Taylor o del Thorogood più sanguigno, oltre a groove che risalgono ai bluesmen neri più canonici e a qualche loro controparte più pallida nel colore della pelle, benché sempre legata alla grande tradizione del miglior blues elettrico.

Come di consueto i brani sono tutti originali, con Paolo Cagnoni che scrive i testi, amari e poco inclini all’ottimismo, e cura anche la co-produzione del CD con Galli. Tredici brani, in tre dei quali, quasi inevitabilmente, nel titolo ricorre la parola “Blues”, ma in tutti scorre e fluisce la passione per questa musica; che sia il boogie tra ZZ Top e Canned Heat dell’iniziale Lost And Gone, con un riff insistito della chitarra che lascia spazio all’armonica di Tondo, agile e vibrante, mentre Tiziano Galli si conferma cantante intenso ed in possesso di una bella voce, oltre che chitarrista eclettico, oppure l’intenso folk-blues della cupa Morning Rain Blues che scivola lungo le rive del Mississippi fino alle colline. I Wanna Achieve The Aim è un blues-rock lento e tirato dove Galli si sdoppia alle chitarre per un’altra potente razione di cadenzato electric blues, dove la solista è ben spalleggiata dall’armonica e la band mostra la sua passione per le 12 battute in modo chiaro. On This Life Train, tra pesci gatto e pescatori assonnati, ci porta ancora sui territori cari ai Canned Heat, con un bel groove rotondo del basso che ancora il suono e c’è anche il primo intervento della solista in modalità slide. E anche Naked Born Blues rimane in questo mood incalzante, con il ritmo che sale in un crescendo irresistibile grazie anche alle evoluzioni dell’armonica e ai tocchi felpati e minimali della chitarra che poi libera un breve solo nel finale del brano. Sugar Lines è più elettroacustica e raccolta, ma sempre incalzante, mentre la lunga Beale Street Bound, ci porta in una delle strade più famose di Memphis, per l’immancabile slow lancinante che non può mancare in qualsiasi disco blues che si rispetti, e armonica e chitarra si sfidano e si intrecciano come vuole il canovaccio del genere.

Livin’ On Titanic, buia e cupa, dipinge un mondo quasi senza speranza, che sta per affondare come il famoso transatlantico, il tutto a tempo di shuffle, con l’armonica di Tondo ancora in bella evidenza; e pure in Black Stars Blues non è che l’ottimismo prevalga, ma d’altronde il blues ha sempre raccontato storie dure e spesso con poche speranze, e il bottleneck iniziale minaccioso in questo brano è molto pertinente all’atmosfera scura e ombrosa del pezzo, con il titolo della canzone ripetuto coralmente e ossessivamente da tutta la band. Mentre l’atmosfera sonora poi si stempera nella ballata corale e quasi hendrixiana di Still Walkin’ Down South, con una slide insinuante che poi si impadronisce del brano nella seconda parte, al solito ben sostenuta dal soffio vigoroso dell’armonica. E poi arriva il wah-wah a manetta di una violenta e selvaggia Missing Bones, altro episodio doloroso e poco consolatorio di un disco che a livello testuale offre poche speranze all’ascoltatore, ma hey ragazzi, è il blues! Per fortuna che nel boogie scatenato di The Way I Want To Live Cagnoni ci ricorda che siamo tutti destinati a diventare vecchi, e su queste “note di speranza” Galli e Tondo inscenano un altro bel duetto armonica-chitarra. Finale romantico con una bella I’m Rolling Down Away, ballata malinconica, quasi con accenti soul, anche se il blues prevale nel mood della canzone, grazie all’immancabile duopolio dei due solisti che si dividono democraticamente gli spazi, come peraltro accade in tutto il disco. Non dominerà l’ottimismo ma la buona musica comunque non manca.

Bruno Conti  

Come Direbbe Lui: “Thank You Dave”! Boo Boo Davis – Oldskool

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Boo Boo Davis – Oldskool – Black & Tan/Ird

Questo signore viene da Drew, Mississippi, dal cuore della zona del Delta, una delle zone più ricche per la coltivazione del cotone nel Sud degli Stati Uniti e, ovviamente, una delle patrie del Blues: il nostro James Davis (ma per tutti Boo Boo) è nato lì nel settembre del 1943, ed è considerato uno degli ultimi personaggi che hanno imparato a suonare e cantare mentre lavorava nelle piantagioni, per distrarsi dal durissimo lavoro. Ma non ha imparato a leggere e scrivere, o così narrano le leggende (non ho contatti di prima mano per verificare, ma così dicono le sue biografie e anche le note del dischetto), comunque in qualità di figlio di Sylvester, che anche lui coltivava il cotone, ma era appassionato di blues, Davis sin da bambino ricorda di aver visto passare nella sua casa gente come John Lee Hooker, Elmore James e Robert Pete Williams. E a quella età suonava già l’armonica e aveva sviluppato una voce potente, sia per essere sentito nei campi, quanto per cantare in chiesa. Negli anni ’60 e ‘70 Boo Boo e i suoi fratelli se ne andarono a nord verso St Louis e come Davis Brothers Blues Band per 18 anni accompagnarono nei club i musicisti che gravitavano intorno a quell’area, anche gente importante come Chuck Berry, Albert King, Ike Turner e molti altri.

Come parecchi bluesmen è stato un “late starter”, i primi dischi a nome proprio escono negli anni 2000, e da allora ne ha pubblicati una decina, nove per la precisione, tutti per la olandese Black & Tan (un paio con titoli che fanno riferimento alla sua biografia, East St. Louis e Drew, Mississippi), caratterizzati da uno stile molto semplice ma efficace, spesso basati sulla formula classica della tradizione, come è anche per questo nuovo album, fin dal titolo, Oldskool. Nuovo album che potrebbe essere il suo migliore in assoluto, undici pezzi registrati dal vivo in studio, in una unica sessione di registrazione, cinque ore e tutte le canzoni della serie buona la prima, anche perché la seconda non ci sarà. Una delle cose che mi ha incuriosito (e penso anche a voi, so lo ascolterete, cosa che vi consiglio) è cercare di capire chi sia questo Dave che viene ringraziato a piena voce al termine di quasi tutti i brani, considerando che i musicisti che suonano con lui sono John Gerritse alla batteria e Jan Mittendorp alla chitarra, produttori, visto l’approccio minimale, non ce ne sono, e quindi? E quindi “Dave” è una sorta di spirito guida benevolo, un alter ego di Davis, che riceve i ringraziamenti del nostro per l’ispirazione che gli ha fornito in ogni brano.

E l’ispirazione, la freschezza, la semplicità assoluta dei suoni sono l’asset vincente di questo Oldskool, che partendo dalle radici di Charley Patton e dei primi grandi bluesmen, approda a un suono comunque elettrico e vibrante, perché i tre ci danno dentro alla grande, Boo Boo Davis con il suo vocione potente e la sua armonica lineare, gli altri due con un approccio che a tratti potrebbe ricordare quello degli Houserockers di Hound Dog Taylor, per esempio nel boogie scatenato di Call Me A Clown, che parte a tutta velocità e poi accelera ulteriormente, riproducendo il sound del grande musicista di Chicago (che però era nato anche lui a Natchez, una piccola cittadina lungo il Mississippi), con una armonica a sostituire la seconda chitarra, ma lo spirito è quello, niente basso, solo tanta grinta e divertimento https://www.youtube.com/watch?v=C9PRpFLPluI . Anche Elmore James riceve un omaggio nella cavalcata slide della tiratissima Lucky Man, ma non manca il classico groove del blues urbano elettrico di Chicago nell’iniziale Hold Your Head Up, dal sound primigenio alla John Lee Hooker (con “Dave” come di consueto ringraziato profusamente a fine brano) https://www.youtube.com/watch?v=ZO0ho2R-c8E .

Poderosi esempi di blues elettrico sono anche la divertente Boo Boo Fool e Got My Love, con Davis che all’inizio dice agli altri musicisti “Sapete cosa fare!”, e i tre eseguono, suonando un blues ruvido e senza pietà che non prende ostaggi, voce catturata dallo stesso microfono che amplifica l’armonica, quindi un filo lontana e leggermente e volutamente distorta e grezza, ogni tanto un minimo di eco, il tutto per catturare lo spirito del momento. Oldskool, la canzone, con i ritmi dello slow blues, mentre Where We Gonna Go è più ritmata e ipnotica, ma lo spirito è quello sciamanico e ripetitivo del John Lee Hooker citato o dei predecessori che suonavano il blues acustico nei Juke Joints lungo il Mississippi. In fondo i titoli non sono importanti, perché come si può immaginare i testi sono semplici e ridotti al minimo, ma lo spirito e il suono che escono da queste registrazioni, tutto groove e feeling, sono quelli di uno degli ultimi grandi praticanti del blues classico. Come direbbe Boo Boo “Thank You Dave”!

Bruno Conti

La Via Italiana Al Blues 3: Indipendente E “Alternativo”! Snake Oil Ltd – Back From Tijuana

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Snake Oil Ltd – Back From Tijuana – Killer Bats/Riserva Sonora 

Sono un po’ in ritardo perché il CD è “uscito” da qualche mese ma sono qui a parlarvi di una nuova, allegra, rumorosa, divertente e preparata, brigata di musicisti che si dedicano alla divagazione del Blues Made In Italy. Nuovi, almeno per chi scrive e, presumo, per i lettori del Blog, esclusi i liguri, genovesi nello specifico. I quattro, classica formazione a tre più cantante, i cui nomi probabilmente non diranno molto ai più, ma che per rispetto di chi fa musica con passione ricordiamo: Andrea Caraffini e Zeno Lavagnino (che nel frattempo ha lasciato il gruppo) sono la sezione ritmica, mentre Stefano Espinoza è il chitarrista e last but not least Dario Gaggero, il cantante, nonché autore delle divertenti notizie che punteggiano il loro sito  http://snakeoillimited.altervista.org/, e, nelle proprie parole, “fondatore e Leader Massimo degli Snake Oil Ltd., laureato col massimo dei voti all’ Università della Terza Mano di Fatima, sommo conoscitore di filtri d’amore, rappresentante esclusivo per l’Europa dell’Olio di Serpente più efficace e miracoloso del Globo Terracqueo”. Ma i giovani (almeno all’apparenza delle foto, meno forse Gaggero che vanta pure una collaborazione più “seria” con i Big Fata Mama), sono anche preparati e quasi enciclopedici nella scelta del loro repertorio che, partendo dal blues, sconfina nel rockabilly, nel R&R, nel voodoo rock delle paludi della Louisiana, meno marcato di quello di Dr. John, forse più deferente verso Fats Domino, nume tutelare della band, insieme a Bo Diddley, Hound Dog Taylor, Howlin’ Wolf, con qualche reminiscenza di Tav Falco, a chi scrive (se no cosa sto qui a fare) ricordano anche il sound dei primi dischi di Robert Gordon con Link Wray, o dei primissimi Dr. Feelgood, quelli più deraglianti di Wilko Johnson.

Ma poi la scelta del repertorio cade anche su brani “oscurissimi” tratti da vecchi 45 giri anni ’50 o da compilation di etichette poco conosciute, pure se la grinta e la velocità con cui vengono porti sta a significare la passione, che rasenta la devozione, di questi allegri signori che probabilmente fanno musica per divertirsi e, ovviamente, finiscono per divertire i loro ascoltatori. Anche l’idea di esordire con un disco dal vivo non è peregrina: Back From Tijuana/Live From The Sea è stato registrato ai Bagni Liggia di Genova Sturla, che sono più rassicuranti, presumo, delle stradine di New Orleans e anche temo delle paludi della Louisiana, ma l’aria di festa collettiva che si respira nei solchi digitali di questo album è assolutamente contagiosa anche per chi non era presente all’evento. Loro orgogliosamente annunciano che la prima tiratura del CD è andata esaurita e ne stanno preparando uno nuovo in studio.

Se nel frattempo  vi volete sparare, ad alto volume, una carrellata nelle origini del rock, qui trovate un po’ di tutto: dal blues del Delta di Son House, con l’iniziale Grinnin’ On Your Face ad una Give Back My Wig che dai solchi dei dischi Alligator di Hound Dog Taylor plana sulle tavole di un locale genovese, con la grinta del pub-rock tinto punk dei Feelgood, mista a sonorità Gordon-Wray e persino Blues Brothers, The Greatest Lover In The World è un Bo Diddley “minore” fatto alla Elvis primo periodo, quindi bene, Ask Me No Questions faceva la sua porca figura in In Session, il disco postumo di Albert King con Stevie Ray Vaughan e la solista di Espinoza qui viaggia che è un piacere.This Just Can’t Be Puppy Love, Leopard Man, Going Down To Tijuana, Bow Wow, non nell’ordine in cui appaiono nel disco, appartengono alla categoria “da dove cacchio sono uscite?”, ma ci piacciono. Too Many Cooks apparterebbe alla categoria, ma visto che l’ha recuperata anche Mick Jagger per il suo Very Best, da una inedita session con Lennon, lo mettiamo nella sezione chicche. Dove si aggiunge ad  uno-due tra la trascinante Whole Lotta Loving del vate Fats Domino e la cattivissima Evil (is going on) di mastro Howlin’ Wolf. Aggiungete il divertente R&R di Wynonie Harris Bloodshot eyes, The Drag, un brano degli Isley Brothers che ha la stamina dei più famosi Shout e Twist & Shout, senza dimenticare la conclusiva Let The Four Wind Blows, altro classico di Domino, oltre otto minuti, uno di quei brani che non ne vogliono sapere di finire. Se lo riuscite a trovare (magari sul loro sito citato prima, vista la distribuzione difficoltosa) sono soldi spesi bene, veramente bravi, anche qui siamo nella categoria morfologica “italiani per caso”!

Bruno Conti

In Belgio Non Solo Ciclisti, Anche Bluesmen Bravi! Guy Verlinde – Better Days Ahead

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Guy Verlinde – Better Days Ahead – Dixiefrog/Ird

Lo ammetto, ero già pronto a della facile ironia: mancava solo il bluesman belga per completare la mia “collezione” di rappresentanti delle 12 battute in giro per il mondo (di recente arricchita con austriaci e svedesi). Chi è questo Guy Verlinde? Un ciclista forse … al limite se fosse stato Van Der Linden avrebbe potuto essere l’organista degli Ekseption, ma quelli erano olandesi. E invece questo signore, con lo pseudonimo Lightnin’ Guy, ha già fatto parecchi album, gli ultimi due per la Dixiefrog, che peraltro nello spazio sul proprio sito ufficiale riesce anche a ciccarne il nome, scrivendolo senza n, Lightin’ Guy! Il nostro amico non è più un giovanotto, veleggia verso i 40 anni,  ha già pubblicato sei album negli ultimi anni, vincendo tutti i premi disponibili: come miglior musicista blues belga (giustamente direte voi, sì ma la concorrenza?), piazzandosi anche al 4° posto agli European Blues Awards del 2012 e vincendo il premio come miglior Live Blues Act nel 2014. Nell’Europa del Nord dove è sempre in tour come un disperato è in effetti una sorta di celebrità, oltre al Belgio, all’Olanda (dove è stato registrato questo nuovo Better Days Ahead), anche Germania e Francia, ma pure Austria, Lussemburgo e Slovacchia vengono visitati dal buon Guy.

Nel frattempo, mentre scrivo queste note, sto ascoltando il CD, e devo ammettere che è piuttosto buono, non si può gridare al miracolo, ma è decisamente valido: come ricorda lui stesso nelle note del CD le sue radici non si trovano certamente nel fango della zona tra Clarksdale e il Mississippi o lungo le strade di Chicago, Illinois, ma la sua visione del blues, non essendo “Vecchia scuola” e quindi più contemporanea, tiene conto però della lezione del passato (per esempio alla musica di uno come Hound Dog Taylor ha dedicato un intero album dal vivo) e citando il famoso motto del grande B.B. King ricorda che il blues è una musica che parla “ di un uomo buono, a cui tutto va male e cerca di migliorarsi”, più o meno. Quindi contano i sentimenti e anche se lo stile sonoro che usa Verlinde è più contemporaneo, non per questo è meno valido. La voce è interessante, morbida a tratti, più grintosa in altri, da bianco comunque, lo stile chitarristico è molto completo, in grado di spaziare dalla tiratissima apertura di Better Days Ahead, dove la chitarra viaggia spedita e sicura su una ritmica di chiaro stampo rock, con i continui rilanci della solista, dal sound pulito e ricco di tecnica, anzi se tutto il disco fosse al livello di questa apertura, parlerei di piccolo gioiellino. Comunque  il resto del disco è più che buono, nelle derive più ortodosse di una Heaven Inside My Head, dove Guy sfodera la sua chitarra Resonator e Steven Troch aggiunge una armonica tosta, o nel rock-blues tirato di Wild Nights dove vengono evocate atmosfere quasi alla Rory Gallagher, o dell’amato Hound Dog Taylor via Thorogood, e comunque vicine pure al classico british blues elettrico, innervato ancora dalla ficcante armonica di Troch.

Al sound giova sicuramente la presenza di un secondo chitarrista, tale Luc Alexander, che ampia lo spettro sonoro delle canzoni, tutte firmate da Guy Verlinde.  Nei momenti più riflessivi, quasi rootsy, di Sacred Ground, dove la resonator slide del belga è circondata da acustiche, organo e dalle voci di un paio di coriste femminili, spesso presenti nelle canzoni del disco, si respira comunque un aria che non è mai troppo deferente verso il blues, ma lo arricchisce di spunti cantautorali. Into The Light, con le due chitarre a rispondersi dai canali dello stereo ha la stamina del rock classico, con l’organo che aggiunge tratti quasi heavy, prima di lasciare un breve spazio solista alla chitarra  in modalità slide, sembra quasi di sentire i Ten Years After dei bei tempi che furono. Non mancano blues più canonici, come lo shuffle di Learnin’ How To Love You, con chitarra e armonica di nuovo in primo piano, ballate mid-tempo come la piacevole Call On Me, sempre con la slide di Verlinde in bella evidenza o il folk-blues meticciato da sprazzi di elettricità della sinuosa The One. Niente per cui stracciarci le vesti, ma questo signore si ascolta con piacere. Feel Alive vira nuovamente verso cavalcate blues-rock, senza la veemenza di un Thorogood ma pervase da un buon lavoro delle onnipresenti chitarre che danno un feeling quasi sudista, Release Yourself From Fear è un altro classico esempio di buon blues con ampie dosi di rock e Don’t Tell Me That You Love Me è una inconsueta morbida ballata che conclude l’album su una nota più riflessiva. Per chi vuole conoscere la via belga al Blues!

Bruno Conti   

“Piccoli Alligatori” Con Pettinature Afro! Selwyn Birchwood – Don’t Call No Ambulance

selwyn birchwood don't call no ambulance

Selvyn Birchwood – Don’t Call No Ambulance – Alligator

Dopo Jarekus Singleton http://discoclub.myblog.it/2014/05/10/dei-futuri-del-blues-elettrico-jarekus-singleton-refuse-to-lose/ un altro piccolo “Alligatore” scoperto da Bruce Iglauer, si chiama Selwyn Birchwood, babbo di Trinidad Tobago, mamma inglese, una capigliatura afro che, non so perché,  mi ricorda qualcuno! Anche lui un “giovane” di 29 anni, un album indipendente, FL Boy, uscito nel 2011 e ora questo Don’t Call No Ambulance, pubblicato dall’etichetta di Chicago; carriera perfettamente parallela con quella di Singleton, e sono anche parimenti bravi, ancorché diversi. Non so per quanto la Alligator riuscirà a presentare nuovi talenti con questa frequenza, ma finché dura approfittiamone. Vincitore nel 2013 dell’International Blues Challenge e dell’Albert King Guitarist Of The Year Award, che non so che rilevanza abbiamo, ma sulla carta suonano bene. messo sotto contratto da Iglauer, il nuovo disco è stato presentato come “una finestra sul futuro del Blues”, che mi ricorda tanto un’altra frase famosa coniata per il nostro amico Bruce. Nato nel 1985 a Orlando, Florida, la prima chitarra a 13, teenager nel periodo dell’hip-hop, del metal e del grunge, sulla strada di Damasco scopre Jimi Hendrix, e di conseguenza che quest’ultimo era stato a sua volta influenzato dal Blues. E qui è fatta: inizia ad ascoltare Albert King, Freddie King, Albert Collins, Muddy Waters e soprattutto Buddy Guy. E come in tutte le favole moderne Buddy Guy arriva a Orlando per fare un concerto e Birchwood si trova lì, in prima fila. Un amico gli indica un chitarrista che vive nei dintorni, il texano Sonny Rhodes, che diventa il suo mentore, una decina di anni, per finire scuole ed università e fare la giusta gavetta e siamo ai giorni nostri, il nome comincia a circolare e la sua reputazione lo precede, il disco ha tutti gli elementi al posto giusto per soddisfare gli amanti di tutti i tipi di blues

Bastano pochi secondi dall’intro devastante di chitarra di Addicted e sarete catturati dalla grinta e dalla tecnica di Selwyn, uniti ad una ferocia sonora che ricorda in effetti alcuni dei chitarristi ricordati sopra nel loro mode più elettrico, Collins, Guy, i due King, aggiungete una voce “vissuta”, ben al di là dei suoi 29 anni, e la capacità di prodursi in proprio con ottimi risultati anche a livello sonoro non guasta. La sua band lo asseconda alla grande: la solida sezione ritmica di Donald “Huff” Wright, bassista dal sound straripante e Curtis Natall, che sa alternare groove raffinati e violente scariche di energia rock e blues, che aggiunti al sassofonista Regi Oliver regalano un suono quanto mai vario e poderoso. Don’’t Call No Ambulance è una sventagliata di boogie, a metà tra Hound Dog Taylor e il Thorogood più letale, con chitarra e sax che si sfidano a colpi di riff e di soli – Walking In The Lion’s Den è l’unica oasi di tranquillità nell’album, Oliver prima al flauto e poi al sax, per una atmosfera molto waitsiana, ricercata e notturna.

Ulteriore cambio di tempo per The River Turner Red, un blues misto a rock e R&B, con fiati e la slide aggiunta di Joe Louis Walker, ospite per l’occasione, che fa numeri di grande virtuosismo, Love Me Again è una sorta di soul ballad di grande fascino, cantata con passione da Selwyn Birchwood, voce espressiva e grande fascino, la chitarra qui è molto raffinata, tutta giocata sul tocco e sui toni. Tell Me Why con il nostro amico che opera alla lap steel è forse un esempio di come Hendrix si sarebbe comportato se si fosse cimentato con lo strumento, raffiche di note sparate dalla sua chitarra con una tecnica che ti lascia stupefatto per i suoni che riesce a creare, tipo quelli del Robert Randolph più intricato o di Jeff Healey quando lasciava correre le mani. Ancora lap steel, ma applicata al blues più classico, per una Overworked and Underpaid dove fa capolino l’armonica di RJ Harman e il suono si fa più raccolto, quasi acustico-

She Loves Me Not è semplicemente una bella canzone di stampo soul, cantata anche con un leggero falsetto da Selwyn, bella melodia e bel assolo di sax di Oliver. Ci rituffiamo nel blues più torrido con una splendida Brown Paper Bag, sono quasi dieci minuti di slow blues, l’organo di Dash Dixon che sottolinea le evoluzioni chitarristiche di un Birchwood maestoso, con la solista che sale e scende di tono, rilancia le note e le atmosfere con una padronanza dello strumento stupefacente, del tutto degna dei grandi axemen del passato, bianchi e nero che fossero. Queen Of Hearts è un funky travolgente, tra gli Headhunters di Herbie Hancock, la Band Of Gypsys hendrixiana e il James Brown o il George Clinton più “liberi”, basso slappato, chitarra ritmica con wah-wah, sax jazzato il “solito” assolo assatanato di Selwyn. Falling From The Sky forse l’unico brano non memorabile di questa raccolta, ma onesto e di buona qualità, prima della chiusura frenetica con una Voodoo Stew che viaggia nuovamente a tempo di boogie, con il fantasma del miglior Hound Dog Taylor a due passi mentre controlla la lap steel che sembra tanto una slide, nelle sue poderose evoluzioni solistiche, grandissima tecnica e feeling notevole. Lo aspettiamo al prossimo album, ma già ora la classe e la stoffa non mancano, consigliato vivamente.

Bruno Conti

Ritorno Al Passato! John & Sylvia Embry – Troubles

john & sylvia embry

John & Sylvia Embry – Troubles – Delmark/IRD

CD veramente strano questo Troubles, l’esordio in digitale per due musicisti, marito e moglie, John e Sylvia Embry, che non sono più sulla faccia della terra da lunga pezza. Lui John ci ha lasciato nel lontano 1987, lei, Sylvia, è morta di cancro nel 1992, ma ora, dalle nebbie del tempo, emerge questo disco che raccoglie l’unico LP, After Work, pubblicato a livello locale dalla Razor Records nel 1979. La Delmark lo rende disponibile nuovamente, integrato da un 45 giri d’epoca e da alcuni brani presi qui è là, in studio e dal vivo. La registrazione è nuda e cruda, ma ci presenta due talenti misconosciuti della scena musicale blues di Chicago. John Embry, chitarrista elegante, in possesso anche di un solismo spesso tagliente e lancinante, non dissimile da quello di altri grandi della scena locale, da Jimmy Dawkins a Magic Sam, passando per il primo Buddy Guy http://www.youtube.com/watch?v=kKiAM_FdtLo . Queen Sylvia Embry, nata Sylvia Lee Burton, cantante (e bassista) dalla voce poderosa, intrisa di sapori gospel e soul, una shouter potentissima in grado di rivaleggiare con gente come Koko Taylor, Big Mama Thornton o cantanti soul come Irma Thomas, Etta James e le altre grandi dell’epoca.

sylvia embry

Sentitevi la cover di I Found A Love, un classico dei Falcons prima e di Wilson Pickett poi (sempre lui era!), proposto qui in medley con Rainbow, un brano della coppia Chandler/Mayfield, in duetto con il batterista del disco Woody Williams, che la stimola nel classico call and response della migliore soul music. Ma la Embry è a suo agio anche nel boogie blues alla Hound Dog Taylor di I’m Hurtin dove John si cimenta anche alla slide o nei tirati blues iniziali, Wonder Why e Troubles, uno slow “spaziale” dove l’interazione voce-chitarra è vicina alla perfezione http://www.youtube.com/watch?v=_1OxP1ZnJ5o , tipico Chicago blues elettrico di ottima fattura, che portano entrambi la sua firma. Il “Wicked Pickett” viene nuovamente omaggiato in una versione super funky di Mustang Sally, dove Woody Williams guida la prima parte sul basso pompatissimo della Embry e Sylvia lo “attizza” nella seconda parte, in una perfetta esemplificazione dei manuali del soul e del blues più sanguigni (anche John ci mette del suo).

johnny guitar embry

Gonna Find My Way è un blues dalla chitarra tintinnante e con la voce fantastica della Embry in grande evidenza, come la seguente Early Time Blues. Avrebbero fatto la loro bella figura a fianco del materiale originale della Chess anni ’60 e ’70. La registrazione è volutamente “primitiva” ma ha una freschezza invidiabile, il duetto con il secondo chitarrista Riler Robinson nello strumentale Razor Sharp ha una vitalità che risalta anche dopo tutti questi anni. In Keeps Your Hands Off Her sembra che il tecnico sia facendo delle prove con i livelli della voce mentre il brano viene registrato in presa diretta. Blues This Morning conclude questa sezione di cinque brani che non era stata pubblicata in precedenza ma non ha nulla da invidiare al resto del disco. After Work che dava il titolo al LP originale è un sinuoso strumentale che ci permette di gustare la grande tecnica alla solista di John Embry http://www.youtube.com/watch?v=WpsuE4Gd_rs , come pure la seguente Worry Worry cantata benissimo da Riler Robinson, un brano che non ha nulla di meno a livello qualitativo di alcune perle del repertorio dei grandi citati prima, Dawkins, Guy e Magic Sam. Gli ultimi due brani come il breve frammento strumentale 62nd St. Lau sono registrati dal vivo. Poste in conclusione ci sono I Love The Woman e Johnny’s Bounce che erano i due lati del 45 giri pubblicato sempre per la Razor nel 1979. Una preziosa “scoperta” per gli amanti del buon Blues, caldamente consigliato, meglio dell’80% dei dischi di blues elettrico che escono ai giorni nostri!

Bruno Conti  

Un “Ragazzaccio” Dal Mississippi! Magic Slim And The Teardrops – Bad Boy

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Magic Slim And The Teardrops – Bad Boy – Blind Pig Records

Morris Holt, in arte Magic Slim, viene considerato uno degli ultimi grandi vecchi del Blues elettrico classico (dal sottoscritto parzialmente). Chitarrista e cantante, in pista dalla metà degli anni ’50, come bassista di Magic Sam, che fu il suo mentore, oltre ad essere quello che gli diede il soprannome, Slim, come moltissimi altri bluesmen, non ha avuto una carriera facile, tanto da pubblicare il suo primo album, Born On A Bad Sign, solo nel 1977 (40 anni, per la media, un “giovane”) e per di più per una piccola etichetta francese, la MCM. Poi, da allora, girando più o meno molte delle etichette specializzate, Black and Blue, Alligator, Wolf Records, Rooster, fino ad arrivare alla Blind Pig, ha pubblicato più di 35 album, compresi live e antologie. Il grosso del materiale è uscito proprio per la Blind Pig, dal 1998 ai nostri giorni (ma aveva già fatto qualcosa con loro in precedenza), anche se, forse, il suo periodo migliore coincide con gli anni che vanno dal 1982 al 1995, quando John Primer era il secondo chitarrista della band.

Non a caso il gruppo ha la classica formazione a quattro, tipica di molte delle migliori band nere di blues degli anni ’60 e ’70 (e fino ai giorni nostri), con un secondo chitarrista ritmico che spesso sale anche al proscenio come solista e altrettanto di frequente è un bianco (penso a Margolin con Waters, Debbie Davis con Albert Collins, per citarne un paio), con un sound definito non a caso “houserockin’ blues”, che ha la grinta del R&R e le battute del blues, e di cui Hound Dog Taylor, anche senza bassista, era un maestro. Ma ovviamente nella musica di Magic Slim convivono anche molte altre influenze, dal blues urbano di Chicago a quello del Mississippi, zona da cui Holt proviene. Non a caso nel nuovo album, nella scelta dei brani, appaiono un po’ di tutti gli stili citati.

A scanso di equivoci, ripeto, secondo me Magic Slim non è uno dei grandi maestri della “musica del diavolo” ma sicuramente uno dei comprimari più geniali, prolifici e, allo stato attuale, ancora in gran forma. Bad Boy, un tipico Chicago Blues ruvido e chitarristico, scritto da un altro che di fortuna non ne ha avuta molta, Eddie Taylor, permette di gustare il bel vocione di Magic, ancora potente e incazzato, e il suo stile di chitarra, conciso ma efficace; gustoso il call and response nel ritornello con i componenti del gruppo. Someone Else Is Steppin’ In, in origine era un brano soul scritto da Denise Lasalle ma qui diventa un blues attizzato e cattivo, un po’ sullo stile del suo maestro Magic Sam o di Buddy Guy, anche se l’assolo non ha le note lancinanti dei due grandi chitarristi. Detroit Junior, non è uno dei primi nomi che vengono in mente quando si parla di blues chitarristico (anche perché era un pianista), ma la sua I Got Money fa un figurone nell’interpretazione serrata e con doppia chitarra di questo CD, con la sezione ritmica che pompa alla grande. Sunnrise Blues, scritta dallo stesso Holt, ha sempre quello stile pungente e saltellante tipico del blues urbano mentre Girl What You Want Me To Do, un traditional di autore ignoto, con un abbrivio che avrebbe fatto la felicità dei primi Stones, ha un ritmo incalzante.

Il libretto riporta come sesto brano una Hard Luck Blues ma sul CD parte una sparatissima Highway Is My Home, puro Chess Sound di Howlin’ Wolf che era anche il titolo di uno dei primi dischi di Magic Slim: poco male, perché il brano è uno dei più torridi del disco e si merita la citazione. Ottima anche Gambling Blues, un altro gagliardo originale di Holt, che poi ci regala la sua versione di Chanpagne And Reefer, il classico di Muddy Waters che è uno dei cavalli di battaglia di Buddy Guy, ma lì siamo su un altro pianeta. How Much More (che in questa versione guadagna un Long, ma i brani Blues hanno titoli e paternità spesso dubbie), dovrebbe essere uno standard di JB Lenoir che qui diventa appunto un houserockin’ blues. Matchbox Blues è quella di Albert King, versione grintosa ma non memorabile, anche se la chitarra viaggia, mentre Older Woman è un brano “contemporaneo” di Lil Ed Williams ma sembra autenticamente “antico” come gli altri classici che costellano questo album. Country Joyride è l’ultimo brano originale firmato da Magic Slim per questo CD, un veloce  boogie strumentale, sia per tempo che per durata, che conclude su una nota sostenuta questo disco che sicuramente appagherà gli appassionati del genere Blues. Per gli altri, forse, astenersi.

Bruno Conti 

Piccolo Ma Tosto! Lil’ Ed And The Blues Imperials – Jump Start

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Lil’ Ed and The Blues Imperials – Jump Start – Alligator

Lil’ Ed And The Blues Imperials sono una delle migliori formazioni “miste” (bianchi e neri) della scena blues attuale. E se è per questo lo sono da una trentina di anni: formata dai “fratellastri” Ed Williams e James “Pookie” Young, che sono uno la custodia dell’altro, come dimensioni, con Williams ovviamente il piccoletto, come ricorda il suo soprannome. Nativi di Chicago e con un imprinting nel DNA Blues, essendo i nipoti di J.B. Hutto, Lil’ Ed, con immancabili cappellini al seguito, e la sua band, sono uno dei punti di forza della Alligator, dal 1986, anno dell’esordio con il vorticoso Roughhousin’ .Da allora non hanno registrato moltissimo (ma neppure poco), questo è l’ottavo album, esclusi un paio di album solisti per Williams, nella seconda metà degli anni ’90, quando aveva sciolto momentaneamente il gruppo.

Lo stile però è rimasto sempre quello: ritmi tirati ma che variano tra jump, blues classico, qualche virata swing, un pizzico di soul, boogie e R&R, il tutto condito dalla slide di Ed Williams che è uno dei migliori virtuosi dello strumento attualmente in circolazione. Il secondo chitarrista, il bianco Michael Garrett, si occupa della ritmica e raramente sale al proscenio per l’occasionale parte solista, in questo Jump Start un paio di volte: nel boogie swingato Jump Right In dopo l’immancabile intervento della slide si ritaglia lo spazio per il secondo breve assolo e in Weatherman, un vorticoso brano che ricorda i ritmi di Hound Dog Taylor, Elmore James e J.B. Hutto, duetta con Williams in quello che è uno dei brani migliori del CD.

Per il resto Lil’ Ed si occupa di tutto, produzione (con Bruce Iglauer), composizione, 13 dei 14 brani, voce solista, sicura e potente e soprattutto una slide micidiale che lo pone come “ultimo” anello di quella catena di nomi citati poc’anzi come uno dei virtuosi imprescindibili dell’attrezzo: dopo i ritmi serrati tra R&R e boogie dell’iniziale If You Were Mine i tempi si fanno addirittura frenetici nella successiva Musical Mechanical Electrical Man con gli angoli sonori del sound che non sono mai smussati, ma ruvidi e aspri con la slide che impazza ovunque. Ma Lil’ Ed ed i suoi soci sono capaci anche di tuffarsi nel più classico Chicago Blues (non perché il resto non lo sia, ma più classico) come nella poderosa Kick Me To The Curb dove la voce assume toni quasi alla Joe Louis Walker o Buddy Guy ma la slide non si allontana mai troppo dall’orizzonte sonoro. Concetto ribadito nell’eccellente slow blues di You Burnt Me dove fa capolino anche l’organo di Marty Sammon e, per una volta, il piccolo Ed si cimenta alla solista senza bottleneck, peraltro sempre con ottimi risultati, e che voce!

Anche House of Cards e Born Loser confermano le qualità d’insieme di questo album che mi sembra sia uno dei loro migliori dai tempi di Get Wild (1999). Detto di Jump Right In, c’è un altro “lentone” tirato e intenso come Life Is A Journey dove la slide di Williams ha più spazio per le sue evoluzioni nella parte centrale. Molto buone anche World Of Love e l’unica cover presente, If You Change Your Mind, l’omaggio a J.B. Hutto, che dopo quello a Hound Dog Taylor nel precedente Full Tilt e in quello prima ancora a Elmore James, conferma qual è la Santa Trinità nel Pantheon Slide di Ed Williams. Per l’occasione Marty Sammon sfoggia anche un pianino insinuante quasi d’obbligo per questo tipo di brano. No Fast Food, l’ulteriore slow My Chains Are Gone e Moratorium On Hate completano l’album che conferma il filotto di uscite di qualità della Alligator.

Bruno Conti    

I Was Born In Chicago…Studebaker John – Old School Rockin’

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Studebaker John – Old School Rockin’ – Delmark

Parafrasando l’incipit, l’attacco, di uno dei più famosi brani scritti da Nick Gravenites,  si potrebbe dire: “I was Born In Chicago in nineteen and forty-one “(che, curiosamente, non è l’anno di nascita né di Gravenites che l’ha scritta, né di Paul Butterfield che l’ha lanciata, ma probabilmente per motivi di rima con “gun”) e sostituendo la data con quella di Studebaker John (1952) otteniamo un altro illustre nativo della capitale del Blues elettrico, la Windy City.

L’oggetto di questo “spazio” prende il nome d’arte da una fabbrica di automobili americana che ormai non esiste più, ma anche lui è uno dei “nostri”, visto che il suo vero nome è John Grimaldi. Tralasciando le note biografiche Studebaker John ha una lunga carriera alle spalle, iniziata, come per molti altri ragazzi bianchi, con la scoperta, dopo il rock’n’roll, della musica nera per antonomasia, il Blues. Quindi Jimmy Reed, Freddie King, Slim Harpo ma anche gli Stones, gli Yardbirds, i Fleetwood Mac di Peter Green (in pellegrinaggio a Chicago) e poi Butterfield, Bloomfield, Dylan, Johnny Winter e molti altri. Ma per il nostro amico la miccia fu uno “sconosciuto” suonatore di armonica privo di un braccio, tale Big John Wrencher, che suonava regolarmente a Maxwell Street e poi anche il grande Hound Dog Taylor, quindi per non fare torto a nessuno ha imparato a suonare sia l’armonica che la slide, che poi è diventata il suo strumento principale.

Un altro aggancio con la città dell’Illinois è l’etichetta Delmark, l’ultima grande etichetta storica di Blues della città (e già, e l’Alligator qualcuno dirà? Ma quella è venuta dopo) alla quale Studebaker John è approdato da un paio di anni, dopo una lunga carriera con etichette come la Blind Pig, la Evidence e la Avanti. Se il disco precedente That’s The Way You Do era un omaggio al Blues più tradizionale con il nome di Maxwell Street Kings, questo Old School Rockin’, già dal titolo, indica un approccio più tirato, più elettrico, alle sue radici musicali, definirlo rock-blues è probabilmente esagerato ma i ritmi e la slide viaggiano spediti sulle traiettorie del Ry Cooder meno roots o dei vari gruppi con licenza di slide che sono nati negli ultimi anni e in quanto tale ha una carica più dirompente rispetto a prove in ambito più “tradizionale” di Studebaker.  

E quindi sin dall’iniziale Rockin’ That Boogie, con uno di quei titoli che spiegano chiaramente le intenzioni del brano, è una festa di slide e ritmi, con quell’approccio live in studio che ricorda i concerti (giusto qualche chitarra aggiunta in fase di registrazione, ma il minimo sindacale) e una voce vagamente alla Hiatt, senza la potenza dell’altro John ma con un bel tiro. Disease Called Love ha quel sound che ricorda le incisioni di Howlin’ Wolf per la Chess degli anni ’60, tra Spoonful e Evil. La lunga Fire Down Below (niente a che vedere con Seger), ma ci sono altri brani intorno ai 6 minuti, ci consente di ascoltare oltre alle consuete cavalcate con la slide anche un notevole assolo di armonica che mi ha ricordato il suono (tra i tanti) di John Popper dei Blues Traveler. Rockin’ Hot, molto cadenzata e Fine Little Machine dall’andamento Stonesiano sono tra i suoi cavalli di battaglia in concerto e alzano la temperatura del disco mentre Old School Rockin’ è un altro bel boogie “cattivo” alla Hound Dog Taylor. She Got It Right, tra Fabulous Thunderbirds e ZZTop è uno dei brani dove si sconfina (quasi) nel rock-blues sempre con quella voce alla John Hiatt e la chitarra che impazza alla grande. Deal With The Devil potrebbe essere una traccia perduta dei primi Canned Heat, Mesmerized vagamente latineggiante nei ritmi è più “trattenuta”.

Ma se devo essere sincero tra i 14 brani, tutti originali, che compongono questo album non ci sono punti deboli, tutta roba buona, tanto boogie, blues di qualità, un bel suono dalla slide guitar e dall’armonica di Studebaker John che centra con questo Old School Rockin’ probabilmente il miglior disco della sua carriera.

Da sentire, blues di quello giusto!

Bruno Conti