Se Elvis Era Il Re Del Rock’n’Roll, Chuck Era…Il Rock’n’Roll! Un Sentito Omaggio Da Uno Stone In Libera Uscita. Ronnie Wood & His Wild Five – Mad Lad: A Live Tribute To Chuck Berry

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Ronnie Wood & His Wild Five – Mad Lad: A Live Tribute To Chuck Berry – BMG CD

In questo mese di Novembre sono usciti ben due tributi al grande Chuck Berry, uno dei pionieri assoluti del rock’n’roll, nonostante non ricorrano particolari anniversari riguardanti il musicista di St. Louis scomparso nel 2017: dell’ottimo album del bluesman Mike Zito intitolato Rock’n’Roll (con una marea di ospiti) se ne occuperà prossimamente Bruno, mentre io oggi vi parlo di questo Mad Lad: A Live Tribute To Chuck Berry, che documenta appunto un concerto tenutosi circa un anno fa, il 13 Novembre 2018, al Tivoli Theatre di Wimborne (una cittadina nel sud dell’Inghilterra) ad opera di Ronnie Wood e dei suoi Wild Five. Dei membri attuali dei Rolling Stones Wood è sicuramente quello che negli anni è stato più attivo da solista, con più di dieci album tra studio e live (anche se un paio pubblicati prima di prendere il posto di Mick Taylor all’interno della storica band britannica), con una qualità media anche più alta di quella di Mick Jagger, cosa bizzarra se consideriamo che gli Stones molto raramente hanno consentito all’ex Faces di collaborare con loro alla stesura delle canzoni (a memoria credo non si arrivi a cinque brani, con Black Limousine come episodio più famoso).

Per questo album però Ronnie ha voluto fare qualcosa di diverso, omaggiando uno dei suoi eroi musicali di sempre, un lavoro che dovrebbe rappresentare il primo disco di una trilogia di tributi a grandi del passato che hanno avuto per il nostro un’importanza particolare (al momento non è dato sapere chi siano gli altri due artisti interessati, anche perché i relativi concerti si terranno a detta di Wood negli anni a venire: io punterei due euro sul fatto che uno possa essere Bo Diddley). Mad Lad è un album davvero piacevole e riuscito, con il nostro che assume il ruolo di band leader con buona autorevolezza, accompagnato da un gruppo, I Wild Five appunto, formato da elementi validissimi (lo strepitoso pianista Ben Waters, la sezione ritmica di Dion Egtved e Dexter Hercules, i sax di Antti Snellman e Tom Waters, ed i cori femminili di Amy Mayes e Denise Gordon); Ronnie, poi, è un chitarrista eccellente ed un cantante discreto, con una voce tra il dylaniano e lo scartavetrato: non sarà Jagger, ma tecnicamente se la cava meglio del collega Keith Richards. E poi in questo concerto Ronnie non è da solo, in quanto in tre pezzi chiama sul palco la brava Imelda May (gliel’ha presentata Jeff Beck?), che riscalda ulteriormente l’ambiente con la sua ugola scintillante https://discoclub.myblog.it/2010/11/24/musica-tradizionale-dall-irlanda-imelda-may-mayhem/ …anche se io una telefonatina all’amico Rod Stewart l’avrei fatta.

Prima di partire con la disamina del contenuto di questo album vorrei evidenziare l’unica magagna: il CD contiene 11 canzoni per circa 40 minuti di musica mentre nel concerto intero sono stati suonati 21 brani, comprendendo però anche cover di altri autori, ma almeno si potevano inserire tutti i pezzi di Berry, dato che di spazio sul dischetto ce n’era ancora (in particolare mancano Around And Around, No Particular Place To Go, Run Rudolph Run e Bye Bye Johnny, oltre a Roll Over Beethoven e Nadine che erano state suonate all’inizio dalla band senza il leader per riscaldare l’ambiente). L’album comincia con l’unico brano scritto da Wood per l’occasione, cioè Tribute To Chuck Berry, in realtà un pretesto per introdurre la serata citando ripetutamente il celebre riff chitarristico con il quale il rocker di colore apriva molte sue canzoni. I pezzi di Chuck iniziano con Talking About You, un rock’n’roll suonato con classe e rispetto, Ronnie sicuro e la band che lo segue spedita (e Waters che fa correre da subito le dita sulla tastiera a modo suo): il brano non è tra i più noti di Berry, ma l’alternanza tra classici e canzoni meno famose sarà il tema della serata.

Ronnie passa alla slide per la gustosa Mad Lad, uno strumentale suonato in maniera formidabile, con il nostro che fa i numeri e ci porta per qualche minuto nel più profondo Mississippi; arriva la May e si prende il microfono per una sontuosa Wee Wee Hours, un raffinatissimo blues lento, suonato dai Wild Five con una maestria degna di una band dei peggiori bar di Chicago, Waters strepitoso ed Imelda che ci mette una grinta notevole. La cantante irlandese resta sul palco per unirsi alle altre due coriste in una saltellante Almost Grown, in cui Wood si diverte un mondo nel botta e risposta vocale con le tre donzelle, cantando in maniera distesa e suonando la chitarra da vero rock’n’roller, mentre Waters continua con la sua eccezionale performance personale. Back In The USA è puro rock’n’roll, spigliato, trascinante e suonato come Dio comanda (e mi immagino Ronnie ad imitare il passo dell’oca di Berry), Blue Feeling è un altro strumentale di livello eccelso, puro blues con la premiata ditta Wood & Waters che è una delizia per il palato, mentre Worried Life Blues non è scritta da Chuck bensì da Maceo Merriweather (ma Berry l’aveva incisa per il lato B del singolo Bye Bye Johnny): altro blues eseguito con classe, eleganza ed uno stile misuratissimo da parte del leader.

Finale splendido a tutto rock’n’roll con un trittico da urlo formato da Little Queenie, Rock’n’Roll Music (questa ancora con la May alla voce solista) e Johnny B Goode, chiusura travolgente per un CD divertentissimo che omaggia con gusto e classe uno di quelli che il rock’n’roll lo ha letteralmente inventato.

Marco Verdi

Novità Prossime Venture 24. Non Uno Ma Addirittura Due Tributi A Chuck Berry In Uscita: Il Primo Di Mike Zito & Friends Il 1° Novembre, Quello Dal Vivo Di Ronnie Wood Con I Wild Five Previsto Per Il 15 Novembre

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Mike Zito And Friends – A Tribute To Chuck Berry – Ruf Records – 01-11-2019

Ronnie Wood With His Wild Five – Mad Lad: A Live Tribute To Chuck Berry with guest Imelda May – BMG – 15-11-2019

Per scrupolo ho controllato, ma prossimamente non ricorre alcun anniversario di Chuck Berry, né della data di morte e neppure di quella di nascita, evidentemente si tratta di una coincidenza, entrambi i musicisti hanno pensato che fosse giunto il momento di dedicare un tributo al grande musicista di St. Louis, uno degli inventori del Rock And Roll, e quindi a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro pubblicano i loro CD incentrati sullo stesso argomento, le canzoni di Chuck Berry.

In effetti Mike Zito (anche se ha svolto la sua attività tra Tennessee, Louisiana e, negli ultimi anni; Texas) è nato proprio nella città del Missouri che ha dato i natali anche a Berry: chitarrista e cantante (ah già, pure l’altro) è uno dei preferiti del sottoscritto e quindi del Blog, dove le recensioni dei suoi dischi, spesso eccellenti, sono di casa, l’ultimo, lo scorso anno è stato https://discoclub.myblog.it/2018/06/02/blues-rock-veramente-di-prima-classe-mike-zito-first-class-life/ ,, ma se seguite i link all’interno del Post, a ritroso potete andare a rileggervi tutti quelli dedicati a lui..Zito è anche un ottimo produttore e spesso comunque nei suoi dischi si trova la presenza di diversi ospiti, e altri sono quelli a cui ha prestato i suoi servigi, comunque la lista di quelli presenti in questo A Tribute To Chuck Berry, in uscita per la Ruf il 1° novembre è veramente impressionante. Registrate le basi ai Marz Studios di sua proprietà, situati a Nederland (?!?) la piccola cittadina del Texas dove vive Mike, con l’aiuto dell’ingegnere del suono David Farrell, ha poi provveduto ad inoltrarli ai 21 chitarristi, dicasi ventuno, che hanno provveduto ad aggiungere le proprie parti (come si usa quando non ci sono i soldi per trovarsi tutti insieme a registrare nella stessa sala) e rispedirle a Zito, che ha poi provveduto ad assemblarle, ed il risultato finale è quello che ascolteremo tra breve.

A parte un paio di presenze di cui francamente avrei fatto a meno (Testament, Guns N’ Roses? Ma per favore) la lista degli ospiti, come detto, è veramente impressionante. I brani sono 20, perché in uno, oltre allo stesso Mike, i solisti sono due, Josh Smith e Kirk Fletcher: del nipote di Chuck, tale Charlie Berry III, ignoravo l’esistenza, ma evidentemente è un segnale di continuità col passato, però non si possono non citare Walter Trout, Joe Bonamassa, Anders Osborne, Robben Ford, Eric Gales, Luther Dickinson, Sonny Landreth, Tinsley Ellis, Tommy Castro. In ogni caso ecco la lista dei brani e dei rispettivi solisti che appaiono in ciascuna canzone. E dai due brani che potete ascoltare il risultato mi sembra veramente notevole,

1. St. Louis Blues – Charlie Berry III
2. Rock N Roll Music – Joanna Connor
3. Johnny B Goode – Walter Trout
4. Wee Wee Hours – Joe Bonamassa
5. Memphis – Anders Osborne
6. I Want To Be Your Driver – Ryan Perry
7. You Never Can Tell – Robben Ford
8. Back In The USA – Eric Gales
9. No Particular Place To Go – Jeremiah Johnson
10. Too Much Monkey Business – Luther Dickinson
11. Havana Moon – Sonny Landreth
12. Promised Land – Tinsley Ellis
13. Downbound Train – Alex Skolnick
14. Maybelline – Richard Fortus
15. School Days – Ally Venable
16. Brown Eyed Handsome Man – Josh Smith/Kirk Fletcher
17. Reeling And Rocking – Tommy Castro
18. Let It Rock – Jimmy Vivino
19. Thirty Days – Albert Castiglia
20. My Ding A Ling – Kid Andersen

Il 15 novembre invece è prevista l’uscita di Mad Lad: A Live Tribute To Chuck Berry, un album di cui si parlava già da qualche tempo: si tratta di un concerto registrato nel 2018 al Tivoli Theatre di Wimborne, in Inghilterra, e il cui repertorio non consta integralmente di canzoni scritte da Chuck Berry, ma ci sono anche Tribute to Chuck Berry, scritta dallo stesso Ronnie Wood, Worried Life Blues di Maceo Merriweather, che era il lato B di Bye Bye Johnny..Chi cacchio suoni nel gruppo His Wild Five francamente non lo so, e forse, come ha detto qualcuno, se un tributo così lo avesse fatto l’altro gruppo in cui suona Ronnie, tali Rolling Stones, oppure se a cantare avesse chiamato quell’altro suo vecchio amico scozzese Rod Stewart, forse il risultato sarebbe stato ben altro. Comunque saggiamente Wood ha chiamato a cantare in tre bravi la bravissima vocalist irlandese Imelda May (probabilmente conosciuta tramite Jeff Beck), e al piano appare come ospite Ben Waters.

In ogni caso, come si può ascoltare qui sopra il risultato non è per nulla disprezzabile. E volendo, se avete tanti soldi, oltre alle edizioni in CD e vinile, usciranno anche delle versioni per collezionisti, una deluxe CD+LP+una artcard 12×12 dell’artwork della copertina, oppure una super deluxe con CD, LP, Stampa della parte grafica, Set List dei contenuti numerata e firmata e T-Shirt. Ecco la lista completa dei contenuti dell’album.

  1. Tribute to Chuck Berry
  2. Talking About You
  3. Mad Lad
  4. Wee Wee Hours Feat Imelda May
  5. Almost Grown Feat Imelda May
  6. Back In The USA
  7. Blue Feeling
  8. Worried Life Blues
  9. Little Queenie
  10. Rock ‘N’ Roll Music Feat Imelda May
  11. Johnny B Goode

That’s All Folks, alla prossima.

Bruno Conti

Quando Si Hanno A Disposizione Canzoni Così, Perché Scriverne Di Nuove? Dervish – The Great Irish Songbook

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Dervish – The Great Irish Songbook – Rounder/Concord

Il titolo di questo post va letto come una provocazione, in quanto c’è sempre bisogno di nuove canzoni (soprattutto quando sono belle), ma è chiaro che se si decide di rivolgersi allo sterminato songbook di ballate popolari irlandesi non è difficile fare un disco degno di nota, bastano i musicisti giusti, il talento ed il feeling (hai detto niente…), qualità delle quali il gruppo di cui mi occupo oggi è ben provvisto. Originari di Sligo, una contea a nord della repubblica d’Irlanda, i Dervish sono quasi arrivati anche loro alla scadenza dei trent’anni di attività: anzi, se iniziamo a contare dal disco omonimo intestato a The Boys Of Sligo, cioè il nucleo storico attorno al quale si sono poi aggiunti altri membri, gli anni sono proprio trenta (mentre il vero e proprio esordio a nome Dervish, Harmony Hill, risale al 1993). Anniversario o no, i Dervish sono ormai una delle più popolari e longeve band dell’isola color smeraldo, e direi anche una delle migliori e più coerenti, in quanto hanno sempre portato avanti la difesa delle tradizioni, sia proponendo brani antichi sia scrivendone di nuovi ma con gli stilemi delle ballate di secoli addietro.

E la strumentazione da loro usata riflette questa filosofia, uno spiegamento di chitarre, bouzouki, whistle, mandolini, bodhran, fisarmoniche, flauti, violini, banjo e chi più ne ha più ne metta, un suono di chiaro stampo tradizionale, però con un approccio moderno, forte ed appassionato. A ben sei anni dal loro ultimo lavoro, The Thrush In The Storm, i Dervish tornano tra noi con un album nuovo di zecca (il primo targato Rounder) dal titolo inequivocabile di The Great Irish Songbook, nel quale i nostri omaggiano in maniera superba alcune tra le più belle canzoni della loro terra d’origine, qualcuna molto famosa qualcuna meno, e lo fanno con l’aiuto di una lunga serie di ospiti importanti, in molti casi americani. Grande musica, canzoni splendide suonate in maniera sopraffina dal gruppo, un sestetto guidato dalla cantante Cathy Jordan, completato da Liam Kelly, Shane Mitchell, Tom Morrow, Michael Holmes, Brian McDonagh e con l’importante aiuto esterno di Seamie O’Dowd, quasi un membro aggiunto, dal produttore Graham Henderson che si occupa anche di pianoforte e harmonium e di altri sessionmen sparsi qua e là. Oltre naturalmente ai già citati ospiti (che vedremo man mano), i quali danno maggior lustro ad un  disco che però sarebbe stato bello anche senza di loro: tredici brani, un’ora abbondante di musica.

The Rambling Irishman inizia con una chitarra acustica cristallina e la bella ed espressiva voce della Jordan, per un brano dal motivo profondamente tradizionale, una ballata sul tema dell’emigrazione dalla natia Irlanda eseguita con vigore e partecipazione. Gli ospiti iniziano con There’s Whiskey In The Jar (uno dei pezzi più famosi della raccolta, l’hanno fatta in mille, persino Thin Lizzy e Metallica), e stiamo parlando degli SteelDrivers, bluegrass band americana in cui milita la nota violinista Tammy Rogers ed il cui ex cantante è Chris Stapleton: inutile dire che il suono è ricco e corposo (due band più altri strumentisti, sono in tredici a suonare) ed il brano, già splendido di suo, ne esce alla grandissima, con la voce di Kevin Damrell a sciorinare la celebre melodia. La rocker Imelda May, irlandese anche lei, si cimenta con la slow ballad Molly Malone (presentata come l’inno non ufficiale di Dublino), un brano toccante ed intenso, impreziosito da un accompagnamento leggero, in punta di dita, teso a mettere in risalto il bel timbro vocale di Imelda. The Galway Shawl è invece affidata nientemeno che a Steve Earle, ed il connubio è vincente in quanto Steve è perfetto per questo genere di brani folk dal sapore antico: sembra di sentire una ballatona dei Pogues dei tempi d’oro, anche per le similitudini tra le voci “imperfette” di Earle e Shane McGowan https://www.youtube.com/watch?v=UAEGVTrLT-s . Andrea Corr, ex voce dei Corrs, si cimenta con la famosissima She Moved Through The Fair (forse il brano popolare irlandese più “coverizzato”, dai Fairport Convention a Mike Oldfield passando per Van Morrison, Bert Jansch, Marianne Faithfull e molti altri) che è materia pericolosa, ma Andrea nonostante l’aspetto giovanile è esperta ed affronta lo struggente e cupo brano con sicurezza e pathos, grazie anche ad un accompagnamento per sottrazione, volto a lasciare la voce quasi da sola https://www.youtube.com/watch?v=e_SUD30X6KQ .

Non sapevo che il noto attore irlandese Brendan Gleeson si cimentasse anche col canto, ma la sua interpretazione della saltellante The Rocky Road To Dublin (della quale ricordo una versione magnifica dei Chieftains insieme ai Rolling Stones) fa sembrare che il nostro non abbia mai fatto altro, mentre la cantautrice Kate Rusby ci regala una deliziosa Down By The Sally Gardens, altro lento di grande intensità e con una melodia pura e limpida (e spunta anche una chitarra elettrica, suonata però con molta misura). La nota On Raglan Road (anch’essa rifatta in passato da Morrison) vede al canto un appassionato Vince Gill ed uno splendido background strumentale al quale partecipa anche il grande Donal Lunny con il suo bouzouki; nella commovente Donal Og non ci sono ospiti e quindi la luce dei riflettori va ancora alla Jordan, che se la cava benissimo come al solito, anche perché la canzone è uno splendore ed il resto dei Dervish fornisce un tappeto sonoro di tutto rispetto a base di piano, violino e fisarmonica. The Fields Of Athenry è affidata a Jamey Johnson, molto bravo come d’abitudine ed anche credibile nella parte dell’irlandese, così come Rhiannon Giddens che migliora sempre di più, e anche nella drammatica ed intensa The May Morning Dew riesce a brillare con una interpretazione da applausi. Finale con la struggente The West Coast Of Clare, che non è un traditional in quanto è un pezzo del 1973 dei Planxty (scritto da Andy Irvine), e che vede come protagonista David Gray alla voce e piano, e la banjoista e cantante Abigail Washburn con la nota The Parting Glass (in pratica il bicchiere della staffa), altra ballata di pura bellezza che chiude un album che ogni amante della vera musica irlandese dovrebbe fare suo senza esitazioni.

Marco Verdi

Jeff Beck, Una Vita Per La Chitarra, E Non E’ Ancora Finita: Dai Cori Nelle Chiese Al Rock In Tutte Le Sue Forme, Ecco La Storia! Parte Terza

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Jeff Beck, Uno Dei Tre Più Grandi Chitarristi Del British Rock (Blues),  Il Più Eclettico Ed Estroso. Una Vita Per La Chitarra, E Non E’ Ancora Finita: Dai Cori Nelle Chiese Al Rock In Tutte Le Sue Forme, Ecco La Storia!

Terza e conclusiva parte.

Gli anni del Jazz-rock e dei dischi strumentali.

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Dopo lo scioglimento del sodalizio con Bogert e Appice, e senza completare un secondo disco di studio, Jeff Beck realizza alcune collaborazioni con David Bowie, prima di decidere di esplorare nuove strade, con una lunga serie di dischi strumentali, anche in parte ispirati dal jazz-rock e dalla fusion imperanti in quegli anni, ma rivisitati alla luce delle sue caratteristiche personali, e impiegando, almeno agli inizi, un produttore di grande nome ed esperienza come George Martin (che curò anche gli arrangiamenti orchestrali), insieme al quale realizzerà Blow By Blow, un disco appunto completamente strumentale, che stranamente (o forse no) sarà il suo massimo successo commerciale, arrivando fino al 4° posto delle classifiche di vendita nel 1975: un album comunque splendido, con pezzi memorabili come le sue cover di Cause We’ve Ended As Lovers, un languido brano di Stevie Wonder, una ballata magnifica dedicata al grande chitarrista Roy Buchanan, in cui il suo uso del vibrato è praticamente perfetto, e anche She’s A Woman dei Beatles è deliziosa, con la parte vocale realizzata ancora una volta con il talk-box, senza dimenticare una serie di brani solidi come You Know What I Mean, scritta con Max Middleton, che era rimasto come tastierista, e firma anche la scoppiettante e funambolica Freeway Jam, dove oltre alle evoluzioni strabilianti della chitarra di Beck, si apprezza anche una sezione ritmica notevole come quella composta dall’esplosivo Richard Bailey alla batteria (ancora in pista ai giorni nostri con Steve Winwood) e Phil Chen al basso.

Air Blower attribuita a tutta la band, un pezzo funky fusion di grande appeal, Scatterbrain, che sembra quasi un brano di Billy Cobham, Thelonius, un omaggio trasversale al pianista Monk e la liquida e sognante Diamond Dust dove gli archi di George Martin supportano con classe la solista di Beck. L’anno successivo esce l’ancora notevole Wired, dove arrivano dalla Mahavishnu Orchestra l’ottimo batterista Narada Michael Walden e Jan Hammer, che si aggiunge a Middleton con il suono del suo synth che quasi duplica la solista di Jeff in pezzi come Led Boots, Sophie o Blue Wind, anche se il pezzo più bello del disco, ancora prodotto da George Martin, con Bailey alla batteria, è una versione delicata e splendida di Goodbye Pok Pie Hat, uno dei capolavori di Charles Mingus, con Come Dancing un pezzo di Walden che rivaleggia invece con il repertorio più funky degli Headhunters di Herbie Hancock.  L’anno dopo, nel 1977, esce Jeff Beck with the Jan Hammer Group Live, il cui titolo sintetizza (in tutti I sensi) i contenuti, Jeff Beck in teoria è ospite del gruppo di Jan Hammer, ma poi si rivela il protagonista assoluto con una serie di assoli  in cui spinge la sua ricerca di sonorità sempre più ricercate quasi ai limiti delle possibilità di una chitarra, ben coadiuvato dal synth del compagno di avventura, dal basso di Fernando Saunders e dalla batteria di Tony Smith.

A questo punto Beck si prende una lunga pausa sabbatica per cercare nuovi compagni di avventura e si ripresenta nel 1980 con l’album There And Back, dove in metà dei brani appare ancora Jan Hammer, mentre negli altri alle tastiere c’è Tony Hymas che a tutt’oggi fa parte della band i Beck, e alla batteria arriva Simon Phillips, per un disco ancora di buona fattura, dove spiccano le deflagrazioni sonore di Star Cycle, You Never Know, El Becko e Space Boogie.

Gli Anni Bui, Poche Luci E Molte Ombre

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Nel 1985 esce Flash,  un disco per me di una bruttezza senza limiti, una vera tavanata, con un suono disco dance anni ’80 orribile, dove forse l’unico brano che si salva è una cover di People Get Ready di Curtis Mayfield, dove Jeff si riunisce con il vecchio pard Rod Stewart per una dignitosa rilettura di questo classico, ma il sound eighties pompato è sempre da dimenticare. Decisamente meglio l’ultimo album degli anni ’80, Jeff’s Beck Guitar Shop (che proprio in questo periodo è stato ristampato in un vinile di colore blu): niente di memorabile, ma l’accoppiata Hymas alle tastiere e Terry Bozzio alla batteria, niente basso, a tratti funziona, per questo ritorno al rock e al blues, come nell’iniziale, cadenzata Guitar Shop , dove la chitarra ricerca le solite sonorità impossibili, nella cavalcata blues and roll di Savoy , nella possente Big Block e in un brano sognante alla Buchanan come Where Were You, fino al southern boogie di  Stand On It. Crazy Legs del 1993, con i Big Town Playboys, è un disco di tributo alle canzoni di Gene Vincent e dei suoi Blue Caps, in particolare il chitarrista Cliff Gallup, idolo della giovinezza di Beck, un ritorno al R&R e al rockabilly delle origini, il suono è impeccabile e quando canta il pianista Mike Sanchez sembra di sentire i vecchi dischi di Vincent, inutile ricordare i titoli, tutte le canzoni sono godibili.

Ma quando esce,  ancora dopo una lunga pausa, il disco del 1999 Who Else, Jeff Beck ricade in parte nei vecchi vizi e il disco, nuovamente interamente strumentale e influenzato dalla musica elettronica, almeno per chi scrive diciamo che non convince, escluse le parti di chitarra e la scintillante Brush With The Blues.

La Rinascita (Parziale) Degli Anni 2000.

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Nel 2001 esce You Had It Coming, altro esperimento di “rock elettronico” che anche se vince il Grammy, dimostra che spesso questo premio lo danno a capocchia: si salvano forse, ma forse, per stima, Dirty Mind, dove il duetto con l’altra chitarrista Jennifer Batten è travolgente, e la rivisitazione futuribile di Rollin’ And Tumblin’ cantata da Imogen Heap. Grammy che Beck rivince nel 2003 con Jeff, altro disco di rock “moderno” incomprensibile per il sottoscritto, benché animato dalla solita incontenibile ed ammirevole furia chitarrista fatico a trovare dei brani decenti, forse Hot Rod Honeymoon. Poi a partire dal 2006 il nostro amico comincia a pubblicare una serie di album dal vivo, prima in versione bootleg, poi ufficiali, come il Live At Ronnie Scott’s, dove Jeff, aiutato da una serie di amici e ospiti, e sostenuto da una band formidabile, nella quale scopriamo i talenti della giovanissima e prodigiosa bassista Tal Wilkenfeld e con Vinnie Colaiuta alla batteria, inizia a rivisitare il meglio del suo catalogo passato, soprattutto i brani strumentali,

ma anche People Get Ready cantata da Joss Stone, e nuove perle come Stratus di Billy Cobham e soprattutto una rilettura spaziale di A Day In The Life dei Beatles, che gli fa vincere un altro Grammy, questa volta meritato, per la migliore versione strumentale di un brano musicale.

Nel 2010 esce Emotion And Commotion, che segna un ritorno ai primi posti delle classifiche di vendita ed è anche un buon disco, tra alti e bassi, ottimi soprattutto i brani cantati dalla Stone e da Imelda May, di effetto, benché un po’ tamarra la sua versione di Nessuna Dorma, meglio Over The Rainbow; tanto per cambiare il disco vince addirittura due Grammy, uno proprio per Nessun Dorma (mah!). Lo stesso anno esce l’ottimo Live and Exclusive from the Grammy Museum,  con versioni dal vivo di molti dei  brani di Emotion, bissato nel 2011 da  Rock ‘n’ Roll Party (Honoring Les Paul), ennesimo tributo Live ad uno dei miti della giovinezza di Beck, sia in CD che DVD, dove Jeff è accompagnato da Imelda May e dalla sua band, oltre a Gary U.S. Bonds, Trombone Shorty e Brian Setzer, altro eccellente tuffo negli anni ’50 e ’60.

Il Live+ è un altro buon disco dal vivo, ma le due canzoni in studio aggiunte come bonus non si possono sentire. E anche l’ultimo Loud Hailer del 2016, presenta un 72enne Jeff Beck dai capelli sempre più neri corvini, ma dalle idee un po’ confuse forse anche a causa della tintura dei capelli, e il gruppo londinese Bones, che lo accompagna in alcuni pezzi , non risulta tra le sue scoperte più brillanti di talent scout.

L’ultimo ad uscire è l’ottimo Live At The Hollywood Bowl, che festeggia, con un leggero ritardo, i 50 anni di carriera di  Beck, con la presenza di parecchi ospiti di vaglia, da Jimmy Hall dei Wet Willie, già compagno di avventura di Jeff in passato, a Billy F. Gibbons, passando per Buddy Guy, Jan Hammer, Steven Tyler e Beth Hart. Comunque se ancora nel 2015 la rivista Rolling Stone lo poneva al n° 5 dei più grandi chitarristi di tutti i tempi, subito dopo Hendrix, Clapton, Page e Keith Richards, un motivo, e forse più di uno, ci sarà pure. La storia continua!

Bruno Conti