Qualcuno Ha Detto “Arabicana”? No Blues – Oh Yeah Habibi

no blues oh yeah habibi

No Blues – Oh Yeah Habibi – Continental Song City/Ird 

Ammetto di non essere mai stato un grandissimo fan delle contaminazioni tra vari generi, o meglio, ho sempre apprezzato la fusione tra musiche diverse: folk, blues, jazz, country e altri stili, con il rock, ma seguo con più difficoltà quando è coinvolta la world music, la musica etnica, l’afro e il reggae, anche se gente come Incredible String Band, Oregon o i chitarristi di scuola Takoma con influenze modali, formazioni miste dal catalogo ECM e molto altro si affiancano a generi più comuni nei mie ascolti. Ma ho sempre capito poco le cosiddette “mode” del momento, tipo il new flamenco sia dei Gipsy Kings, quanto dei più patinati Otmar Liebert e Strunz & Farah, o il nuovo tango dei Gotan Project, tanto per non fare esempi, li ho sempre trovati artefatti e destinati ad un pubblico poco incline a tutti i generi “classici”, ma vogliosi del “nuovo” a tutti i costi. Anche gli stili che coinvolgono musica africana, asiatica, o comunque in generale dell’Est Lontano non sono in cima alla mie priorità, però ascolto e mi documento: quindi quando mi sono capitati tra le mani questi No Blues, paladini della cosiddetta fusione tra Ovest ed Est in un genere definito “Arabicana” e presentato come un incrocio tra folk americano (ma anche il blues, presente nel nome del gruppo, o assente, visto il prefisso) e musica araba, oltre a tutto fatto da una formazione per tre quinti olandesi, mi sono detto, ascoltiamo senza pregiudizi.

Questo Oh Yeah Habibi è il loro sesto album in dieci anni di carriera e fonde il suono di chitarre, piano, contrabbasso e batteria con quello di u’d (o oud che dir si voglia) e percussioni varie di provenienza della zona araba, oltre all’uso, a rotazione, delle voci di tutti i cinque componenti della band: dirvi che sono stato completamente convertito sarebbe falso, però, con quelli che considero i loro limiti, cioè una certa ripetitività e il fatto che, bene o male, tutti i brani iniziano al’incirca allo stesso modo, nel complesso l’album non mi dispiace. Introduzione di chitarre acustiche, u’d, percussioni, i primi trenta secondi di ogni brano mi sembrano molto simili, poi subentra una maggiore varietà strumentale, anche una ritmica vagamente jazzata, le parti vocali spesso in lingua inglese e una sorta di allure raffinata che potrebbe attrrarre gli amanti degli esperimenti alla moda. Lo strumentale Into The Caravan, Imta, nonostante il titolo cantata in inglese, la riflessiva Doubt, la più bluesata Two Trains, uno dei pezzi più riusciti, quasi al limite delle dodici battute più classiche https://www.youtube.com/watch?v=B4AyfibT6Eg , Eshas, con quello che sembra un dobro, ma è un ‘u’d (o, ripeto, oud se preferite, quella sorta di chitarra o liuto con il manico storto) e una più decisa impronta africo-arabeggiante dove si apprezza il virtuosismo di Haytham Safia, colui che lo suona https://www.youtube.com/watch?v=1Sk1PIDs638 .

Pure Exodus, come la citata Two Trains a tratti potrebbe ricordare anche certi esperimenti dei Pentangle quando John Renbourn imbracciava il sitar, east meets west, ma nel quintetto inglese però mi pare che la quota di classe fosse su ben altri livelli. Comunque globalmente i No Blues si lasciano apprezzare, tanto nel folk-blues-rock di The World Keeps Turning quanto nel lato etnico più marcato di Sudani o nell’ondeggiante title-track Oh Yeah Habibi, una di quelle che meglio fonde il blues con tutto il resto; interessante anche The Moment, una ballata malinconica quasi alla Leonard Cohen, che di tanto in tanto ha inserito elementi tzigani e “altri” nella propria musica https://www.youtube.com/watch?v=9Qe2kBv-DH8 , mentre Osama Blues, fin dal titolo, è più sul lato etnico, sia pure contaminato dalla musica occidentale, presente nel controcanto delle voci femminili in lingua inglese e la conclusiva Gods Move ricorda di nuovo i Pentangle con quel misto di folk e ritmi arabi https://www.youtube.com/watch?v=Db1Tk7ScFSM .

Bruno Conti