Dopo 35 Anni Il Sodalizio Artistico Prosegue A Gonfie Vele. Indigo Girls – Look Long

indigo girls look long

Indigo Girls – Look Long – Rounder Records

Un nuovo disco delle Indigo Girls si accoglie sempre con piacere, perché il duo di Atlanta ci ha sempre regalato canzoni intense e piacevoli a partire dal primo EP autoprodotto del 1985, fino alla più recente uscita, One Lost Day, che risale a cinque anni fa. A dire il vero, nel 2018 hanno anche pubblicato un CD dal vivo, Live With The University Of Colorado Symphony Orchestra che, a causa di arrangiamenti orchestrali spesso un po’ troppo magniloquenti, non può essere considerato un episodio imprescindibile nella loro discografia. Decisamente meglio ciò che scaturisce da questo ultimo lavoro in studio, Look Long, registrato in gran parte in Inghilterra, nei Real World Studios di Bath con la produzione del loro fedele collaboratore John Reynolds. Amy Ray ed Emily Saliers hanno sempre manifestato personalità ed attitudini molto diverse: voce robusta e propensione per il rock delle radici la prima, timbro limpido e punti di contatto con le grandi protagoniste del folk la seconda.

Il modo in cui riescono a combinare queste differenze, non solo nelle pregevoli armonie vocali ma anche nella struttura stessa delle canzoni che sono solite comporre separatamente ed arrangiare insieme, è senza dubbio uno dei loro punti di forza. Anche nel nuovo album assistiamo alla consueta alternanza tra brani scritti dall’una e dall’altra, a vantaggio di una varietà di atmosfere e suoni. Il pezzo di apertura, scelto come primo singolo, presenta uno di quei titoli ad effetto che a volte Amy usa per le sue composizioni, Shit Kickin’(a voi il piacere della traduzione), un’orgogliosa rivendicazione di chi difende il proprio valore partendo da umili origini. Ad un primo ascolto non mi aveva entusiasmato, con quelle campionature ritmiche e un inciso centrale che richiama i Red Hot Chili Peppers, poi, riascoltandola più volte mi ha catturato grazie all’efficace arrangiamento vocale e al pregevole lavoro di Emily alla slide acustica. La title track è pura farina del sacco della Saliers, un quadro familiare dipinto con le nostalgiche tinte dei ricordi, impreziosito dal violoncello di Caroline Dale e dalle harmonies di Lucy Wainwright Roche.

Howl At The Moon, al contrario, si presenta allegra e solare, una vera esplosione di suoni con banjo, mandolino, flauto irlandese e strumenti ad arco che si rincorrono su una base ritmica afro, forse una suggestione ricavata dalla permanenza negli studi della label di Peter Gabriel. Molto gradevole anche When We Were Writers, che si distende sull’intreccio delle chitarre delle due protagoniste sostenute dall’elettrica suonata da Graham Kearns, (esperto turnista britannico già apprezzato nei lavori di Sinead O’ Connor e Judie Tzuke) e dal violino di Lyris Hung. Con Change My Heart, Emily sembra voler rendere omaggio alle bands californiane degli anni sessanta, penso ai Jefferson Airplane di Grace Slick, tanto per citarne una, facendo uso di sei corde dal suono decisamente acido mentre il violino della Hung aggiunge un tocco beatlesiano. Più pop ed orecchiabile K.C. Girl, che si avvale di un ritornello immediato e di note azzeccate nell’accompagnamento del bravo chitarrista inglese Justin Adams, a lungo collaboratore di Robert Plant  e autore di alcuni pregevoli lavori per l’etichetta Real World, in cui spazia tra blues e musica africana.

Il ritmo cala nella romantica ballad Country Radio, interpretata con notevole trasporto dalla Saliers supportata nelle parti corali dalla sua partner e dalla già citata Lucy Wainwright Roche https://www.youtube.com/watch?v=VHnYeXbI7GQ . Nel rimarcare la cristallina bellezza della successiva Muster, caratterizzata dal brillante utilizzo del mandolino da parte della sua autrice, vi suggerisco di dare un ascolto al recente album da solista di Amy Ray, Holler, uno stimolante e riuscito compendio di roots rock americano https://www.youtube.com/watch?v=sbsZKuGtujM . Gli ultimi tre episodi confermano il giudizio positivo sull’intera raccolta: Feel This Way Again conquista immediatamente per il delizioso sovrapporsi delle voci delle Ragazze Indaco, vero marchio di fabbrica delle loro produzioni. Favorite Flavor è un altro tuffo indietro alle atmosfere sixties, con l’incisivo hammond della tastierista Carol Isaacs in primo piano a scandire la linea melodica. La Isaacs ha modo di mettersi in mostra, questa volta al piano, anche nella conclusiva Sorrow And Joy, che con il suo emozionante crescendo e le consuete preziose armonie vocali suggella il valore di questo ritorno delle Indigo Girls su ottimi livelli qualitativi.

Speriamo di avere l’opportunità di vederle dal vivo anche dalle nostre parti in tempi migliori di quelli che stiamo vivendo.

Marco Frosi

Un Bagno Rigenerante Nelle Acque Del Sud. Amy Ray – Holler

amy ray holler

Amy Ray – Holler – Daemon/Compass CD

Amy Ray, come saprete, è da più di trent’anni una metà del duo delle Indigo Girls insieme ad Emily Saliers ma, a differenza della compagna che ha pubblicato un solo album senza di lei, è titolare anche di una corposa discografia da solista che dal 2001 al 2014 ha prodotto cinque lavori. Ed Amy, che con le Ragazze Indaco porta avanti da anni un discorso fatto di musica folk-rock-cantautorale, da sola si cimenta a volte in generi differenti: per esempio, il suo primo disco, Stag, era quasi punk, mentre Lung Of Love aveva un suono da band di rock indipendente. Holler è il sesto solo album di Amy, e fin dal primo ascolto si pone come il più riuscito della sua carriera lontana dalla Saliers: infatti stiamo parlando di un lavoro davvero bello, nel quale la Ray va a riscoprire le sue radici del Sud (è nata in Georgia), mescolando abilmente rock, country, folk e addirittura mountain music, un cocktail stimolante e coinvolgente, che risulta riuscito anche grazie alle ottime canzoni che Amy ha scritto per il progetto.

Un disco impregnato nel profondo di suoni del Sud, che vede all’opera anche una serie di musicisti da leccarsi i baffi: oltre ai membri dell’abituale live band di Amy (Jeff Fielder alla chitarra, Matt Smith alla steel, Kerry Brooks al basso e Jim Brock alla batteria), abbiamo tre nomi legati a doppio filo alla Tedeschi Trucks Band, cioè il produttore Brian Speiser, il bravissimo Kofi Burbridge, alle tastiere in diversi pezzi, e soprattutto Derek Trucks stesso in un brano. In più, il determinante contributo della grande banjoista Alison Brown, ed una serie di guest vocals che rispondono ai nomi di Vince Gill, Brandi Carlile, The Wood Brothers e Justin Vernon, leader dei Bon Iver. Ma al centro di tutto c’è Amy, con le sue canzoni e la sua lunga esperienza come performer: Holler è dunque un piccolo grande disco, sicuramente il migliore della Ray, ma anche superiore alle ultime prove delle Indigo Girls (che, va detto, il livello di album come Rites Of Passage e Swamp Ophelia non lo hanno mai più raggiunto). Dopo un breve preludio strumentale che sa di country d’altri tempi (Gracie’s Dawn), l’album attacca con la potente Sure Feels Good Anyway, uno splendido country-rock dal ritmo alto, con chitarre, violino, steel e piano in evidenza ed una melodia importante: subito una grande canzone. Dadgum Down è un pezzo dall’approccio tradizionale (con il banjo della Brown a dominare) ma con un arrangiamento di stampo rock.

Last Taxi Fare invece è una ballata tersa e limpida, dal passo lento e con un chiaro sapore southern soul, impreziosita dai fiati e dalle armonie di Gill e della Carlile, mentre Old Lady è un toccante interludio che purtroppo dura solo un minuto, e che confluisce nella roccata Sparrow’s Boogie, un pezzo decisamente coinvolgente, sorta di bluegrass elettrico con lo splendido banjo della Brown doppiato ad arte dalla chitarra di Fielding, ed Amy che si dimostra in forma e perfettamente a suo agio. Niente male anche Oh City Man, canzone tra folk e country, con il solito banjo che viene affiancato da un bel dobro, il tutto in una limpida atmosfera bucolica; Fine With The Dark vede solo la Ray voce e chitarra, puro cantautorato di classe, Tonight I’m Paying The Rent è uno scintillante honky-tonk dal motivo irresistibile, con i fiati dietro la band ed un ottimo Burbridge: tra le più belle del CD. Notevole anche Holler, uno slow languido, accarezzato da una bella steel e con ricordi lontani dell’Elton John “americano” (quello di dischi come Tumbleweed Connection e Madman Across The Water); che dire di Jesus Was A Walking Man? Uno spettacolare country-gospel, davvero coinvolgente, pura mountain music degna di Ralph Stanley (o della Nitty Gritty Dirt Band del primo Will The Circle Be Unbroken). Dopo i 54 secondi della struggente Sparrow’s Lullaby, troppo breve, il CD si chiude con Bondsman (Evening In Missouri), fluida e crepuscolare ballata di nuovo con piano e steel in prima fila, e con Didn’t Know A Damn Thing, altro splendido pezzo di puro southern country, dal bellissimo refrain e con la chitarra di Trucks a rilasciare un breve ma ficcante assolo.

Veramente una bella sorpresa questo Holler: se anche negli ultimi anni avete un po’ perso di vista le Indigo Girls, bypassarlo sarebbe un vero peccato.

Marco Verdi

Esce Il 5 Maggio, Ma Visto Che Il Fine E’ Nobile… Aggiorniamo! Cover Stories, Ovvero Rivisitando “The Story” Di Brandi Carlile Per Una Giusta Causa: Pearl Jam, Adele, Avett Brothers, Anderson East, Eccetera

cover stories brandi carlie

Aggiornamento del Post scritto il 2 marzo, visto che il disco esce oggi 5 maggio, e si conferma come un progetto importante sia a livello umanitario, come molto interessante in ambito musicale: vi ribadisco quindi l’uscita di questo CD Cover Stories, la riproposizione completa dell’album del 2007 di Brandi Carlile The Story, disco che molti considerano il migliore della cantautrice di Ravensdale, Washington e che fu anche il suo maggior successo commerciale, vendendo oltre 500.000 copie all’epoca. Il 100% dei proventi della vendita dell’album verranno devoluti alla fondazione War Child UK (ma c’è anche in Olanda e Canada), l’associazione che si occupa di offrire assistenza ai bambini nelle aree di guerra, spesso con l’aiuto di artisti internazionali che hanno donato la loro musica per creare delle compilations musicali, di cui la prima fu Help, uscita nel 1995, poi replicata con Help! A Day In The Life, nel decimo anniversario dell’uscita del primo album, nel 2005, e con altre uscite discografiche, fino al 2009. Nel primo disco c’erano soprattutto musicisti inglesi, tra cui Oasis, Radiohead, Stone Roses, Blur, Sinead O’Connor, ma anche Paul McCartney, Paul Weller, Noel Gallagher e molti altri.

Per il nuovo progetto sono stati coinvolti molti “amici” della Carlile per reinterpretare tutte le 14 canzoni dell’album, e la lista dei partecipanti è veramente impressionante, tutti, più o meno, musicisti di qualità e “amici” del Blog.

“Late Morning Lullaby” – Shovels & Rope

“The Story” – Dolly Parton

“Turpentine” – Kris Kristofferson

“My Song” – Old Crow Medicine Show

“Wasted” – Jim James

“Have You Ever” – The Avett Brothers

“Josephine” – Anderson East

“Losing Heart” – The Secret Sisters

“Cannonball” – The Indigo Girls

“UntiI I Die” – Torres

“Downpour” – Margo Price

“Shadow On The Wall” – Ruby Amanfu

“Again Today” – Pearl Jam

“Hiding My Heart” – Adele

La gran parte delle canzoni sono state registrate appositamente per l’occasione, altre, tipo quella di Adele Hiding My Heart, già apparsa come bonus nell’album 21 e Shadown On The Wall di Ruby Amanfu, non sono inedite. Tra i musicisti coinvolti, anche Chris Stapleton che suona la chitarra nel brano di Kris Kristofferson e Miranda Lambert che canta nel brano del “moroso” Anderson East.

Se volete saperne di più sulle attività dei beneficiari di questa operazione andate qui https://www.warchild.org.uk/. Progetto meritevole e anche buona musica, mi sembrala combinazione perfetta. Qui si può già prenotare https://brandicarlile.merchtable.com/.

Ho aggiunto due o tre video, rispetto all’articolo originale:alla prossima.

Bruno Conti

75 Anni Così? Da Farci La Firma Subito! Joan Baez – 75th Birthday Celebration

joan baez 75th celebration

Joan Baez – 75th Birthday Celebration – Razor & Tie CD – DVD –  2CD/DVD

Quest’anno non solo Bob Dylan ha festeggiato il raggiungimento del settantacinquesimo anno di età, ma ancora prima di lui (il 9 Gennaio) è stata la volta di Joan Baez, che ancora oggi qualcuno associa al grande cantautore di Duluth nonostante i due non abbiano rapporti di alcun genere da almeno trent’anni, a causa del legame fortissimo, sia artistico che sentimentale, che unì Dylan e la Baez all’inizio degli anni sessanta, quando venivano identificati entrambi come i leader del movimento folk di protesta. Come sappiamo Bob deviò presto verso altre strade, mentre Joan ha sempre continuato con le sue battaglie fino ad oggi, con una coerenza rara nel mondo della musica, ma che le fa senz’altro onore, anche se qualcuno potrebbe etichettarla come personaggio anacronistico. A differenza di Dylan, da sempre refrattario alle auto-celebrazioni, Joan ha deciso di festeggiare il compleanno con qualche giorno di ritardo (il 27 Gennaio), con un concerto al Beacon Theatre di New York e con una serie incredibile di grandi ospiti presenti (tranne Bob, naturalmente, ma anche Joan aveva mancato la famosa BobFest al Madison Square Garden nel 1992), tutti in fila rispettosamente ad omaggiare una vera e propria leggenda vivente della nostra musica. E Joan, come si evince dal DVD allegato al doppio CD pubblicato da pochi giorni, per l’occasione (intitolato semplicemente 75th Birthday Celebration) è apparsa in forma eccezionale, sia fisica che vocale, intrattenendo magnificamente per tutti i cento minuti circa dello spettacolo, cantando da sola o con l’aiuto degli amici che vedremo tra breve una bella serie di classici del passato, suoi e di altri, oltre a diverse chicche https://www.youtube.com/watch?v=CvxdtlG3Q9g .

Vocalmente forse Joan non ha più la potenza dei primi anni (quando si diceva potesse rompere un bicchiere di cristallo solo con l’uso della voce), ma la purezza è rimasta intatta, ed in questa serata dimostra anche di essere una padrona di casa splendida, muovendosi sul palco con una classe immensa ed introducendo i vari ospiti con presentazioni brevi ma efficaci (ed è anche un’ottima chitarrista, il che non guasta). Il concerto è al 100% acustico, con pochi brani suonati full band, ma il feeling è talmente alto e le canzoni sono talmente belle che non solo la noia è totalmente assente, ma non si contano i momenti emozionanti o addirittura commoventi. Inizio splendido con l’intensa God Is God, un brano di Steve Earle che Joan esegue in perfetta solitudine, voce limpidissima e grande feeling, due strofe e ho già i brividi; There But For Fortune è uno dei classici assoluti di Phil Ochs, una delle più belle canzoni dello sfortunato folksinger, mentre Freight Train, il noto evergreen di Elizabeth Cotten, vede entrare il primo ospite, cioè il grande David Bromberg, che non canta ma si fa sentire eccome con il suo splendido pickin’. Per Blackbird, nota canzone dei Beatles, Joan è raggiunta sul palco, con acclusa prima grande ovazione, da David Crosby (e da Dirk Powell alla chitarra): i due armonizzano in maniera superlativa, anche perché David questo brano dal vivo con CSN lo fa da una vita; She Moved Through The Fair è una delle più famose ballate irlandesi, ed a Joan si unisce Damien Rice (che è irlandese pure lui), solo due voci ed un harmonium, ma che intensità! Joan omaggia anche Donovan con Catch The Wind (il brano più noto del periodo folk del cantautore, quando veniva chiamato il “Dylan inglese”), ed alla padrona di casa si aggiunge la bravissima Mary Chapin Carpenter per una buona versione, molto rigorosa.

Anche Hard Times, è stata fatta dalla metà di mille (è una canzone popolare composta da Stephen Foster, lo stesso di Oh, Susannah!), e qui Joan divide il microfono con Emmylou Harris, una delle poche che come voce non ha paura della Baez (e Powell si sposta al piano), altra rilettura da pelle d’oca; Joan ed Emmylou vengono poi raggiunte da Jackson Browne (che somiglia sempre di più a Carlo Massarini con la parrucca, ed i due tra l’altro sono amici), per una strepitosa versione a tre voci e tre chitarre di Deportee, una delle più belle canzoni di Woody Guthrie, ed uno dei momenti top della serata. Ed ecco Dylan (inteso come autore), ma Joan, dopo un’introduzione in cui sfotte bonariamente il vecchio Bob, sceglie un pezzo poco conosciuto, Seven Curses, suonato in totale solitudine, come anche la canzone successiva, una fluida interpretazione del traditional Swing Low, Sweet Chariot; la prima parte del concerto (e primo CD) si chiude con la grande Mavis Staples che si unisce a Joan per un medley di puro gospel eseguito a cappella dalle due artiste, Oh, Freedom/Ain’t Gonna Let Nobody Turn Me Around, dove spicca il contrasto tra la potenza di Mavis ed il timbro cristallino di Joan.

The Water Is Wide è un altro splendido traditional che la nostra avrà cantato mille volte, ma stasera con le Indigo Girls (cioè Amy Ray ed Emily Saliers) ed ancora la Chapin Carpenter è tutta un’altra storia; le Ragazze Indaco restano sul palco per un altro pezzo di Dylan, la grandissima Don’t Think Twice, It’s All Right, altra versione da manuale, voci perfette e pathos a mille, un altro magic moment del concerto. Ed ecco il primo brano full band, ed è una eccezionale rilettura del classico House Of The Rising Sun, resa imperdibile dalla presenza di due chitarristi come David Bromberg e Richard Thompson, dire strepitosa è riduttivo. Thompson rimane per una versione a due di quello che è il brano più recente tra quelli proposti: infatti She Never Could Resist A Winding Road era una delle canzoni di punta dello splendido Still, album dello scorso anno del chitarrista inglese http://discoclub.myblog.it/2015/06/30/altro-disco-richard-thompson-still/ , ma la sua presenza in scaletta ha senso in quanto Joan preannuncia che sarà uno dei pezzi presenti sul suo prossimo disco di studio, e se il livello si manterrà così ci sarà da divertirsi; ancora Jackson Browne per una toccante versione di una delle sue signature songs, Before The Deluge (che Joan aveva inciso negli anni settanta), con solo Jackson al piano, più un violino ed una percussione: magnifica. Diamonds And Rust è sicuramente la più bella e famosa tra le (poche) canzoni scritte dalla Baez, e qui è riproposta con un’intensità incredibile, e con l’aiuto di Judy Collins, che ha solo due anni in più di Joan ma sembra sua nonna, anche se è sempre in possesso di una grande voce.

Gracias A La Vida, il noto brano di Violeta Parra ed uno dei maggiori successi di Joan, vede la nostra in compagnia del musicista cileno Nano Stern, per una scintillante versione che parte lenta ma poi si trasforma in un brano dalla ritmica molto vivace e “latina” che piacerà sicuro anche ai fans dei Los Lobos. Ci avviciniamo alla fine, ma c’è il tempo per una stupenda The Boxer eseguita proprio in compagnia di Paul Simon (e di Richard Thompson), un brano tra i più belli di sempre rifatto in maniera sublime; The Night They Drove Old Dixie Down, oltre ad essere uno dei classici assoluti di The Band, è stato anche il più grande successo commerciale di Joan a 45 giri, ed è perfetta per chiudere la serata in questa versione full band, con la Baez visibilmente emozionata quando il pubblico le canta spontaneamente “Happy Birthday To You”; come bis Joan sceglie ancora Dylan, e non poteva esserci canzone più appropriata per l’occasione di Forever Young, eseguita per sola voce e chitarra.

Un concerto magnifico, un atto dovuto per una cantante splendida: ritenendo che Totally Stripped degli Stones ed i volumi 2, 3 e 4 di It’s Too Late To Stop Now di Van Morrison siano comunque da considerarsi ristampe, a mio parere questo 75th Birthday Celebration è, fino a questo momento, il live dell’anno.

Marco Verdi

Sia Pure Parecchio In Ritardo, Ma Da Atlanta, Georgia Riceviamo Sempre Buona Musica! Michelle Malone – Stronger Than You Think

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Michelle Malone – Stronger Than You Think – SBS Records

Devo riconoscere che questa gagliarda signora, di cui mi sono occupato sin dall’inizio della sua carriera, e ancora qualche tempo fa, quando ero venuto in possesso dei precedenti lavori Day 2 (12) e Acoustic Winter (14) http://discoclub.myblog.it/tag/michelle-malone/ , è uno dei tanti miei “conflitti d’interessi” musicali. Parliamo di Michelle Malone, un eccellente esordio avuto con l’esordio New Experience , che l’aveva segnalata come una delle cantautrici rock più interessanti sul finire degli anni ’80, negli anni a seguire, per continuare a fare la “propria” musica, ha dovuto fondare una sua personale etichetta, la SBS Records (*NDB E come titolare del Blog anch’io mi ero “occupato” di lei discoclub.myblog.it/2010/09/21/una-donna-indipendente-michelle-malone-moanin-in-the-attic), arrivando ora con questo Stronger Than You Think al diciottesimo disco, prodotto come gli ultimi in coppia con Gerry Hansen (Shawn Mullins, Randall Bramblett, Chuck Leavell). Michelle è dotata di una voce grintosa, tagliente e molto personale, suona le chitarre, il mandolino e l’armonica, e come sempre in sala d’incisione si avvale di fior di musicisti, tra i quali lo stesso Hansen alla batteria e percussioni, Michael Steele al basso, Ben Holst alla lap steel, e ospiti come compagni di viaggio  musicali il polistrumentista Kristian Bush, leader del gruppo Sugarland, con cui Michelle è stata in tour in tempi recenti e l’amica Amy Ray delle Indigo Girls (entrambi di Atlanta, e co-autori con la Malone in un paio di brani).

Stronger Than You Think si apre sul lamento di un’armonica blues in Stomping Ground, un brano chitarristico che ricorda il periodo iniziale di Tom Petty e dei suoi Heartbreakers, a cui fa seguito il rockabilly veloce e vivace di Vivian Vegas https://www.youtube.com/watch?v=Wjv6PEtS7Ic , la rabbia rock grintosa di My Favorite T-shirt, per poi passare al lato più dolce della sua musica, con l’acustica e introspettiva I Got An Angel. Niente male anche  il brano firmato con Kristian Bush When I Grow Up, pure questo con le chitarre in spolvero e  sostenuto da una buona base ritmica, mentre Black Swan è il dolce e breve preludio alla splendida Swan White, una ballata sognante e struggente, interpretata come sempre alla grande da Michelle, per poi ritornare al rock blues à la Bonnie Raitt di una sostenuta Keep My Head Up, e ad una bella I Don’t Wanna Know, cantata in coppia con la co-autrice Amy Ray, un brano con il marchio di fabbrica delle Indigo Girls. Con Ashes si viaggia su sonorità Jagger/Richards, mentre Ramona è una ballata straziante sulla vecchiaia, raccontata dal punto di vista di una figlia, chiusa nuovamente da un’armonica lancinante, e cantata in modo sofferto da Michelle (sicuramente la “perla” del disco), seguita dai riff chitarristici di Fish Up A Tree, per poi chiudere con il ritornello gioioso di una scanzonata Birthday Song (I’m So Glad). 

Michelle Malone ha sempre avuto una buona fetta di  fans e sicuramente non li perderà con questo Stronger Than You Think, dove  la ritroviamo al meglio delle sue possibilità canore e anche di autrice, con una scrittura di prim’ordine, da cantautrice coraggiosa, autentica, capace comunque di esporsi in prima persona nel sempre più vasto panorama del rock “indipendente” americano. Inutile dire che per gli estimatori si tratta di un altro disco da non perdere (pur se di difficile reperibilità e uscito già da qualche tempo), e per chi ancora non la conosce un consiglio: mettete con fiducia mano al portafoglio!

Tino Montanari