Che Voce! E Che Concerto Spettacolare, Uno Dei Migliori Del 2018. Beth Hart – Live At The Royal Albert Hall

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Beth Hart – Live At The Royal Albert Hall – Mascot Provogue 2CD – DVD – Blu-ray – 30-11/2018       

Se ci fosse una religione (almeno nel rock e nel blues), Beth Hart dovrebbe vincere un Grammy ogni anno come migliore cantante femminile, in assoluto, non solo in ambito blues, ma in effetti, a parte una nomination nel 2014 per l’album Seesaw con Joe Bonamassa, non ha mai vinto un premio. Un po’ meglio le è andata ai Blues Music Awards, dove dopo cinque anni consecutivi di nominations come miglior vocalist, finalmente ha vinto il premio proprio nel 2018. L’anno in corso è stato uno dei più prolifici della sua carriera: dopo l’uscita, ad inizio anno, dell’ottimo Black Coffee, il suo terzo album di studio con Bonamassa https://discoclub.myblog.it/2018/01/21/supplemento-della-domenica-di-nuovo-insieme-alla-grande-anteprima-nuovo-album-beth-hart-joe-bonamassa-black-coffee/ , senza dimenticare il formidabile Live In Amsterdam, a maggio è uscito anche Front And Center Live From New York, un concerto registrato all’Iridum Jazz Club per l’omonima trasmissione della PBS https://discoclub.myblog.it/2018/05/03/bello-forse-si-poteva-fare-di-piu-forse-beth-hart-front-and-center-live-from-new-york/ , una esibizione forse più intima e meno soddisfacente di un “vero” concerto di Beth, solo una dozzina di brani che hanno catturato principalmente, ma non solo, il suo lato diciamo da cantautrice e meno da performer.

Ora arriva questo Live At Royal Albert Hall che la consacra definitivamente come una della migliori voci femminili in circolazione oggi nell’ambito rock e blues, forse la migliore, in azione in uno dei templi della musica mondiale. Il concerto è fantastico, il trio che la accompagna, Jon Nichols (chitarra), Bob Marinelli (basso) & Bill Ransom (batteria), è eccellente, come posso testimoniare personalmente avendola vista dal vivo più di una volta, anche se non è paragonabile alla band di Bonamassa, ma è solo un piccolo appunto, visto che poi quello che conta è la sua voce, fantastica, sensuale, roca, potente e la sua presenza scenica e la capacità di attirare l’attenzione totale del pubblico donandosi in modo quasi commovente in una sorta di catarsi che al momento ha pochi eguali nell’ambito concertistico mainstream, dove la sua reputazione è in continua e costante crescita e l’uscita di questo Live prevista per il 30 novembre dovrebbe suggellarla definitivamente. Ma veniamo alla serata londinese, 4 maggio 2018, la band è già sul palco per un concerto sold-out, le luci sono ancora spente e la voce di Beth Hart arriva improvvisamente dal nulla, chiara e limpida, non accompagnata, uno spot la segue mentre appare in mezzo al pubblico, che la saluta calorosamente, contraccambiato dalla cantante che mentre si avvicina al palco tocca le mani protese degli spettatori mentre canta in modo appassionato e a cappella una emozionante As Long As I Have A Song, uno dei brani più belli di Better Than Home.

Poi appare subito un altro degli aspetti della personalità della Hart, la eterna ed esuberante ragazzona che non può credere di essere alla Royal Albert Hall, cerca la mamma che è in mezzo al pubblico, e poi fasciata in un abito da sera nero dà il via al suo gruppo per una poderosa For My Friend, un brano di Bill Withers che era uno degli highlights di Don’t Explain, il secondo album con Bonamassa, ed è subito rock-blues selvaggio da power trio con Nichols in grande evidenza, mentre Beth stimola il gruppo con le sue mosse e poi anche il pubblico, che già al terzo brano è invitato ad alzarsi in piedi a partecipare, ballare e cantare al ritmo contagioso di Lifts You Up che viene dal passato della Hart, un pezzo del 2003 che era anche sul Live At Paradiso del 2005, l’altro disco dal vivo della cantante californiana. A questo punto la nostra amica ha già in pugno, come le grandi entertainer, il pubblico, comincia a gigioneggiare con la sua voce splendida e dedica subito alla madre un’altra canzone splendida come Close To My Fire, felpata e jazzy, estratta da Seesaw, e che permette ancora di gustare il suo delizioso contralto e la carica sexy delle sue movenze fisiche e vocali; la trascinante Bang Bang Boom Boom è stata uno dei suoi maggiori successi commerciali e la nostra amica, seduta ad un piano circondato da una serie di lumini, dirige il pubblico e la band per una versione rallentata e quasi con elementi C&W. Sempre esplorando il suo passato arriva da 37 Days anche il vivace R&B di Good As It Gets, con Nichols che si conferma in serata di grazia, poi tocca a Spirit Of God, uno dei suoi brani più spirituali e che illustra il suo rapporto con la religione, attraverso un brano comunque mosso, da Rock and Roll Revue, prima di entrare nella parte più riflessiva dello show, dove la sua voce naturale è sempre in controllo, ma anche in grado di spingersi verso territori sconosciuti per la gran parte delle cantanti, sia a livello emozionale che di potenza vocale.

Prima di tutto arriva una canzone scritta per la mamma, ma anche in onore della grande Billie Holiday, Baddest Blues. solo voce e piano all’inizio, poi entra la band in modalità raffinat ea che segue le sue evoluzioni canore, potenti e raffinate al contempo, seguita da un altro brano ad alto contenuto emotivo come la autobiografica Sister Heroine, dedicato alla sorella scomparsa, altra bellissima ballata pianistica di grande pathos con notevole solo di chitarra di Nichols, che poi va di wah-wah nella tirata e sanguigna Baby Shot Down, il primo dei brani tratti da Fire On The Floor, “ruggiti” di Beth inclusi nel prezzo, che poi coinvolge il pubblico a vocalizzare con lei nella avvolgente Waterfalls, altra poderosa rock song con retrogusti zeppeliniani, con vocalizzi incredibili ed un crescendo inesorabile, tratta da 37 Days, e poi va a pescare da Don’t Explain un’altra piccola perla di raffinati equilibri sonori come la deliziosa e notturna Your Heart Is As Black As Night dal repertorio di Melody Gardot. Fine del primo CD e senza soluzioni di continuità sul DVD si passa a Saved, l’unico brano tratto dal recente Black Coffee, un travolgente pezzo R&B della grande LaVern Baker, dove Beth mette in campo ancora tutta la sua carica vocale e Nichols la sostiene da par suo; poi imbraccia una chitarra acustica e racconta un aneddoto del suo passato, quando era “drogata perduta” come dice lei stessa e viveva in The Ugliest House On The Block, un divertente brano di ispirazione giamaicana dove sdrammatizza in modo leggero e divertente la sua situazione del tempo, una specie di reggae acustico delizioso, fischiatina inclusa, e Spiders On My Bed va ancora più indietro nel tempo, ai tempi di Immortaldnel 1996, quando era una junkie e non riuscendo a dormire le capitava di stare sveglia per tre o quattro giorni di fila, un brano di stampo quasi rootsy dove la Hart dimostra di essere anche un brava bassista acustica.

In questo segmento unplugged and seated del concerto, poi di nuovo al pianoforte in solitaria per la bellissima Take It Easy On Me, altra struggente ed intensa ballata, che fa il paio con l’altrettanto bella Leave The Light On, nella cui presentazione Beth si commuove fino alle lacrime, prima di dedicare la canzone al suo manager e al marito, e per concludere il gruppo di brani più emozionali c’è anche quella dedicata una volta di più alla madre, cercata e trovata tra il pubblico, Mama This One’s For You  Prima di concludere il segmento acustico e con il pubblico quasi in tripudio la Hart ci regala un’altra delle sue canzoni più belle, l’appassionata e sognante My California, con il marito sul palco, In teoria il concerto finisce qui, ma i bis dove li mettiamo? Si parte con Trouble, un altro poderoso rock tratto da Better Than Home, Love Is Lie è un’altra vibrante dichiarazione di intenti cantata a pieni polmoni e con Nichols che torna a farsi sentire, e pure Picture In A Frame in quanto ad intensità non scherza, anche si tratta nuovamente di una ballata suadente, madlità di cui Beth è diventata maestra negli ultimi anni, d’altronde con quella voce sarebbe difficile il contrario. Quando si avvicinano le due ore il concerto si avvia alla conclusione, ma non prima di congedarci con un lungo blues a combustione lenta e in crescendo vocale incredibile, degno della migliore Janis Joplin, tra vallate sonore e picchi improvvisi, come Caught Out In The Rain. Se non volete leggere tutta la recensione, che in effetti mi è venuta un po’ “lunghina”, si potrebbe condensare in una parola: spettacolare!

Bruno Conti

Big Brother And The Holding Co. – Sex, Dope And Cheap Thrills. Anche “Questo” Album Compie 50 Anni E Recupera Il Suo Titolo Originale (Oltre A 25 Tracce Inedite): Esce il 30 Novembre.

Big Brother And The Holding Company Sex Dope And Cheap Thrills

Big Brother & The Holding Co. – Sex, Dope And Cheap Thrills – 2 CD Sony Legacy – 30-11-2018

Naturalmente stiamo parlando di quel disco che all’origine si chiamava Cheap Thrills, uscito il 12 agosto del 1968, si trattava del secondo album della band guidata da Janis Joplin (con Sam Andrew, James Gurley, Peter Albin Dave Getz), quello della loro consacrazione, che li porterà al primo posto delle classifiche di vendita americane di Billboard, e segnerà anche l’inizio della fine della loro breve vita come gruppo, in quanto già il 1° Dicembre, dopo un concerto a San Francisco, Janis Joplin lascia la la band, anche se continueranno comunque come Big Brother fino al 1972, ma senza Janis non è più stata la stessa cosa. L’album all’inizio doveva chiamarsi Sex, Dope And Cheap Thrills, abbreviato su richiesta della Columbia, che bocciò anche la foto di copertina che li ritraeva nudi sul letto di una camera di albergo, sostituendolo con il famoso disegno di Robert Crumb, va bene che era la Summer Of Love, ma l’America era ancora molto puritana. Il disco era anche un finto Live, in quanto gli applausi erano stati aggiunti in post produzione e l’unico pezzo veramente dal vivo era la strepitosa versione di Ball And Chain, registrata al San Francisco’s Winterland Ballroom il 12 Aprile del 1968. Ecco qui sotto come doveva essere la copertina originale, che non è stata recuperata, solo il titolo non usato, e quella dell’album dell’epoca.

Big Brother And The Holding Company Sex Dope And Cheap Thrills coverBig Brother And The Holding Company Cheap Thrills

Il fatto interessante è che in questa nuova edizione non appaiono i brani del disco originale, meno uno (quindi un’ottima cosa se lo avete già, in caso contrario è d’uopo provvedere, in quanto si tratta di uno dischi più belli dell’era psichedelica, e per meno di 10 euro fate vostra l’edizione rimasterizzata del 1999, arricchita anche da 4 bonus tracks), a cui aggiungere il CD doppio in cui ci sono trenta pezzi, di cui 25 sono inediti su disco, mentre i restanti cinque era apparsi nei seguenti CD: Summertime (Take 2) (su una compilaton del 1993 della Joplin); Roadblock (Take 1) (era l’unica presente come bonus nella versione 1999 di Cheap Thrills); It’s A Deal (Take 1) e Easy Once You Know How (Take 1) (entrambe erano sul disco Rare Pearls nel Box Pearls); e Magic Of Love (Take 1) (dal disco Columbia/Legacy per il Record Store Day, Move Over!). Tutto il resto è inedito, come potete verificare nella tracklist completa che leggete sotto; in questo caso quelli con l’asterisco sono i pezzi già editi.

[CD1]
1. Combination Of The Two (Take 3)
2. I Need A Man To Love (Take 4)
3. Summertime (Take 2) *
4. Piece Of My Heart (Take 6)
5. Harry (Take 10)
6. Turtle Blues (Take 4)
7. Oh, Sweet Mary
8. Ball And Chain (Live, The Winterland Ballroom, April 12, 1968)
9. Roadblock (Take 1) *
10. Catch Me Daddy (Take 1)
11. It’s A Deal (Take 1) *
12. Easy Once You Know How (Take 1) *
13. How Many Times Blues Jam
14. Farewell Song (Take 7)

[CD2]
1. Flower In The Sun (Take 3)
2. Oh Sweet Mary
3. Summertime (Take 1)
4. Piece Of My Heart (Take 4)
5. Catch Me Daddy (Take 9)
6. Catch Me Daddy (Take 10)
7. I Need A Man To Love (Take 3)
8. Harry (Take 9)
9. Farewell Song (Take 4)
10. Misery’n (Takes 2 & 3)
11. Misery’n (Take 4)
12. Magic Of Love (Take 1) *
13. Turtle Blues (Take 9)
14. Turtle Blues (Last Verse Takes 1-3)
15. Piece Of My Heart (Take 3)
16. Farewell Song (Take 5)

* Previously released

Di Janis Joplin, che, detto per inciso, è una delle mie voci femminili rock preferite in assoluto (probabilmente la numero uno, e un’altra delle grandissime come Grace Slick ha firmato proprio le note del libretto del doppio CD, insieme a Dave Getz) mi è capitato di scrivere in un paio di occasioni sul Blog: trovate i Post qui https://discoclub.myblog.it/2010/10/04/janis-joplin-19-01-1943-04-10-19701/ e qui https://discoclub.myblog.it/2012/04/02/quatto-ragazzi-e-una-ragazza-44-anni-fa-big-brother-the-hold/ . Dopo l’uscita del disco, prevista per il 30 novembre p.v., non mancheremo di tornarci nuovamente con la recensione completa.

Per il momento prendete buona nota.

Bruno Conti

Poco Blues Molto Rock, Ma Forse “Zio” Hook Avrebbe Approvato Comunque. Jane Lee Hooker – Spiritus

jane lee hooker spiritus

Jane Lee Hooker – Spiritus – Ruf Records

Anche se John Lee Hooker aveva una prole numerosa (alla pari con le sue presunte date di nascita), Jane Lee Hooker ovviamente non è una ulteriore figlia avuta da qualche relazione extraconiugale, se non forse tra il blues e il punk, visto che si tratta di un quintetto di New York tutto al femminile, giunto con questo Spiritus al secondo disco, dopo l’esordio del 2016 con l’album No B!, ma che era già in pista dal 2012. Il genere lo abbiamo  all’incirca inquadrato, anche se il punk è più una attitudine che uno stile, comunque il risultato finale vira diciamo su un boogie-rock-blues piuttosto tirato anziché no: se dovessi azzardare un paragone mi ricordano a tratti, vagamente, una Suzi Quatro meno raffinata e più energica (e ho detto tutto), ma anche le varie Beth Hart, Dana Fuchs, i Blues Pills e soci sono nomi di riferimento. Questo non vuol dire che siano pessime o scarse, tutt’altro, ma certo la finezza e la tecnica sopraffina non sono forse tra i loro attributi principali, per quanto: l’amore per il Blues traspare comunque spesso tra le righe di questo album, anche nella scelta delle due cover (gli altri otto brani se li firmano da sole, mentre nel primo album No B! viceversa erano tutte riletture di classici rock e blues, meno una): Black Rat di Big Mama Thornton e Memphis Minnie, nonché Turn On Your Love Light di Bobby “Blue” Bland (ultimamente molto gettonata, visto che appare anche nel recente disco della Love Light Orchestra, sempre recensito su queste pagine http://discoclub.myblog.it/2018/02/15/che-band-che-musica-e-che-cantante-divertimento-assicurato-the-love-light-orchestra-featuring-john-nemeth-live-from-bar-dkdc-in-memphis-tn/ ).

Dana ‘Danger’ Athens, voce e tastiere, Hail Mary Z basso, Melissa ‘Cool Whip’ Houston alla batteria e, Tracy ‘High Top’ e Tina ‘T Bone’ Gorin alle chitarre, per dare loro dei nomi e dei cognomi, e pure i soprannomi, nel 2012 hanno fatto un patto, secondo la loro biografia: “siamo una band”, “siamo una famiglia” e si sono giurate fedeltà eterna, o almeno fin che dura. Tornando al contenuto musicale, come si diceva, non per nulla prima militavano in band che si chiamavano Nashville Pussy e Bad Wizard, in quanto l’approccio è decisamente “cattivo”, con le chitarre sparate a “11” e la voce della Athens che deve urlare non poco per farsi sentire sopra il ruggito delle chitarre. How Ya Doin’? è un boogie poderoso e tirato, uno dei migliori dell’album, tipo i vecchi Ten Years After al femminile con intermezzo alla Suzi Quatro, le due chitarriste a ben guardare (e sentire) non sono per niente male, anche in modalità slide se serve, la Athens ha comunque una buona voce e la band complessivamente si ascolta con estremo piacere. Gimme That ha anche qualcosa di vagamente stonesiano, vagamente, mentre Mama Said è un altro onesto rock-blues e Be My Baby tira in ballo di nuovo gli Stones e magari anche i Faces, un midtempo molto riffato e persino raffinato (rispetto al primo disco sono migliorate), con un buon lavoro delle due chitarriste https://www.youtube.com/watch?v=D-XCD0iuBQE .

Later On  addirittura si impadronisce di atmosfere sudiste, con accenti anche soul, una bella hard ballad di buona fattura https://www.youtube.com/watch?v=qoPJO0Gq3oA . Ma il blues dov’è, ci chiediamo? Dovrebbe essere in Black Rat, il pezzo della Thornton e di Memphis Minnie, ma in effetti è uno dei brani più tirati della raccolta, a tutta slide e ritmo frenetico, che poi si placa in un altro brano dalla atmosfera sonora più rilassata, per quanto sempre carica di rock, Ends Meet, del R&R di buona fattura, seguito da How Bright The Moon che è addirittura una ballata pianistica con retrogusti gospel e tratti jopliniani (sempre lì si cade). Turn On Your Love Light non la fanno affatto male, più vicina come versione a quella dei Grateful Dead che allo stile fiatistico e orchestrale di Bobby Bland o Van Morrison, ed è quasi un complimento, suonata in modo sobrio e senza particolari eccessi,, ma senza snaturare lo spirito festoso della canzone. Alla fine arriva finalmenteil blues, una lunga (quasi dieci minuti) e torrida The Breeze, il classico “lentone” ancorato da un corposo giro di basso attorno a cui si sviluppa una buona interpretazione vocale di Dana Athens e il solido lavoro delle due soliste. Pensavo peggio, e invece tutto sommato è un buon disco, mai farsi accecare dai pregiudizi, ascoltare con attenzione.

Bruno Conti

Un’Altra Vibrante Voce Rock Femminile. Jan James – Calling All Saints

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Jan James – Calling All Saints – Inakustik/Ird

Siete appassionati, come il sottoscritto, di voci femminili potenti e dal caldo contenuto emotivo, vi piacciono Dana Fuchs, Beth Hart e altre portatrici sane del “virus” Janis Joplin, quelle che amano il blues, il soul e il country, ma con una dose consistente e prevalente di rock nel DNA del suono? Non andate oltre, fermatevi ad ascoltare questo Calling All Saints, il nono album di Jan James, in una carriera partita attraverso gli auspici della Provogue in Europa con la pubblicazione nel 1994 del primo album Last Train, proseguita sempre con l’etichetta olandese fino al 2003 e l’uscita di Black Limousine; poi anche lei ha dovuto affidarsi ad una piccola etichetta come l’indipendente Blue Palace Records (ma questo nuovo titolo è distribuito anche in Europa dalla tedesca Inakustik). Negli anni quella che è rimasta inalterata è la collaborazione con il chitarrista e produttore di colore Craig Calvert, al suo fianco sin dagli inizi nella natia Portland e poi a Detroit, Michigan, prima della trasferta a Chicago, dove anche lei, come altre illustri colleghe, è stata interprete di un musical sulla vita di Janis Joplin.

Lo stile musicale è comunque abbastanza ruvido e tirato, intriso di rock, come dimostra il rock-blues tiratissimo dell’iniziale I’m A Gambler, dove la chitarra e la voce potente della James iniziano subito a battagliare sullo sfondo creato da una onesta band, dove si mettono in mostra anche l’armonicista David Semen e il tastierista Bob Long e una sezione ritmica granitica anziché no; Roll Sweet Daddy, più cadenzata, vira maggiormente verso il blues, grazie alla citata armonica di Semen, anche se la chitarra è sempre molto in evidenza e la voce certo non si risparmia, ben sostenuta da un paio di coriste che alzano la temperatura del brano. Heart Of The Blues è il primo lento d’atmosfera, sulle ali di una solista lancinante la voce della brava Jan si dimostra in grado di reggere canzoni più composite e ispirate, anche se il sound è sempre molto 70’s; la nostra amica non è più una novellina, i 50 li ha superati (da poco) e l’esperienza e il mestiere non le mancano, come mette in evidenza il brillante shuffle Cry Cry Cry, con qualche tocco elettroacustico o il pungente slow blues di una torrida Losing Man dove Calvert si produce ottimamente anche alla slide. Insomma pare che la varietà e la grinta non manchino in questo Calling All Saints, anche il tocco country-blues di una deliziosa It’s So Easy, pur non apportando nulla di nuovo alla galassia del blues, ne evidenzia una brava artigiana in grado di districarsi nelle varie pieghe del genere con buona personalità, ogni tanto il sound forse è fin troppo esuberante come nella title track Calling All Saints, anche se il Chicago Blues elettrico che ne deriva non è per nulla disprezzabile.

Everybody Wants To Be Loved è un altro buon esempio di blues-rock di chiara derivazione jopliniana (ma l’originale era ben altra cosa), con la chitarra di Calvert sempre assoluta protagonista https://www.youtube.com/watch?v=7rFioAU9y0Q , mentre Bucky Blues mette in mostra un misto di leggere influenze Hendrixiane e il sound più elettrico di Mastro Muddy Waters, il tutto condito dalla voce sicura di Jan James, con chitarra ed armonica che si scambiano sferzate di notevole intensità; Battle Of Jesse ha quel gusto country got soul elettroacustico che non guasta, prima di tornare all’impetuoso rock-blues di una intensa Trouble With The Water, di nuovo incentrata sul dualismo della voce di Jan James e della chitarra di Craig Calvert, con il resto della band che fa la sua parte in modo onesto e professionale, anche se probabilmente manca quel quid che eleverebbe la musica ad un livello superiore. Forse la conclusiva Black Orchid Blues, un altro ardente “lentone”, è quello che più si avvicina alla “eredità sonora” della grande Janis, contribuendo ad un disco che, senza esagerare nelle iperboli, non entrerà sicuramente negli annali della musica, ma si ascolta comunque con piacere grazie alla voce vibrante ed interessante della sua protagonista.

Bruno Conti

*NDB Tra l’altro, e me ne scuso con l’interessata e con i lettori, mi sono accorto che in tutta la recensione del CD sul Buscadero, ho chiamato l’album Calling All Angels (forse traviato dalla mia passione per Jane Siberry) anziché Calling All Saints.

Ai Confini Tra Rock E Blues, Un’Altra Bella Voce. Cee Cee James – Stripped Down & Surrendered

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Cee Cee James  – Stripped Down & Surrendered – FWG records                                  

Cee Cee James (all’anagrafe Chrisina James) è un’altra delle non numerose, ma comunque numericamente più consistenti di ciò che si pensa, vocalist che stanno ai confini tra rock e blues, con lementi soul, il gruppo si chiama Mission Of S.O.U.L: definita da un critico della zona di Washington (dove a Freeland, nei Blue Ewe Studios, è stato registrato il nuovo album) “The Vocal Volcano”, per il suo stile esuberante e ad alta densità emotiva che, quasi inevitabilmente, ha portato a paragoni con Janis Joplin, grazie anche al suo live del 2010 Seriously Raw, dove apparivano ben due brani della Joplin. Prima di quel disco la James aveva pubblicato un altro ottimo album di studio ( e, per essere onesti, uno anche nel 2002, definito di pop/funk, ma francamente piuttosto bruttino, soprattutto per un sound, a mio parere imbarazzante, anche se si intuivano già le potenzialità della voce rauca e onesta della nostra amica). Poi nel 2012 è uscito Blood Red Blues, prodotto da Jim Gaines, forse il suo migliore fino ad ora, che aveva sollecitato anche paralleli con Dana Fuchs, altra discepola Jopliniana. Ora per questo Stripped Down & Surrendered la brava Cee Cee torna ad affidarsi alla co-produzione del marito Rob “Slideboy” Edwards, con il quale vive nella zona di St. Louis, Missouri, che per questo album decide di optare, come da titolo, per un suono a tratti più spoglio e dimesso, meno carico dell’elettricità delle prove migliori, anche se forse più rigorosamente blues e meno rock.

Se devo essere sincero la preferivo, sia pure di poco, perché il disco è comunque ottimo, nella sua versione più “scalmanata”, pur se indubbiamente i dodici brani originali, firmati dalla stessa James, ne confermano il talento e la buona vena vocale. Come il suo nomignolo rivela Edwards è un ottimo interprete dello stile bottleneck e nel disco lo ribadisce in alcuni brani, non però nella eccellente title-track, che a dispetto del sound più spoglio rispetto al passato, conferma le qualità di una voce dal timbro ricco e naturale, godibile anche in questo ambito più raccolto, tra chitarre acustiche, elettriche, percussioni e basso appena accennati, per quanto al sottoscritto, almeno in questo brano, la voce di Cee Cee, anche usata in multitracking, ricorda moltissimo quella di Ann Wilson delle Heart (un’altra di quelle brave). La slide arriva nella successiva The Edge Is Where I Stopped, un blues dalle atmosfere sospese e misteriose, dove si apprezza anche il lavoro misurato alla batteria dell’ingegnere e tecnico del suono Dave Malony, con lo stesso Andrews che si occupa anche del basso https://www.youtube.com/watch?v=6V-kGPp13aU . In Hidden And Buried Rob Andrews passa alla slide acustica, Jeffrey Morgan aggiunge il tocco del suo organo Hammond e l’ambiente si fa più mosso ed urgente, con un bel lavoro percussivo e la voce sempre “lavorata”, quasi per dare l’impressione di più vocalist impegnate, come pure He Shut The Demon Down conferma questa impressione di un blues che, per quanto raccolto e non urlato, ha grinta e stamina nei suoi protagonisti, soprattutto la James, che conferma questo impatto fortemente emozionale anche nella successiva Glory Bound dove le influenze di Janis Joplin sono più evidenti, pur inserite im questo impianto sonoro elettroacustico.

Love Done Left Home ha un suono più full band, uno splendido slow blues, con Kevin Sutton Andrews (parente?) aggiunto alla chitarra elettrica e Terry Nelson all’organo, con ottime impressioni vocali di Cee Cee, confermate anche nella successiva, lunga Cold Hard Gun, sempre ricca di pathos e buone vibrazioni, quasi al limite del gospel, con la chitarra di Edwards a ricamare sullo sfondo e la voce roca della James altamente espressiva. Molto bella anche Thank You For Never Loving Me un altro notevole slow blues elettrico che ricorda nello svolgimento certe cose di Ronnie Earl, ma pure brani come Since I’ve Been Loving You degli Zeppelin, con la voce misurata, quasi sussurrata, che convoglia, nella sua intensità, mille emozioni nell’ascoltatore, grazie al testo che è una sorta di accusa neppure troppo velata, ad un padre, vero od ipotetico, che è mancato, splendida. In Before 30 Suns torna la formazione con doppia chitarra e organo, il suono è ancora blues-rock e la voce sempre protagonista assoluta, mentre in You’re My Man la musica si fa nuovamente più animata e mossa, sempre con elementi gospel e rock presenti. Miner’s Man Gold è un altro blues elettrico, dal suono potente ed intenso, con le chitarre in evidenza e So Grateful, ancora con slide acustica protagonista, è un folk blues raccolto, ma sempre dalla notevole intensità, elemento comune a tutto l’album.

Bruno Conti

E Questa Invece E’ Brava: Se Lo Dice Anche Bonamassa Sarà Vero! Joanne Shaw Taylor – Wild

joanne shaw taylor wild

Joanne Shaw Taylor  – Wild – Axehouse Music

La regola, ricordata in un famoso detto, dovrebbe essere, “chi si loda si imbroda” e una come Joanne Shaw Taylor che nel suo sito viene presentata come “the finest female blues rock singer and guitarist” (ma Susan Tedeschi e Bonnie Raitt, per citarne due, saranno contente?) potrebbe rientrare nella categoria delle “montate”, ma visto che invece non siamo molto lontani dalla verità, se aggiungiamo “one of” all’inizio della frase ci siamo, e poi la nostra amica, è giovane (30 anni nel 2016, ops mi è scappata l’età, non si dovrebbe), bionda, carina e pure brava. La sua crescita qualitativa è esponenziale, prima l’ottimo Live Songs From The Road http://discoclub.myblog.it/2013/12/16/bella-brava-bionda-suona-il-blues-joanne-shaw-taylor-songs-from-the-road/ , poi il trasferimento negli States (la Shaw Taylor è inglese, se non lo avevamo detto) per un primo album, The Dirty Truth http://discoclub.myblog.it/2014/11/23/porti-la-chitarra-bella-bionda-joanne-shaw-taylor-the-dirty-truth/ , registrato a Conce, Tennessee, con la produzione di Jim Gaines e l’aiuto di alcuni eccellenti musicisti locali; ora per il nuovo Wild, quinto disco di studio, trasferta di poche miglia ai Grand Victor Sound Studios di Nashville, dove opera abitualmente Kevin Shirley, il produttore di Joe Bonamassa, che ha espresso più volte il suo apprezzamento per Joanne, definendola una delle migliori cantanti, autrici e chitarriste del blues contemporaneo, utilizzandola anche come opening act nel suo recente tour dedicato alla British Blues Explosion e addirittura “prestandole” una parte della sua band per la registrazione del nuovo album.

Infatti nel disco appaiono il bassista Michael Rhodes, la sezione fiati di Paulie Cerra e Lee Thornburg, oltre alle tre splendide coriste Mahalia Barnes, Juanita Tippins e Jade MacRae, con l’aggiunta di Rob McNelley alla seconda chitarra, Steve Nathan alle tastiere e Greg Morrow alla batteria. Ma protagoniste assolute sono le canzoni dell’album, incanalate attraverso la voce roca e la Gibson della Shaw Taylor. Dying To Know è una bella partenza, tra boogie e classico british blues alla Rory Gallagher, ma pure vicina ovviamente al sound dell’ultimo Bonamassa, con la chitarra subito in azione, fluida ed aggressiv ; Ready To Roll, anche se le coriste ci mettono del loro nel call and response, è un rock-blues funky ed energico, ma più scontato nello svolgimento, anche se la chitarra fa sempre il suo dovere, e Get You Back, sempre con i dovuti distinguo, sembra comunque ispirarsi di nuovo alle atmosfere del Rory Gallagher più aggressivo, con le linee della solista sempre interessanti e le coriste scatenate https://www.youtube.com/watch?v=yRQbOd_1h1c . No Reason To Stay, con una atmosferica introduzione di piano, tastiere e chitarra, poi si sviluppa come un brano dei primi Dire Straits, incalzante e con un bel crescendo chitarristico  https://www.youtube.com/watch?v=bsVfuKSjdqg. Wild Is The Wind è il classico pezzo di Dimitri Tiomkin, la facevano anche Nina Simone e David Bowie, qui diventa una sorta di moderna soul ballad, cantata con passione dalla Shaw Taylor che sfodera anche un paio dei suoi migliori assoli del disco, lirici ed avvolgenti.

Wanna Be My Lover torna al rock-blues potente ed aggressivo che è una delle prerogative della bionda inglese, con tutta la band ben evidenziata dalla produzione nitida di Shirley. I’m In Chains vira verso un hard-rock made in the 70’s, con potenti riff alla Deep Purple, ma anche derive boogie sudiste, chitarre taglienti e le coriste che tornano più agguerrite che mai. I Wish I Could Wish You Back, titolo da scioglilingua amoroso, è una bella ballata, impreziosita dalla voce roca della Shaw Taylor, molto presa da questa canzone di rimpianti di amore, arrangiamento comunque di raffinata complessità. A sorpresa poi arriva My Heart’s Got A Mind Of Its Own, un brano tra swing con fiati, soul e il classico sound pianistico di Leon Russell, che è il co-autore del brano, una canzone dove Kevin Shirley applica le variazioni sonore utilizzate negli album di Bonamassa in coppia con Beth Hart, mentre in conclusione la Shaw Taylor si inventa un assolo alla BB King. Nothing To Lose torna al miglior blues-rock, potente e vigoroso, con notevoli fiammate chitarristiche.

In conclusione un classico di Gershwin con cui già in passato si sono confrontati colossi del rock, Summertime (penso alla versione di Janis Joplin a cui chiaramente si rifà questa della Shaw Taylor): niente male, con inserti pianistici ad impreziosirla ed una buona prestazione vocale della nostra amica, molto impegnata anche alla solista con una serie di assoli notevoli. Come è ormai diventata (pessima) usanza, visto quanto le fanno pagare, c’è anche una Deluxe edition singola, con due tracce aggiunte, Sleeping On A Bed Of Nails e Your Own Little Hell, due ulteriori buoni pezzi che confermano la qualità complessiva di questo Wild e il talento della bionda Joanne Shaw Taylor.

Bruno Conti

Il Supplemento Della Domenica: Anteprima Beth Hart – Fire On The Floor, Il Disco Della Completa Maturità!

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Beth Hart – Fire On The Floor – Mascot/Provogue – 14-10-2016

Al sottoscritto il precedente album di Beth Hart Better Than Home era piaciuto parecchio http://discoclub.myblog.it/2015/04/24/bel-disco-forse-troppe-ballate-dal-vivo-beth-hart-better-than-home/ , forse inferiore ai due album con Joe Bonamassa, che però contenevano solo cover, ma superiore a Bang Bang Boom Boom, che pure era prodotto da Kevin Shirley e vedeva la partecipazione in fase di registrazione della band dello stesso Joe, ma le cui canzoni erano meno compiute e varie di quelle di Better Than Home. Che era comunque un album più intimista, ricco nell’ambito della ballate e di brani più bui e malinconici: poi si è scoperto, come ha confidato la stessa Beth, che durante la registrazione di quel disco, uno dei due produttori, Michael Stevens, era gravemente malato, nelle fasi terminali di un cancro che poi se lo sarebbe portato via da lì a poco. Quindi l’atmosfera in studio era decisamente tesa, ricca di emozioni particolari, anche se poi il risultato era stato più che buono, per quanto difficile per i partecipanti, con un suono comunque ben bilanciato e la partecipazione di alcuni musicisti di pregio, come Larry Campbell alle chitarre e Charlie Drayton alla batteria, oltre all’altro produttore Rob Mathes che suonava tastiere, chitarre e curava tutti gli arrangiamenti. Alcune delle canzoni sono diventate dei piccoli classici del repertorio live della nostra amica, anche se proprio dal lato concertistico, che pure è uno dei punti fermi di Beth Hart, una performer formidabile https://www.youtube.com/watch?v=XPyeqLRNoc4 (degna di tutte le grandi del passato, da Janis Joplin e Grace Slick, passando per Etta James, Aretha Franklin, Tina Turner, Bonnie Bramlett di Delaney & Bonnie)  https://www.youtube.com/watch?v=QTWxXG2NoKQ risiede anche uno dei piccoli punti deboli della sua musica: insomma, detto papale papale, la touring band che Beth Hart utilizza, non so se per fedeltà o per motivi economici, formata comunque da buoni professionisti https://www.youtube.com/watch?v=UNk2lMu2cuI , non è paragonabile ai musicisti che suonano nei dischi, la band di Bonamassa, quelli appena citati, oppure ancora quelli che suonano nel nuovo disco, Michael Landau e Waddy Wachtel alle chitarre, Rick Marotta alla batteria, Brian Allen al basso, Jim Cox al piano, Dean Parks all’acustica, Ivan Neville all’organo (più una sezione fiati).

Ca…spiterina, perché come ricorda lei stessa in una intervista, e lo lascio in inglese, perché rende perfettamente l’idea “If you don’t have great musicians, you’re not gonna have a very good record, are you?! Concordo del tutto ed è questo il motivo per cui mi ostino sempre a segnalare i nomi dei musicisti nelle recensioni. E a proposito della affermazione appena riportata, questo è un buon disco, a tratti ottimo. Anche il produttore Oliver Leiber (pure lui un nome che ricorda qualcosa, infatti è il figlio di Jerry Leiber,  di Leiber & Stoller, una delle coppie strategiche del periodo aureo del R&R, del R&B e del primo pop https://www.youtube.com/watch?v=kdWc-rtnHUE ) fa un ottimo lavoro: dodici brani che la stessa Beth dice essere tra i migliori scritti nella sua carriera, e poi da lei messi in una sequenza che ci porta ad una sorta di crescendo qualitativo. Mi sono sentito l’album più volte, visto che lo sto ascoltando due mesi prima dell’uscita e devo dire che è veramente ottimo: dall’abbrivio jazz e raffinato di una Jazzman che tiene fede al titolo, swing-jump anni ’40-‘50, con piano, contrabbasso, fiati, un assolo di chitarra in punta di dita e la voce felpata, ma che prende fuoco all’occorrenza. Love Gangster è un blues con licenza blue-eyed soul, ricco di melodia e di ritmo, con le improvvise fiammate della Hart, che con quella voce può fare ciò che vuole, e un notevole assolo di chitarra in chiusura, Coca Cola viceversa è cantata con la voce vulnerabile e miagolante che Beth sfodera quando vuole rendere omaggio a Billie Holiday, uno dei suoi miti, sexy e panterona, subito pronta a graffiare in questo intenso blues.

Let’s Get Together è una delle canzoni che mi piacciono di più, un soul/R&B fiatistico solare, molto sixties, tipo quelli che scrivevano proprio Leiber & Stoller, delizioso. Love Is A Lie è uno di quei pezzi potenti tra blues e rock in cui Beth Hart eccelle con la voce che sale e scende a comando e la band, soprattutto le chitarre, che suona alla grande, mentre Fat Man, un brano scritto con Glen Burtnik e poi accantonato per essere completato in tempi recenti, è uno dei pezzi più rock, tipico del suo lato più scatenato, Anche Fire On The Floor dovrebbe fare sfracelli dal vivo, una ballata blues potente ed intensa, di grande impatto emotivo, Woman You’ve Been Dreamig Of è un’altra delle sue tipiche ballate pianistiche, intima e raccolta, sempre ricca di pathos ma anche di melodia, quella che si chiama di solito una bella canzone; Baby Shot Me Down rialza i ritmi, un tocco latino qui, un waw-wah malandrino là, un’aria divertita e la solita voce splendida. Che poi raggiunge il suo vertice interpretativo in Good Day To Cry, una superlativa ballata soul degna di quelle che si ascoltavano in Pearl di Janis Joplin  https://www.youtube.com/watch?v=rZuGz2pNc5s, interpretazione da brividi, con picchi e vallate che si alternano nel corpo della canzone, e pure la successiva Picture In A Frame, inizialmente concepita come una testimonianza del suo amore per il marito, ma che poi si è trasformata in un omaggio allo scomparso Michael Stevens, praticamente quasi solo piano e voce all’inizio, ma poi entra la band e diventa un’altra meravigliosa ballata, come pure la splendida conclusiva No Place Like Home, che pur predicando il concetto opposto di Better Than Home, propone semplicemente l’altra faccia della stessa medaglia.

Sempre più brava, probabilmente il disco più bello della sua carriera, una voce come ormai se ne trovano poche in giro, esce venerdì 14 ottobre.

Bruno Conti

Una Nuova Razione Di Rinvigorenti Pillole Rock-Blues (Ma Non Solo) Dal Nord Europa. Blues Pills – Lady In Gold

blues pills lady in gold

Blues Pills – Lady In Gold – CD/CD+DVD – Nuclear Blast/Warner

Seconda uscita discografica (se non contiamo il Live del 2015 e diversi EP) per la band svedese dei Blues Pills. Anche se poi, a ben vedere, solo la cantante Elin Larsson viene dalla Svezia, ed ora anche il nuovo batterista Andre Kvarnstrom, ma il bassista Zack Anderson è nato a Iowa City negli States e il giovane chitarrista, 21 anni quest’anno, ma 16 quando entrò nel gruppo nel 2011, Dorian Sorriuax, è di nazionalità francese. I primi componenti della band peraltro si sono conosciuti appunto tra lo Iowa, dove Anderson e il fratellastro Cory Berry erano la sezione ritmica dei Radio Moscow, buona band rock psichedelica americana, e la California dove risiedeva la Larsson. Tutti si sono poi trasferiti poi a Orebro in Svezia, dove sotto l’egida del produttore Don Alsterberg hanno inciso nel 2014 il loro primo album omonimo (come detto preceduto da alcuni EP e da concerti continui in giro per il mondo), CD di cui potete leggere qui http://discoclub.myblog.it/2014/10/08/pillole-rinvigorenti-blues-pills-cddvd/. La Larsson, bella voce che si inserisce nel filone delle varie Beth Hart Dana Fuchs, per non dire di Grace Potter, secondo il sottoscritto è più vicina come stile a Collen Rennison, la cantante dei No Sinner, quindi più rock-blues tendente ad un hard virato al soul o al blues, anche se gli elementi e le passioni sono quelle, e in questo disco la giovane Erin sfoggia i suoi interessi musicali, soprattutto per Janis Joplin, ma anche Aretha Franklin, condite con derive garage e psichedeliche alla Blue Cheer. E nel primo album, soprattutto grazie al chitarrista Sorriaux. come pote andare a rileggervi nel vecchio Post, c’erano anche influenze del periodo più rock dei Fleetwood Mac di Peter Green.

Nel nuovo album, sempre composto da dieci brani come il precedente, mi pare siano stati mitigati quegli accenti blues, che il nome della band farebbe presupporre, a favore di un suono decisamente più duro, che forse deriva anche dall’etichetta per cui incidono, la Nuclear Blast, che nel proprio roster di artisti vanta soprattutto gruppi di heavy metal, spesso anche estremo, ma che si tiene ben stretti i Blues Pills, che soprattutto nei paesi nordici, ma anche in Germania, Francia, Svizzera, Inghilterra, hanno avuto degli ottimi risultati di vendita nelle classifiche, entrando spesso nelle Top Ten, con un genere magari non molto più di moda, sicuramente derivativo, ma ricco di grinta, di genuinità, anche di buona tecnica e fatto con grande professionalità e soddisfacenti risultati. C’è chi ha visto una maggiore varietà di temi sonori in questo Lady In Gold, pur rimanendo dalle parti del disco di esordio, e quindi il power trio mi sembra a tratti sacrificato a favore della voce della Larsson, che è sicuramente la stella della band. Altri hanno parlato addirittura di tracce di soul psichedelico inizio anni ’70. tipo quello dei Temptations prodotti da Norman Whitfield, e ci potrebbe anche stare se pensiamo che band britanniche come i Savoy Brown, Chicken Shack, gli stessi Stones di metà anni ’70 avevano recepito queste influenze: sintomatico di questo approccio potrebbe essere il singolo che apre l’album, la title track Lady In Gold, suono duro e poderoso, una bella melodia, la voce pimpante di Elin, e anche un bel pianoforte incalzante suonato da Per Larsson (che si alterna nell’album con l’organo di Rickard Nygren e il mellotron di Tobias Winterkorn, per una abbondante presenza delle tastiere), ritmica solida e buon lavoro di fino di Dorriaux, meno presente a livello di assoli, ma sempre importante per il raccordo con i vari strumenti e le sonorità quasi psych che si intrecciano con gli elementi funky-soul.

Liite Boy Preacher è più dura e tirata, di stampo hard-rock classico, con i coretti del cosiddetto Voodoo Choir a dargli una leggera coloritura vagamente gospel, pronta però alle esplosioni selvagge della ritmica e alle svisate della chitarra che comunque rinuncia all’assolo nell’occasione. Burned Out, con una bella slide che si appoggia su un giro di basso sinuoso e con l’organo in evidenza, poi diventa un solido brano di blues-rock dove la Larsson è protagonista assoluta prima di cedere brevemente il proscenio a Darriuax nel finale del brano. A dimostrazione della maggiore varietà rispetto all’album precedente c’è anche una bella ballata di stampo quasi soul, solo voce, piano elettrico e mellotron, usato a mo’ di sezione d’archi, dove si apprezzano ancora le nuances della bella voce di Elin Larsson. Gone So Long, rimane nell’ambito della southern ballad, ma reintroduce la sezione ritmica, l’organo e la chitarra elettrica, persino uno xilofono affidato al produttore Alstenberg. per un crescendo quasi drammatico dove si insinuano la slide e la voce prepotente della cantante, per poi interrompersi all’improvviso (i brani raramente superano i 4 minuti e mezzo, l’improvvisazione è riservata ai concerti). Bad Tallkers, tenta una strada quasi jopliniana nel suo vorticare bluesy, di nuovo con inserti soul e sferzate di voce e chitarra, mentre You Gotta Try, nuovamente caratterizzata da improvvisi crescendo e con organo e chitarra minacciosi a sottolineare le accelerazioni della voce di Erin,, sorretta dal Voodoo Choir e con Darriaux che nel finale di brano scalda il suo strumento. Won’t Go Back alza ulteriormente l’asticella, con la sezione ritmica in spolvero  e le chitarre che oscillano tra slide e wah-wah in un fervente brano che profuma anche di soul-rock venue dei tempi che furono, poi ribaditi ancora nella gagliarda Rejection, dove l’organo e la chitarra battagliano tra loro, sulle fucilate vocali della Larsson semprecon coro alle spalle, mentre nel finale la chitarra va a tutta manetta con il pedale del wah-wah, Che rimane innestato anche per l’unica cover dell’album, una Elements And Things di Tony Joe White, dal suo album Continued del 1969, irriconoscibile in questa versione che è di nuovo l’occasione per un’altra violenta sferzata di rock and roll allo stato puro, con la chitarra solista ed il resto del gruppo, organo aggiunto compreso, impegnato a scatenare un’altra piccola tempesta vocale della brava vocalist svedese.

Come si suole dire, rock classico forse sentito mille volte (a chi scrive ricordano moltissimo, come già dissi, i Mama Lion di Lynn Carey, pochi li ricordano ma meritano, sentite che roba https://www.youtube.com/watch?v=9w2M7j3b3pI), ma quando è fatto bene si ascolta sempre con piacere. Se poi aggiungiamo che all’album è allegato anche un DVD registrato dal vivo a Berlino (usanza benemerita del gruppo svedese già utilizzata pure per il primo album), con dodici brani per circa un’ora di musica che rivisita il repertorio classico dei Blues Pills, con la potenza della band vieppiù messa in mostra dall’ambito Live, direi che l’acquisto è quasi d’obbligo, se amate il rock, ovviamente.

Bruno Conti

Steven Tyler – We’re All Somebody From Somewhere. Solo Una Pausa “Country” O La Fine Degli Aerosmith?

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Steven Tyler – We’re All Somebody From Somewhere – Dot Records/Universal

Rispondendo al quesito che pongo nel titolo del Post, si potrebbe rispondere entrambi. Nel senso che Steven Tyler, in contemporanea con l’uscita dell’album, ha anche annunciato che nel 2017 partirà quello che sarà il Farewell Tour degli Aerosmith, aggiungendo poi che però potrebbe anche durare per sempre. E allo stesso tempo questo We’re All Somebody From Somewhere, il disco di esordio di Tyler come artista solista alla rispettabile età di 68 anni, viene presentato come un disco “country”. Il virgolettato l’ho aggiunto io, perché in effetti, pur avendone alcuni elementi, pochi per la verità, il disco di country non ha molto: ok, è stato registrato a Nashville, che però ultimamente è la Music City per eccellenza, la città dell’industria discografica in generale, si sentono pedal steel, un banjo, mandolini vari,  il violino e a tratti delle melodie vagamente country. Ma è quello mainstream di oggi, che si potrebbe confondere con qualsiasi altro tipo di musica: è vero che tra i quattro produttori coinvolti c’è anche T-Bone Burnett, però gli altri sono Marti Frederiksen, vecchio collaboratore di Tyler, Dann Huff, ai tempi leader dei Giant, che in effetti ha prodotto vari album di country contemporaneo e commerciale, e Jaren Johnston, dei Cadillac Three, che pure lui qualche frequentazione con il genere l’ha avuta, pur se i nomi sono Keith Urban, Dierks Bentley, Tim McGraw e altri, soprattutto come autore. Basta intendersi su cosa si intende per country? E’ come dire che Kid Rock fa rock perché nel suo soprannome appare il termine. E a pensarci bene ci sono delle analogie tra il “rapper rock” e il disco di Tyler, We’re All Somebody From Somewhere potrebbe sembrare un album di Kid Rock, tra i migliori magari, ma siamo lì: ci sono elementi southern, blues, country, ma anche pop bieco, sonorità becere e tutto il campionario del peggio del rock americano. Quello del cantante degli Aerosmith ha i suoi momenti da dimenticare, ma anche alcune canzoni di buone qualità. Diciamo che nell’insieme arriva forse, a fatica, alla sufficienza. Vogliano aggiungere che a parte per i fans incalliti non è un album indispensabile? L’abbiamo detto! Passiamo a vedere le canzoni, quindici, forse troppe, a caso, come vengono.

La partenza è promettente, il brano posto in apertura ha chiaramente l’imprinting del sound di T-Bone Burnett (le altre si fatica a distinguerle l’una dall’altra), My Own Worst Enemy è un bel pezzo, partenza lenta con arpeggi di chitarre acustiche, una fisarmonica, leggeri tocchi di tastiere, la ritmica misurata, lo stesso Tyler che canta con passione e buona intonazione, senza troppe esagerazioni rock, una classica canzone di stampo roots e di buona fattura, dalla melodia avvolgente, insomma un bel pezzo. Poi nel finale, una sterzata rock, con l’ingresso della batteria e di una chitarra elettrica tirata ma ben inserita nel contesto. Fosse tutto così l’album si sarebbe gridato al miracolo o quasi, perché non è che gli ultimi album degli Aerosmith, a ben vedere, fossero dei capolavori. The Good, The Bad, The Ugly And Me, bel titolo, anche se già sentito, è un pezzo rock, che spezza il dominio delle ballate che costellano l’album, un brano che ricorda il riff di Gimme Shelter degli amati Stones e poi si avvicina al classico sound Aerosmith, comunque ancora un buon brano, con la slide a farsi largo su una  solida traccia di impianto classic rock. E anche qui ci siamo: poi partono i mandolini all’inizio di Red, White And You e uno dice, però! Ma il pezzo si trasforma nella classica power ballad pseudo country che impera nella Nashville attuale, e non è neppure tra le peggiori del disco, la strumentazione e il sound non sarebbero neppure male, ma l’esecuzione e l’arrangiamento, con coretti beceri, lo sono meno. Sweet Louisiana, con mandolino, pedal steel e di nuovo fisa in evidenza, pare ancora un’idea di Burnett, ma il cantato un po’ troppo ruffiano a tratti di Tyler (ma l’ha sempre fatto, però in un ambito rock-blues faceva un’altro effetto), non malvagia comunque. What Am I Doing Right? ancora firmata dai fratelli Warren è un’altra discreta ballata di stampo prettamente acustico, niente da stracciarsi le vesti, abbastanza ripetitiva alla fine.

E fin qui potrebbe andare, ma vediamo le due cover poste in chiusura: Janie’s Got Gun, con Tyler che riprende un vecchio pezzo degli Aerosmith, tra violini, archi, chitarre e percussioni, in una melodrammatica versione adatta al testo trattato, ma fin troppo carica negli arrangiamenti, e anche qui col country non vedo il nesso. Piece Of My Heart era il pezzo più noto dei Big Brother And The Holding Co. di Janis Joplin, una bellissima canzone che viene riproposta in modo abbastanza simile all’originale, con un violino in evidenza a duettare con le chitarre, non brutta, ma Janis era un’altra cosa https://www.youtube.com/watch?v=wJxJL_BPM6A . Anche la title track è più o meno accettabile, scritta da Jaren Johnston con Steven, ha di nuovo quel suono pseudo roots, con mandolini, violino, in questo caso anche fiati, che si intrecciano con chitarre ruggenti e ritmiche sparate. Hold On (Won’t Let Go) sembra un pezzo dell’ultimo Jeff Beck, voce distorta, batteria sparatissima, su una base blues-rock esasperata, con tanto di assolo di armonica di Tyler, alla fine fin troppo “moderna”. It Ain’t Easy è un’altra ballata simil valzerone a base di mandolini, violini e pedal steel, evidentemente la sua idea di country, poi rovinata dai soliti arrangiamenti un po’ tamarri tipici del Nashville sound attuale.

Anche Love Is Your Name parte bene, ma in un battibaleno diventa un pezzo country-pop banale e francamente irritante, soprattutto per gli arrangiamenti fatti con lo stampino. I Make Your Sunshine, è un’altra di quelle canzoncine a base di mandolino o dobro, nel caso, che oggi imperano nelle classifiche pop, inutile insomma. Che dire di Gypsy Girl, con tanto di finta statica da vinile d’epoca, ennesima ballata soporifera. Mentre Somebody New, pur tra i soliti coretti irritanti, almeno ha un bel sound e una melodia piacevole e incalzante, vagamente di stampo californiano anni ’70, tra citazioni di Beatles e Stones, purtroppo solo nel testo, non male nell’insieme. Manca Only Heaven, altra power ballad chitarristica di stampo Aerosmith, sempre con pedal steel aggiunta, però sono gli Aerosmith di fine anni ’80, inizio anni ’90, non quelli del periodo di Dream On, per intenderci. Insomma alla fine sembra quasi di ascoltare uno dei dischi solisti di Mick Jagger, qualche canzone buona, altre discrete, ma anche molta “fuffa”. Country? Non pervenuto, anche se in quella classifica di settore ha debuttato al n°1. Complimenti a Tyler per baffetti e pizzetto, molto Pirata dei Caraibi!

Bruno Conti

Ancora Una Grande Voce, Anche In Versione “Acustica”! Dana Fuchs – Broken Down Acoustic Sessions

dana fuchs broken down

Dana Fuchs – Broken Down Acoustic Sessions – Antler King Records

Di questa signora (o signorina?) se ne è occupato ampiamente, con la consueta competenza, il titolare di questo blog, recensendo tutte le uscite precedenti, tra cui Lonely For A Lifetime, Bliss Avenue, Songs From The Road http://discoclub.myblog.it/2014/12/11/quindi-le-cantanti-vere-nel-rock-esistono-dana-fuchs-songs-from-the-road/ : ed eccoci ora arrivare a questo Broken Down Acoustic Sessions, che non è recentissimo (uscito a livello autogestito nel Novembre 2015), ma data la non facile reperibilità e la bravura della cantante, ne parliamo comunque ora. Diciamo subito che Broken Down Acoustic Sessions è il primo disco autoprodotto della Fuchs dai tempi dell’esordio con Lonely For A Lifetime, e che la maggior parte delle canzoni sono state scritte ed eseguite, come sempre, con il suo collaboratore di vecchia data Jon Diamond (cinque brani sono nuovi), il tutto registrato nel proprio studio di New York con l’apporto di Tim Hatfield, con la presenza, oltre a Dana, voce e percussioni e al citato Diamond alle chitarre e  armonica, del fratello di lui, Pete Diamond alla chitarra acustica, di Ann Klein al mandolino e dobro, e del bravo Jon Regen al pianoforte, con un suono ed una strumentazione meno ricca ed elettrica del solito, ma comunque di assoluto rilievo.

Il brano d’apertura non poteva essere che la sua classica Almost Home, con una perfetta fusione tra la chitarra e una armonica quasi “morriconiana”, a cui fanno seguito le prime tre canzoni inedite The Lie, What Went Right e Climb Over, accomunate tutte dalla bravura di Jon all’acustica e cantate con passione e sofferenza da Dana, per poi omaggiare il grande Bobby “Blue” Bland, con una “cover” stratosferica di Ain’t No Love In The Heart Of The City (se non la ricordate, sempre in ambito rock vi segnalo anche una bella versione dei Whitesnake https://www.youtube.com/watch?v=MA3DNlBMNL0 ), da sempre eseguita nei concerti dal vivo, qui impreziosita dal suono viscerale dell’armonica, mouth harp che si ripropone pure nella seguente e più vivace Baby Loves The Life, mentre una chitarra slide accompagna la grande voce di Dana in una sognante Moment Away. La sessione acustica contiene altre due canzoni nuove, entrambe ballate pianistiche, con lo strumento di Regen in evidenza: una dolcissima Wait Up e una grintosa Kind Of Love, per poi passare al blues acustico So Hard To Love e ad una sincopata Say So Long, passando ancora per le armonie chitarristiche di Keepsake, ed arrivare alla nota Misery (forse la prima canzone d’amore scritta da Dana, dedicata alla madre), cantata con la consueta grinta e con in sottofondo nuovamente l’accompagnamento di una lacerante armonica (suonata al meglio da Jon Diamond), e infine chiudere sulle note quasi dolorose di Sad Salvation.

Questi ultimi anni non sono stati facili per Dana Fuchs; prima si era suicidata la sorella maggiore Donna, poi c’era stata la morte del padre, e all’inizio dello scorso anno ha perso anche il fratello Don per un tumore al cervello (non oso pensare che cosa gli poteva capitare ancora!), ma fortunatamente Dana è una persona positiva, e con la musica ha trovato la forza di andare avanti e superare tutto questo dolore, anche se a tratti lo si può riscontrare in queste sofferte versioni presenti in Broken Down.

La dimensione “unplugged” di questo lavoro valorizza ancora di più l’intensità e l’interpretazione di questa straordinaria cantante (una sorta di incrocio tra Janis Joplin e la compianta Etta James) che con estrema disinvoltura, versatilità e passione passa dal blues al soul e al rock and roll, una che nella sua carriera ha sempre dovuto sputare “sangue, sudore e lacrime”, girare il mondo, suonare per pochi dollari e tirare fuori l’anima ogni sera, a differenza di tante osannate, acclamate, plastificate, fatte in serie e sopravvalutate “star” in circolazione oggi, nettamente inferiori alla nostra amica e di cui non facciamo i nomi, ma li potete immaginare!

Tino Montanari