Willie Sinatra Colpisce Ancora…E Pure Meglio Della Prima Volta! Willie Nelson – That’s Life

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Willie Nelson – That’s Life – Legacy/Sony CD

Ormai omaggiare Frank Sinatra sta quasi diventando una moda, ma se i tre album pubblicati la scorsa decade da Bob Dylan, che crooner non è, hanno suscitato reazioni contrastanti (ottime per Shadows In The Night, meno entusiastiche per Fallen Angels ed un tantino annoiate per Triplicate), My Way, disco del 2018 di Willie Nelson, ha avuto recensioni unanimemente positive, cosa comprensibilissima dal momento che Willie rispetto a Bob è decisamente più portato per un certo tipo di sonorità, essendo uno di quelli che, con la classe e la voce che si ritrova, potrebbe davvero cantare qualsiasi cosa. Non è un caso che My Way fosse solo l’ultima incursione in ordine di tempo del texano all’interno del “Great American Songbook”: il bellissimo Stardust del 1978 è il caso più famoso (nonché uno dei suoi lavori più di successo), ma nel corso della carriera Willie ci ha regalato molti altri album in cui reinterpretava da par suo gli standard della musica statunitense, come Somewhere Over The Rainbow, What A Wonderful World, Moonlight Becomes You, American Classic ed il recente omaggio alle canzoni dei fratelli Gershwin Summertime.

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Nelson nonostante l’età (ad aprile saranno 88 primavere) pubblica ancora almeno un disco nuovo all’anno, e nel 2021 l’onore è toccato a That’s Life, che altro non è che il secondo volume delle sue interpretazioni del repertorio di The Voice, come si intuisce dal titolo ma soprattutto dalla stupenda copertina che si ispira a quella di In The Wee Small Hours, album del 1955 che è anche uno dei più famosi del grande Frank. E, se possibile, That’s Life è ancora più bello di My Way https://discoclub.myblog.it/2018/09/29/i-figli-illegittimi-di-frank-proliferano-dopo-bob-ecco-willie-sinatra-willie-nelson-my-way/ , ed allunga l’incredibile striscia positiva di eccellenti lavori di questo intramontabile artista: ho già scritto in altre occasioni che Willie dal vivo non è più quello di un tempo, fa fatica ed a volte la sua voce si trasforma in un rantolo, ma in studio, visto che può centellinare le performance ed avvicinarsi al microfono quando è veramente pronto, è ancora in grado di dire la sua in maniera formidabile se pensiamo che ha quasi 90 anni. That’s Life presenta undici interpretazioni da brividi lungo la schiena di altrettanti brani che hanno in comune il fatto di essere stati tutti incisi da Sinatra, anche se non necessariamente la versione di Frank è la più famosa.

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Se per esempio la title track, In The Wee Small Hours Of The Morning, Learnin’ The Blues e I’ve Got You Under My Skin sono tutte signature songs del cantante di origine italiana, altre hanno avuto riletture anche più famose da parte di gente del calibro di Fred Astaire, Billie Holiday, Dean Martin, Tommy Dorsey, Ella Fitzgerald, Tony Bennett e Bing Crosby. Il disco è stato registrato ai mitici Capitol Studios di Los Angeles, gli stessi di Sinatra (con una puntatina in Texas ai Pedernales Studios di proprietà di Nelson), prodotto in tandem dall’abituale partner di Willie Buddy Cannon e dal bravissimo pianista Matt Rollings e presenta una lista di musicisti da leccarsi i baffi: oltre allo stesso Rollings al piano, organo e vibrafono e Willie che ci fa sentire la sua mitica chitarra Trigger, troviamo l’inseparabile Mickey Raphael all’armonica, il grande Paul Franklin alla steel, l’ottimo Dean Parks alla chitarra elettrica, la sezione ritmica di David Piltch (basso) e Jay Bellerose (batteria), oltre ad una sezione fiati di sei elementi ed una spruzzata d’archi qua e là.

Willie Nelson performs at the Producers & Engineers Wing 12th Annual GRAMMY Week Celebration at the Village Studio on Wednesday, Feb. 6, 2019, in Los Angeles. (Photo by Richard Shotwell/Invision/AP)

Willie Nelson performs at the Producers & Engineers Wing 12th Annual GRAMMY Week Celebration at the Village Studio on Wednesday, Feb. 6, 2019, in Los Angeles. (Photo by Richard Shotwell/Invision/AP)

Nice Work If You Can Get It, dei Gershwin Brothers, è un delizioso jazz pianistico ricco di swing, con un gran lavoro di Rollings, la steel accarezzata sullo sfondo, ritmo acceso e Willie che si prende la canzone con verve ed una buona dose di classe. Splendidamente raffinata anche Just In Time, dalla ritmica soffusa (la batteria è spazzolata) ma sostenuta al tempo stesso, un grandissimo pianoforte (tra i protagonisti assoluti del CD) ed il leader che avvolge il tutto con la sua voce calda e vissuta; A Cottage For Sale, introdotta dagli archi, è notevolmente più lenta e rimanda alle sonorità di settanta anni fa, quando certe canzoni erano usate nelle commedie a sfondo musicale, un elemento in cui Willie si cala alla perfezione. I’ve Got You Under My Skin è uno dei pezzi più celebri di Sinatra (l’autore è il grande Cole Porter): il ritmo è spezzettato e l’accompagnamento degno di un locale fumoso con la band che a notte fonda intrattiene i pochi avventori rimasti che cercano conforto nel quarto bicchiere di whiskey, con un breve ma incisivo assolo da parte di Parks (ma tutto il gruppo suona che è una meraviglia) https://www.youtube.com/watch?v=8cPuigClurE . I fiati colorano l’elegante You Make Me Feel So Young, con il nostro che canta con padronanza assoluta interagendo in maniera perfetta con la band e facendoci sentire la sua Trigger anche se per un breve istante, mentre la coinvolgente I Won’t Dance lo vede duettare con la brava Diana Krall, ed il gruppo swinga alla grande neanche fosse la Count Basie Orchestra: classe sopraffina https://www.youtube.com/watch?v=0RMYCzzCztA .

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That’s Life è un altro classico che conoscono quasi tutti, una grande canzone che Willie fa sua con la sicurezza di uno che nella vita ne ha viste tante https://www.youtube.com/watch?v=XEf8NXZEtzQ , con Raphael e Franklin che portano un po’ di spirito country in un brano che è puro jazz; la sinuosa Luck Be A Lady è una via di mezzo tra swing e bossa nova, un cocktail di grande eleganza con i fiati nuovamente protagonisti e la voce di Nelson che è uno strumento aggiunto. In The Wee Small Hours Of The Morning, ballatona pianistica dal pathos notevole (sentite la voce, da pelle d’oca) https://www.youtube.com/watch?v=gS54H5uNddY , precede le conclusive Learnin’ The Blues, raffinatissima e suonata in punta di dita (con un ottimo intervento di steel), e la cadenzata Lonesome Road, ancora con il pianoforte a caricarsi buona parte dell’accompagnamento sulle spalle, qui ben doppiato dall’organo. Ennesimo gran disco quindi per Willie Nelson, tra i migliori di questo ancor giovane 2021.

Marco Verdi

Ottima Moderna Country Music Con Uno Sguardo Al Passato Per Un Esordio Fulminante! Logan Ledger – Logan Ledger

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Logan Ledger – Logan Ledger – Rounder/Concord CD

Era da parecchio tempo, forse addirittura da qualche anno, che non mi capitava tra le mani un disco prodotto da T-Bone Burnett, uno che specialmente tra gli anni novanta e la prima decade dei duemila era senza dubbio il produttore più richiesto a livello internazionale. Anzi, pare che Burnett avesse intenzione di ritirarsi a vita privata, ma che abbia “dovuto” rimandare tale proposito quando ha avuto per le mani i demo di alcune canzoni scritte ed eseguite da un certo Logan Ledger, un illustre sconosciuto originario di San Francisco ma residente a Nashville: la reazione di T-Bone all’ascolto di quel nastro è stata tale da convincerlo a contattare Ledger per produrgli il disco d’esordio. Tra l’altro non è che Burnett si sia risparmiato nella scelta dei musicisti, in quanto ha portato in studio con sé il grande chitarrista Marc Ribot (a lungo con Tom Waits), il bassista Dennis Crouch, il batterista Jay Bellerose, il tastierista Keefus Ciancia e l’illustre steel guitarist Russ Pahl (ovvero, a parte Ciancia e Pahl, la stessa band che incise il capolavoro di Robert Plant ed Alison Krauss Raising Sand): ma non ci si deve stupire di tanta magniloquenza, in quanto Burnett è uno che il talento lo riconosce dopo poche note, e nel caso di Ledger di talento ce n’è in abbondanza.

Logan infatti non è un countryman qualsiasi, ma uno che sa scrivere canzoni di qualità eccelsa in puro stile country classico, bilanciando il tutto con una miscela sonora di antico e moderno: il gruppo che lo accompagna fornisce infatti un background quasi rock, che viene però stemperato dalla languida steel di Pahl e soprattutto dalla bellissima e profonda voce del leader, che a seconda dei momenti richiama gente come Elvis Presley, Roy Orbison, Chris Isaak e Raul Malo. Logan Ledger è quindi un disco di country al 100%, ma con una band come quella che c’è alle spalle del nostro il livello sale di botto, per non parlare del fatto di avere uno come Burnett in consolle e, soprattutto, l’avere portato in dote una manciata di brani di livello notevole. L’iniziale Let The Mermaids Flirt With Me comincia per sola voce e chitarra in tono confidenziale, poi entra la band ma con passo discreto e vellutato, per uno slow dal chiaro sapore anni cinquanta/sessanta in cui spicca la splendida steel di Pahl ed un raffinato assolo “ricamato” da Ribot. Starlight è un saltellante honky-tonk elettrico dalla strumentazione moderna e rockeggiante, che contrasta apertamente con la voce d’altri tempi di Logan, un connubio quasi irresistibile per la prima grande canzone del CD: il paragone coi Mavericks è il primo a venirmi in mente.

Invisible Blue è una ballata dai toni crepuscolari ma nello stesso tempo ariosa e distesa, di nuovo con la voce suadente e melodiosa di Ledger a dominare (tracce di Orbison) ed il solito tappeto sonoro di tutto rispetto; l’elettrica e coinvolgente I Don’t Dream Anymore presenta echi di country cosmico/psichedelico anni sessanta, con una prestazione vocale perfetta ed accompagnamento potente e decisamente ispirato dal suono della Bay Area, mentre Nobody Knows è un lento intenso e drammatico, eseguito con grandissimo pathos e, devo ripetermi, cantato in maniera sublime. (I’m Gonna Get Over This) Some Day, scritta da Burnett, è una deliziosa e solare country tune dal motivo immediato, suonata sempre con approccio da rock band, Electric Fantasy è più moderna sia nella parte vocale che in quella strumentale, con ottimi interventi chitarristici di Ribot che sanno di surf music e che rendono il pezzo ancora più bello e trascinante, Tell Me A Lie, scritto da Ledger insieme a John Paul White (ex Civil Wars), è invece un altro slow romantico ed elegante, di nuovo simile allo stile di Malo e soci.

Skip A Rope, altra pura e squisita country song dai connotati western, precede uno degli highlights del CD, e cioè la bellissima The Lights Of San Francisco (alla cui stesura Logan ha collaborato con Steve Earle), una country ballad di livello assoluto e suonata splendidamente, un brano che spiccherebbe con qualsiasi tipo di arrangiamento; chiusura con Imagining Raindrops, ancora un notevole honky-tonk di stampo classico, che rimanda alle pagine migliori del repertorio di George Jones e Merle Haggard. Logan Ledger dimostra quindi con questo suo debutto omonimo come fare in 44 minuti un perfetto album di country moderno ma con un occhio al passato, seppur con un “piccolo” aiuto da parte di un grande produttore e di un gruppo di musicisti formidabili.

Marco Verdi

Un Altro Gruppo (Anzi, Duo) Che Non Tradisce Mai. Over The Rhine – Love & Revelation

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Over The Rhine – Love & Revelation – Over The Rhine/GSD CD

Ridendo e scherzando, anche gli Over The Rhine si avviano a celebrare i trent’anni di carriera. Infatti il duo originario dell’Ohio e formato dai coniugi Karin Bergquist e Linford Detweiler ha esordito nell’ormai lontano 1991 con l’autogestito ed ormai introvabile Till We Have Faces, anche se il sottoscritto ha cominciato a seguirli  esattamente dieci anni dopo, e per l’esattezza dall’ottimo Films For Radio, un album che mi aveva impressionato per le sue ballate crepuscolari, intense e profonde, che mi avevano fatto pensare che i due fossero più canadesi che americani: infatti nel loro suono trovavo più di una somiglianza con i Cowboy Junkies più classici e meno sperimentali, grazie anche alla seducente voce della Bergquist che non era molto distante da quella di Margo Timmins. Da Films For Radio in poi non ho più perso un solo album degli OTR, a partire dallo splendido doppio Ohio del 2003, per proseguire con titoli come l’autobiografico Drunkard’s Prayer (con brani ispirati dalla crisi coniugale dei due e dalla successiva riconciliazione), The Trumpet Child e gli ultimi due bellissimi lavori in studio (dischi natalizi esclusi) The Long Surrender e Meet Me At The Edge Of The World, entrambi prodotti addirittura da Joe Henry, il cui stile si era rivelato perfetto per le ballate autunnali dei nostri (senza dimenticare l’ottimo live a tiratura limitata https://discoclub.myblog.it/2017/05/02/nella-vecchia-fattoria-over-the-rhine-live-from-the-edge-of-the-world/.)

Love & Revelation è il titolo del nuovo lavoro di Karin e Linford, e dopo qualche attento ascolto non ho problemi a metterlo nel gruppo dei loro album più riusciti. Non c’è più Henry, che però ha lasciato ai coniugi Detweiler più di un insegnamento sui segreti di produzione, al punto che i due sono riusciti a non far rimpiangere la mano di Joe: l’album è poi stato pubblicato grazie ad una meritoria opera di crowdfunding, con tutti i contribuenti diligentemente elencati in uno dei due libretti acclusi. Ma la cosa più importante di Love & Revelation è che è composto da undici splendide canzoni, tutte originali e rappresentative dello stile dei nostri: musica intensa, lenta ma mai soporifera, con i suoni calibrati alla perfezione, arrangiamenti tra folk e rock, e come ciliegina le interpretazioni dense di pathos e classe da parte di Karin, la cui voce è il vero strumento aggiunto del disco. Dulcis in fundo, ad accompagnare i nostri (la Bergquist suona la chitarra acustica come il marito, il quale però si destreggia alla grande anche con il pianoforte) troviamo una serie di musicisti di livello egregio, la cosiddetta Band Of Sweethearts formata dalla sezione ritmica di Jennifer Condos (basso) e Jay Bellerose (batteria, un “residuo” della collaborazione con Joe Henry), dalle chitarre di Bradley Meinerding, le tastiere ed orchestrazioni a cura di Patrick Warren e la splendida steel guitar di Greg Leisz, grande protagonista del disco.

Che Love & Revelation (dotato anche di una bellissima foro di copertina) non sia un album qualsiasi lo si capisce subito da Los Lunas, una ballata dal passo lento ma dotata di un’intensità notevole, con gli strumenti che, pur essendo appena sfiorati, garantiscono un suono forte e presente, con la ciliegina della voce suadente di Karin e della splendida steel di Leisz che tesse con maestria sullo sfondo. Given Road inizia per voce e chitarra acustica, alle quali si aggiunge una leggera orchestrazione e la steel in lontananza, un brano rarefatto e profondo che cresce a poco a poco; Let You Down, cantata a due voci, è ancora una ballata anche se il tempo è leggermente più cadenzato, il motivo potrebbe far pensare ad un brano di stampo country ma l’arrangiamento è in bilico tra rock e cantautorato puro, con un suggestivo assolo di slide da parte di Meinerding. Broken Angels è splendida, con Karin che canta divinamente una melodia da pelle d’oca accompagnata solo da chitarra e pianoforte del marito (ma il resto della band entra al terzo minuto, anche se con molta discrezione): emozione pura; la title track è vivace, anche se c’è solo Karin, la Condos al basso e Bellerose alle percussioni, un pezzo ritmato e con un ritornello accattivante ed immediato, che dimostra che i nostri sanno scrivere musica a 360 gradi.

Making Pictures è un’altra bella canzone, uno slow pianistico con i suoni dosati e centellinati al millimetro (e qui si vede l’esperienza fatta con Henry), con un uso geniale dell’orchestrazione e la solita languida steel, mentre Betting On The Muse è un mezzo capolavoro, una rock ballad intensa e potente dalla melodia fantastica (vedo qualche influenza di The Band), guidata da piano e chitarre, i due coniugi che si alternano alle lead vocals con disinvoltura ed un ispirato assolo elettrico centrale: una meraviglia. Leavin’ Days è pura, cristallina e di stampo folk, con un ricco suono basato sugli strumenti a corda (due chitarre, due mandolini ed una slide acustica), Rocking Chair è solare e quasi pop, una sorta di filastrocca elettroacustica diretta e piacevole, al contrario di May God Love You (Like You’ve Never Been Loved), ennesimo brano struggente cantato dalla Bergquist con voce da brividi, anche questa tra le migliori del CD. Chiusura in tono soffuso con An American In Belfast, uno strumentale di grande forza espressiva per sole chitarra e steel. Gli Over The Rhine sono ormai da tempo un gruppo (o come ho specificato nel titolo del post, un duo) sul quale contare a scatola chiusa, e Love & Revelation ne è l’ennesima conferma.

Marco Verdi

Il Titolo E’ Interminabile, Il Disco Purtroppo No! The Milk Carton Kids – All The Things That I Did And All The Things That I Didn’t Do

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The Milk Carton Kids – All The Things That I Did And All The Things That I Didn’t Do – Anti CD

Il duo californiano dei Milk Carton Kids, formato da Kenneth Pattengale e Joey Ryan, dopo tre album salutati positivamente da quasi tutta la critica mondiale, al quarto lavoro ha deciso di compiere il grande salto. Fautori di un folk-rock cantautorale chiaramente influenzato da Everly Brothers, Simon & Garfunkel, e dal duo Gillian Welch/David Rawlings, i MKC non hanno cambiato stile, ma hanno migliorato decisamente il loro songwriting e per la produzione si sono rivolti nientemeno che a Joe Henry, con il quale avevano già collaborato nel recente passato ma mai al punto di affidargli le chiavi di un loro album. E Henry non è uno che si muove per tutti, conosce il due ragazzi e li apprezza (li ha avuti anche in tour con lui), e la sua mano in questo All The Things That I Did And All The Things That I Didnt’t Do (un titolo non proprio facile da memorizzare) si sente eccome. Joe è ormai un maestro nel dosare i suoni, nel dare una veste sonora adatta a qualsiasi cosa su cui mette le mani, e quasi sempre per sottrazione, ma c’è da dire che in questo caso gran parte del merito va alle canzoni scritte da Pattengale e Ryan, due che non hanno certo bisogno di sonorità ridondanti per emozionare.

Oltre alle chitarre dei due leader, grande protagonista del disco è la splendida steel guitar di Russ Pahl, ma non bisogna scordare la sezione ritmica discreta ma di gran classe formata da Dennis Crouch (uno che ha suonato con un sacco di grandi, da Gregg Allman a Johnny Cash) e dall’ormai indispensabile Jay Bellerose, oltre alle tastiere di Pat Sansone, membro dei Wilco, ed anche ai fiati (clarinetto e sax) nelle mani di Levon Henry, figlio di Joe. Ballate fluide, lente e distese, suoni centellinati al millimetro, mai una nota fuori posto, con in più alcune tra le migliori canzoni del duo: All The Things (abbrevio per fare prima) è il classico disco che cresce ascolto dopo ascolto, ma piace già dalla prima volta che si mette nel lettore. Il centerpiece dell’album è senza dubbio la straordinaria One More For The Road, un brano che supera i dieci minuti e che definire epico non è esagerazione: una canzone che inizia come una ballata fluida e rilassata, con le due voci, un paio di chitarre e la steel sullo sfondo, un suono molto anni settanta con elementi che rimandano ai gloriosi giorni del Laurel Canyon, e che poi si tramuta in un melting pot di suoni tra folk, jazz ed un tocco di psichedelia in un crescendo strumentale magnifico e di grande pathos, per tornare nel finale al tema principale.

Ma chiaramente il disco è anche altro, a partire dall’iniziale Just Look At Us Now, brano tenue ed interiore, molto discorsivo e con un accompagnamento discreto, una percussione leggera ed un delizioso contorno di strumenti a corda. Il pianoforte introduce la lenta Nothing Is Real, un pezzo raffinato ed ottimo veicolo per le armonie vocali di Kenneth e Joey, con un arrangiamento tra folk e pop d’altri tempi, nel quale si sente lo zampino di Henry; la squisita Younger Years ha molti contatti con la scrittura di Paul Simon, e la sua veste leggermente country & western, con la bella steel di Pahl in sottofondo, la rende una delle più riuscite. Mourning In America, pianistica e con una leggera orchestrazione alle spalle, è lenta e decisamente intensa: musica pura, senza pretese commerciali ma in grado di toccare le corde giuste; You Break My Heart è ancora spoglia nei suoni, voce, chitarra, steel e sezione ritmica appena sfiorata, con uno stile molto vicino all’ultimo Dylan che fa Sinatra, così come Blindness, se possibile ancora più cupa, quasi tetra, con le voci angeliche dei due che contrastano apertamente con il mood triste del brano. Big Time è decisamente più vivace, una canzone limpida ed ariosa tra folk e country, caratterizzata da un bel violino ed una melodia diretta, A Sea Of Roses è ancora puro folk moderno, gentile e raffinato, di nuovo con Simon dietro il pentagramma, mentre Unwinnable War è una ballatona di ampio respiro, con il solito ottimo lavoro di steel alla quale si aggiunge un organo ed il consueto pickin’ chitarristico di gran classe. Chiudono il CD la languida I’ve Been Loving You, molto Everly Brothers, e la delicata title track, tre strumenti in croce ma grande intensità.

Al quarto disco i Milk Carton Kids hanno fatto centro: canzoni come One More For The Road non si scrivono certo per caso, ed il resto non è sicuramente da meno.

Marco Verdi

Più Che “Strimpellare” Qui Si Cesella! Joe Henry – Thrum

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Joe Henry – Thrum – Ear Music

*NDB. Come certo noterete dalla firma in calce al Post, un “nuovo” autore si aggiunge ai collaboratori del Blog: un altro Marco, Frosi, che è un vecchio amico, ai tempi in azione anche lui al Disco Club originale, poi rimasto per lunghi anni nel settore discografico, anche attraverso recensioni fatte in brevi periodi sia per il Buscadero, come per Out Of Time e Late For The Sky, un paio di fanzine cartacee. Quindi, di tanto in tanto, troverete anche la sua firma su alcuni degli articoli che trovate nel Blog, buona lettura.

Joseph Lee Henry fa parte della speciale “categoria protetta” di autori di canzoni che non sbagliano mai un colpo. Questa felice tradizione va avanti da oltre trent’anni, da quel Talk of Heaven che ci fece conoscere un giovanotto di belle speranze ed ottime credenziali che si muoveva agevolmente tra folk e rock come tanti della sua generazione. Ma nessuno avrebbe potuto prevedere, dopo due eccellenti album in puro stile “americana” come Short man’s room e Kindness of the word, realizzati col valido apporto dei Jayhawks, che, dal successivo Trampoline in poi, Joe Henry maturasse tanto da mettere in fila una serie di lavori di altissimo livello, vere e proprie gemme cantautorali da incastonare nell’unico diadema di un Songwriter (la maiuscola è d’obbligo) che oggi possiamo a pieno titolo considerare tra i più brillanti in circolazione. Il suono del periodo iniziale, che tanto doveva a Dylan e a Van Morrison, si è via via evoluto verso una forma espressiva che attinge a piene mani dal blues e dal jazz, in un melange affascinante e ricco di sorprendenti sfaccettature. Certo, a tutto ciò ha senza dubbio contribuito la prestigiosa carriera parallela di Joe nel ruolo di produttore,  lavoro che lo ha visto operare negli ultimi decenni nelle sale di registrazione di artisti di assoluto valore come Solomon Burke, Loudon Wainwright III, Elvis Costello, Ramblin’ Jack Elliott, Mose Allison, Bonnie Raitt ed Allen Toussaint , solo per citarne alcuni, sempre con pregevoli risultati.

Il suo bagaglio di esperienza ha quindi potuto arricchirsi in modo esponenziale fino a raggiungere quella forma espressiva tanto originale quanto efficace che contraddistingue ogni suo album. Lo scorso anno Henry aveva scelto di rinfrescare le sue radici duettando con Billy Bragg nello splendido Shine a light, più che un disco un vero e proprio progetto culturale, in cui i due riprendevano una dozzina di classici del folk americano, accomunati dal tema della ferrovia, registrandoli in presa diretta durante le tappe del viaggio in treno che li ha condotti da Chicago a Los Angeles. Ora invece ci arriva il lungamente atteso seguito del luminoso Invisible hours di tre anni or sono, intitolato Trhum (più che un nome sembra un suono, magari del coperchio di un pianoforte quando viene richiuso, o di una chitarra strimpellata, chissà…). Per realizzarlo, Joe ha riunito intorno a sé il ristretto gruppo di fidati collaboratori che suonano con lui già da parecchi anni: Jay Bellerose alla batteria e percussioni, David Piltch al contrabbasso e basso elettrico, Patrick Warren alle tastiere, John Smith alla chitarra acustica ed elettrica e, buon ultimo, il figliolo Levon Henry che suona tutti gli strumenti a fiato, sempre più bravo e determinante per il sound scelto dal suo genitore.

Lo stesso Joe ci rivela nelle note di produzione di aver chiesto a Ryan Freeland, il suo ingegnere del suono, di ricreare in studio lo stesso mood sonoro di un vecchio disco live di Ray Charles del ’64, in cui la voce del protagonista era magistralmente supportata dalle performances di ciascun musicista dell’orchestra, in un connubio  stupefacente. E infatti, negli undici episodi di Trhum la voce di Henry si amalgama perfettamente con il suono prodotto da ciascun strumento in melodie dall’andamento ciclico, dove ognuno dei musicisti ha modo di esprimersi liberamente , dando il proprio contributo ad atmosfere sognanti, come nell’iniziale Climb, malinconicamente riflessive  nella seguente Believer o tese e drammatiche in The dark is light enough, che si apre e si chiude con effetti rumoristici alla Tom Waits, scandita dal ritmo incalzante delle percussioni e dal vorticare ipnotico degli altri strumenti. La lunga e malinconica Blood of the forgotten song è un intimo ed intenso ritratto familiare condotto al ritmo di  lento valzer.

In The world of this room Bellerose torna protagonista con i suoi tamburi, a sottolineare gli arpeggi delle chitarre acustiche, mentre lo splendido acquarello The glorious dead è basato sull’intreccio tra il caldo sax di Levon ed il pianoforte di Warren. Il dramma di un rapporto di coppia fa da sfondo ad Hungry, a mio parere uno dei vertici dell’intero lavoro, con le tastiere a scandire le strofe ed un violino struggente nel finale, suonato dal primo violinista Eric Gorfain. Quicksilver e River floor con le loro atmosfere delicatamente sospese ci conducono al gran finale, una coppia di gioielli di adamantina bellezza, Now and never e Keep us in song. Nella prima la voce del protagonista, doppiata nel ritornello dall’ospite Joey Ryan, è circondata da un magnifico tappeto sonoro formato dai fiati di Levon, dall’Hammond di Warren e dai delicati tocchi di marimba di Bellerose. Nella seconda la chitarra di Joe si fonde al prezioso apporto del sax di Levon e di un quartetto d’archi (The Section Quartet) che offrono degna conclusione ad un disco splendido, perfetto per la stagione autunnale, da lasciar decantare a lungo, come il buon vino.

Marco Frosi

Nella Vecchia Fattoria…! Over The Rhine – Live From The Edge Of The World

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Over The Rhine – Live From The Edge Of The World – Great Speckled Bird – 2 CD Limited Edition

Fin dalla prima volta che li ho visti dal vivo, e precisamente a Chiari (BS), se non ricordo male nel lontano 2001, ho subito pensato che c’era più di una ragione che accomunava gli Over The Rhine ai Cowboy Junkies: ballate lente, malinconiche, costruite su un gioco di coppia complice e silenzioso che, oggi come ieri, sono unicamente nelle corde di due personaggi dalle chiarissime idee musicali, come la brava cantante Karin Bergquist e il bravissimo polistrumentista Linford Detweiler (coppia in arte come pure nella vita), con la differenza che il suono dei primi è fondato sulla voce di Karin e le tastiere di Linford, (più folk), mentre quello dei secondi gira attorno ai fratelli Timmins, la bella Margo e Michael, rispettivamente voce e chitarre (più blues). Gli Over The Rhine sono attivi dall’inizio del ’91, e fino ai giorni nostri hanno prodotto qualcosa come 22 album, di cui sei dal vivo e tre raccolte, tutti lavori che a livello artistico hanno tracciato una parabola in costante ascesa (con una menzione particolare per il doppio Ohio (03), fino ad arrivare ai più recenti The Long Surrender (11) e Meet Me At The Edge Of The World (13), recensiti puntualmente su queste pagine dall’amico Bruno http://discoclub.myblog.it/2013/08/29/a-prescindere-dal-genere-gran-disco-over-the-rhine-meet-me-a/ . Per festeggiare i venticinque anni del loro sodalizio, la bionda Karin e il marito Linford hanno radunato nella loro fattoria dell’Ohio un gruppo di musicisti, definiti The Band Of Sweethearts, composto da Jay Bellerose alla batteria e percussioni, Jennifer Condos al basso, Eric Heywood alla chitarra elettrica e pedal steel e Bradley Meinerding alle chitarre elettriche e acustiche e mandolino, per registrare due esibizioni fatte nel corso di un week-end e tenute nel fienile di famiglia il 24 e 26 Maggio del 2015, dando così vita ad un concerto straordinario che tende vieppiù a caratterizzare le sonorità elettroacustiche della band e la voce della bionda Karin.

Idealmente diviso in due parti, il concerto parte con un set prevalentemente più “rootsy,” con brani tratti prevalentemente dall’ultimo album in studio Meet Me At The Edge Of The World, a partire dalla title track, una magnifica ballata country-folk d’atmosfera, seguita dall’ispirata melodia di Sacred Ground, con il mandolino di Bradley ad accompagnare la voce di Karin, il breve folk acido dello strumentale Cuyahoga, il ritmo sincopato di Gonna Let My Soul Catch My Body, rifatta in una bella versione unplugged, e una Suitcase (recuperata dal capolavoro Ohio), con un arrangiamento ridotto all’osso. Con la strepitosa ballata soul Called Home si alza decisamente il livello del concerto, seguita ancora dalla dolce I’d Want You, dove ritornano le atmosfere “agresti”, per poi andare a rivisitare brani datati e poco eseguiti in concerto, come la travolgente All I Need Is Everything (da Good Dog, Bad Dog), farci sempre commuovere con la melodia vincente di una ballata come Born (la potete trovare su Drunkard’s Prayer), introdotta dalle note del pianoforte di Linford, e cantata con la straordinaria voce di Karin, e rispolverare, sempre da un grande album come il citato Good Dog, Bad Dog, una delicata Poughkeepsie che viene eseguita come una sorta di “ninna nanna” country.

Dopo una breve pausa che viene usata, si presume, per gustare la produzione della fattoria (pane, salumi e uova con del buon vino e birra), si riparte con una deliziosa Making Pictures cantata a due voci da Karin e Linford, per poi rivoltare come un calzino Baby If This Is Nowhere, che viene rifatta in una versione country-blues, nonché riproporre uno dei brani più belli della coppia, I Want You To Be My Love (cercatela sempre su Drunkard’s Prayer), una ballata sorretta dalla scansione ritmica di una chitarra acustica, con la voce suadente della cantante ad intonare una melodia profonda ed emozionante, mentre la seguente Trouble (da The Trumpet Child) è una briosa divagazione in chiave jazz, e passare alle atmosfere sospese fra lounge e jazz della lunga e bellissima All My Favorite People (da The Long Surrender), dove si manifesta ancora una volta la bravura al piano di Detweiler. Nella parte finale del concerto vengono proposte un paio di “cover”, a cominciare dalla notissima It Makes No Difference (di Robbie Robertson della Band), riproposta in versione delicata e notturna, mentre la seguente  The Laught Of Recognition, viene ripescata dall’ottimo The Long Surrender, una meravigliosa ballata folk come The Laugh Of Recognition, con la pedal-steel di Eric Heywood in evidenza, prendere ancora dai solchi di Ohio una nuovamente notturna e “jazzata” Cruel And Pretty, con un piano che suona come ce si trovasse a New Orleans, omaggiare alla grandissima il Neil Young dei primi tempi con una grintosa Everybody Knows This Is Nowhere, e andare a chiudere il concerto, come era iniziato, con una versione solenne e struggente di una ballata stratosferica come Wait, (che era anche il brano di chiusura del citato Meet Me At The Edge Of The World), dove la voce della Bergquist raggiunge vette emotive di grande pathos.

Commozione e applausi nel fienile della fattoria Over The Rhine. Inutile dire che la carta vincente del gruppo è Karen Bergquist che possiede una voce tra le più duttili ed importanti del cantautorato americano (anche se pure Detweiler è un musicista di vaglia), e che riesce ad interpretare con grande classe liriche intense e musica profonda, entrambe costruite su temi melodici e drammatici, malinconici ed evocativi. Come in questo ultimo lavoro live, ma anche di fronte ad ogni disco degli Over The Rhine, viene da chiedersi perché questa band continua ad essere poco considerata e con CD tanto difficilmente reperibili ( in questo caso ancora più degli altri), un disco da non perdere assolutamente, sia per chi già li segue e li conosce, sia per chi non ha ancora avuto questa fortuna:  un approccio ed uno stile per chi ama la musica soffusa e intensa, quindi, come detto poc’anzi, per chi ama il suono onirico alla Cowboy Junkies, una musica per palati ed orecchie fini, ma anche per gli amanti delle atmosfere notturne dalle melodie intense, magari da gustare un po’ alla volta e con ascolti ripetuti, meglio se a notte fonda e in dolce compagnia. Un altro regalo dall’America e dalla fattoria targata  Over The Rhine dove la musica, anzi, per la precisione, la buona musica, è ancora un patrimonio culturale.

Tino Montanari

Ormai E’ Tra Le Più Brave Songwriters In Circolazione! Tift Merritt – Stitch Of The World

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Tift Merritt – Stitch Of The World – Yep Roc CD

Graditissimo ritorno per Tift Merritt, cantautrice e rocker nativa del Texas, ma trapiantata in North Carolina, che mi aveva piacevolmente impressionato con i suoi due album d’esordio all’inizio della scorsa decade, Bramble Rose e soprattutto l’ottimo Tambourine, due riusciti lavori di rock cantautorale, con le giuste dosi di country, che vedevano all’opera due produttori di vaglia come Ethan Johns e George Drakoulias, e musicisti del calibro di Mike Campbell, Benmont Tench e Neal Casal. I due lavori seguenti, Another Country e See You On The Moon, pur validi, erano secondo me un gradino sotto, ma Traveling Alone del 2012 era certamente il suo disco migliore (insieme a Tambourine), un eccellente album di roots-rock d’autore con la produzione di Tucker Martine (l’uomo dietro gli ultimi album dei Decemberists).

Poi, ben cinque anni di silenzio, un periodo lunghissimo se hai una carriera in pieno sviluppo: ma Tift non si è persa d’animo, ed in questi cinque anni è ulteriormente maturata, prendendosi tutto il tempo necessario per portare a termine quello che a mio parere è il lavoro della sua completa maturità, oltre che probabilmente il suo più riuscito. Stitch Of The World è infatti un disco molto bello, a tratti addirittura splendido, che ci mostra un’artista che ha completato un percorso creativo ed ora si presenta in tutte le sue sfaccettature; la bionda (e carina) songwriter non rinuncia al rock, ma lo mette un attimo in secondo piano in favore di canzoni più profonde, sentite, a volte intime: una prova da vera songwriter, con una serie di fulgide ballate ed un suono perfetto, merito del produttore Sam Beam (che altri non è che Iron & Wine) e di un ristretto combo di musicisti con i contro baffi, tra i quali spiccano il chitarrista Marc Ribot (uno dei preferiti da gente del calibro di Tom Waits ed Elvis Costello, ma ha suonato anche con il nostro Vinicio Capossela) e ed il batterista Jay Bellerose (tra i più utilizzati da T-Bone Burnett), ma anche la bassista Jennifer Condos, un’altra con un bel curriculum (era anche sull’ultimo di Graham Nash, This Path Tonight) e lo steel guitarist Eric Heywood, mentre la Merritt si occupa di chitarra acustica e pianoforte.

L’album si apre con un’impronta decisamente rock: Dusty Old Man è un vibrante brano elettrico, che l’uso della slide di Ribot rende leggermente blues, e contraddistinto da un drumming potente in netto contrasto con la voce gentile di Tift. Grinta ed energia, anche se il pezzo non entra in circolo immediatamente, ed è abbastanza diverso dal resto del CD. Heartache Is An Uphill Climb, per contro, è splendida, una toccante ballata pianistica cantata alla grande ed arrangiata in maniera sopraffina, con gli strumenti che si uniscono ad uno ad uno in un crescendo strepitoso, uno dei brani più belli che ho ascoltato finora in questo ancora giovane 2017; My Boat, adattata da una poesia di Raymond Carver, è un’altra canzone di grande intensità, una ballad profonda, lunga e distesa, tra folk e rock, mentre Love Soldiers On è una moderna country song, sul genere della Emmylou Harris degli ultimi vent’anni (quella più sofisticata), anche questa decisamente godibile e suonata come Dio comanda.

Molto bella anche la title track, anzi direi deliziosa, una folk song gentile ma con un motivo ricco di pathos e reminiscenze irlandesi, altra grande canzone, con quel tocco di elettricità che funge da ciliegina; Icarus è lenta, profonda, suggestiva, con un leggero accompagnamento di piano, chitarra elettrica e steel, un’altra perla da aggiungere ad una collana sempre più preziosa (bellissimo anche qui il crescendo nel bridge). Proclamation Bones è più rock, con la ritmica pressante ed ancora la slide a lavorare di fino sullo sfondo, mentre Something Came Over Me è uno struggente slow dal sapore bucolico, puro e cristallino, così come la squisita Eastern Light, altro brano di grande impatto ed intensità, tra folk e country; chiusura con Wait For Me, altra ballata elettroacustica di notevole livello (ma esiste anche la solita edizione con tre brani in più, Day He Died e due riprese acustiche di Something Came Over Me e Stitch Of The World con Sam Beam). Diamo quindi volentieri la bentornata a Tift Merritt, che ci ha regalato uno dei dischi migliori di questo inizio 2017.

Marco Verdi