E Questi Da Dove Spuntano? Però Molto Bravi! Loose Koozies – Feel A Bit Free

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Loose Koozies – Feel A Bit Free – Outer Limits Lounge LP/Download

Da anni il mercato discografico indipendente americano è diventato una giungla quasi infinita, con decine e decine di uscite mensili di vario genere e livello: è ovvio che non è umanamente possibile stare dietro ad ogni nuovo solista o band che si affaccia sul panorama musicale, ma a volte capita di imbattersi in dischi che rispondono pienamente ai nostri gusti, e che magari sono pure belli. Un valido esempio è certamente questo Feel A Bit Free, album d’esordio dei Loose Koozies (avevano pubblicato solo un singolo nel 2018) quintetto proveniente da Detroit ma con un suono che non ha nulla a che vedere con la Motor City. Infatti i nostri non fanno rock urbano né hard né alternativo, ma suonano un’accattivante miscela di rock’n’roll e country di stampo quasi rurale e con un innato senso del ritmo e della melodia. Pura American Music quindi: i cinque non seguono le orme né di Bob Seger né di Alice Cooper (per citare due icone rock della capitale del Michigan), ma il loro sound ricorda da vicino i primi Uncle Tupelo ed i Son Volt, anche per il timbro di voce del leader E.M. Allen molto simile a quello di Jay Farrar (completano il gruppo il lead guitarist Andrew Moran, Pete Ballard alla steel, Erin Davis al basso e Nick German alla batteria).

Feel A Bit Free è prodotto da Warren Defever (leader della band alternativa His Name Is Alive), il quale si occupa anche di suonare piano ed organo, ed è quindi un ottimo dischetto che farà la felicità di quanti amano il country-rock alternativo a quello di Nashville: rispetto alle due band citate poc’anzi (Tupelos e Son Volt), qui la componente country è leggermente maggiore se non altro per il notevole peso specifico della steel nel sound generale, ma i ragazzi non si tirano certo indietro quando si tratta di arrotare le chitarre; last but not least, le canzoni sono ben scritte e sono tutte dirette e piacevoli, e quindi nei quaranta minuti di durata del disco non c’è un solo momento di stanca. Il dischetto inizia in maniera splendida con Easy When You Know How, un country-rock limpido e solare dotato di una melodia scintillante ed un bel suono elettroacustico molto roots, il tutto completato da ottime parti di chitarra: un avvio brillante. Nella cadenzata Forget To Think spunta la steel guitar anche se il brano è molto più rock che country, anzi l’approccio mi ricorda quello di gruppi come Jason & The Scorchers o Old 97’s, un pezzo coinvolgente e suonato alla grande; Marita è più morbida e countreggiante, una ballata in cui però la parte rock non è affatto sopita, un po’ come quando i Rolling Stones fanno (facevano) un pezzo country (ed il refrain è vincente), mentre con la saltellante Rollin’ Heavy torniamo in territori più propriamente country, pur con il suono elettrico tipico dei nostri con chitarre e steel a creare una miscela perfetta, unita ad un motivo delizioso.

Lotsa Roads è puro rock’n’roll, chitarre che riffano che è un piacere, gran ritmo e mood travolgente, in aperto contrasto con Sugar Notch, PA che è invece una turgida ballata elettroacustica dal sapore western-crepuscolare, con la chiara influenza di Gram Parsons, un’atmosfera evocativa ed un ispirato assolo da parte di Moran. Slow Down Time è il singolo di due anni fa, un rockin’ country diretto e gustoso ancora con le chitarre in evidenza ed uno squisito ritornello alla Tom Petty; una languida steel apre la strepitosa Hazel Park Race Track, altro pezzo trascinante che coniuga alla perfezione rock e country, in cui il canto “scazzato” di Allen si integra benissimo e ci porta alla bella Hills, una country ballad elettrica dal sapore quasi texano. Il disco termina con la lunga Something To Show, quasi sette minuti che si staccano decisamente dal resto del disco con i Koozies che ci propongono uno slow rarefatto ed etereo dai toni quasi psichedelici, per poi tornare subito coi piedi per terra con la conclusiva Last Year, puro country’n’roll a tutto ritmo, godibile ed avvincente.

Sentiremo ancora parlare dei Loose Koozies, sono pronto a metterci la firma.

Marco Verdi

*NDB Purtroppo non esiste la versione CD, solo LP o download digitale, come ultimamente, anche per la situazione globale, capita sempre più spesso.

Un Bel Disco, Ulteriormente Potenziato E Migliorato. Son Volt – Okemah And The Melody of Riot

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Son Volt – Okemah And The Melody Of Riot – 2 CD Transmit Sound/Thirty Tigers

Proseguono le ristampe potenziate del catalogo dei Son Volt: dopo quella di The Search uscita ad Aprile, che già rivalutava l’opera della band nella seconda parte di carriera, arriva ora Okemah And The Melody Of Riot, quarto album della loro discografia, e il primo ad uscire dopo la lunga pausa dal 1999 al 2004. All’origine il disco avrebbe dovuto essere registrato con la prima formazione della band, che si era già ritrovata per incidere un brano per il tributo ad Alejandro Escovedo, e viste le buone vibrazioni aveva deciso di continuare, ma poi qualcosa deve essere andato storto e Jay Farrar ha messo in piedi una formazione completamente diversa, con Andrew Duplantis al basso e alle armonie vocali, Dave Bryson alla batteria e l’ottimo Brad Rice alla chitarra (già nelle band di Ryan Adams e Peter Case, e con Backsliders e Whiskeytown). Il suono ottenuto era decisamente più (alternative) rock rispetto ai loro classici dischi degli anni ’90, ma per nulla disprezzabile, come invece alcuni critici, peraltro non tutti, avevano sentenziato all’epoca all’uscita del disco.

Album che già in origine uscì in diversi formati, tra cui una versione Dual Disc (qualcuno li ricorda? I dischetti a doppio strato con audio e video insieme), che conteneva delle bonus nella parte DVD della confezione. Questa nuova versione aggiunge ulteriore materiale, nel secondo CD ci sono due brani extra e sette pezzi dal vivo, mentre il CD originale, a differenza di The Search, dove era stata cambiata la sequenza dei brani, mantiene quella della prima edizione. Il disco non sarà forse un capolavoro, ma rispetto a molti dei dischi di rock contemporanei, ha parecchie frecce al suo arco: il suono è decisamente più elettrico e chitarristico, spesso vibrante, ma lasciando comunque spazio alle malinconiche ballate che sono sempre state nel DNA di Farrar sin dai tempi degli Uncle Tupelo. Il suono potrebbe ricordare quello dei R.E.M. della prima fase: prendiamo il primo brano, Bandages And Scars, con un testo che si richiama a Woody Guthrie per fare un parallelo con la situazione politica di quegli anni (in un album che è comunque tra i più “impegnati” in questo senso di Farrar), ma musicalmente le chitarre sono molto presenti  e tirate, con un suono lontano (ma non poi così tanto) dall’alt-country  e dal suono roots dei primi dischi, il cantato di Jay è quello tipicamente laconico e laidback, caratterizzato da quella voce immediatamente riconoscibile, anche se calata in una dimensione decisamente più R&R ,estremamente godibile e mossa. Potrebbe ricordare i lavori più elettrici di Neil Young, o un country-rock più energico  anni ’70; della stessa tempra sonora anche Afterglow 61, sempre potente e con le chitarre mulinanti, come pure la vivace 6 String Belief, che il lavoro delle chitarre lo magnifica fin dal titolo, e pure Jet Pilot a tutto riff, completa la trilogia rock di apertura.

Atmosphere è una bella ballata mid-tempo cadenzata, dall’ambientazione solenne e malinconica, con improvvise accelerazioni e cambi di tempo. Ipecac ci riporta al sound acustico e meditato dei primi album, ed è un ottimo brano, dove si apprezza lo spirito più gentile della band, mentre Who mi ha ricordato il suono dei sopracitati R.E.M., con un bel jingle jangle delle chitarre, con Endless War che vira addirittura verso atmosfere leggermente psichedeliche alla Gene Clark, poi ribadite in Medication,in un ambito più folk e ricercato, con piccoli tocchi orientaleggianti che rimandano a Bert Jansch o ai Pentangle, anche grazie alla slide e al dulcimer di Mark Spencer. Con le chitarre elettriche che ritornano a farsi sentire nella Younghiana Gramophone, dove fa capolino anche una armonica o nella atmosferica Chaos Streams, prima di regalarci la deliziosa, sognante e pianistica Wolrd Waits For You, con tanto di ripresa e coda chitarristica con la pedal steel di Eric Heywood e la slide di John Horton in bella evidenza. Exurbia e la pianistica Anacostia, i due inediti di studio aggiunti, appartengono al lato più intimista di Farrar, mentre tra i brani dal vivo spiccano une deliziosa Joe Citizen Blues con un ottimo Rice alla solista e Afterglow 61,anche questa ripresa dal vivo a Philadelphia nel maggio del 2005. La sequenza di altri cinque brani Live tratti dall’album conferma l’impressione che i Son Volt dell’epoca erano una eccellente band. Una ottima ristampa da avere, e non solo per mero “completismo”,

Bruno Conti