Ecco Il Primo Capitolo Della Serie Lu’s Jukebox. Lucinda Williams Runnin’ Down A Dream A Tribute To Tom Petty

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Lucinda Williams – Runnin’ Down A Dream – A Tribute To Tom Petty – Highway 20 Records/Thirty Tigers

Come moltissimi altri musicisti, nel periodo della pandemia anche Lucinda Williams si è ingegnata per trovare nuovi progetti musicali che potessero alleviare il lungo periodo del confinamento casalingo: lei lo ha fatto creando la serie Lu’s Jukebox che si articolerà in una serie di sei Live In Studio incentrati su omaggi/tributi sia ad alcuni grandi musicisti, quanto a generi musicali molto diversificati fra loro. Il tutto in rete ha già preso l’abbrivio dall’ottobre dello scorso anno con una serie di trasmissioni streaming in alta definizione e a pagamento, per devolvere i fondi ricavati a musicisti ed addetti ai lavori in difficoltà finanziaria, destinati poi a diventare dei CD con una serie di uscite cadenzate durante il 2021. Il primo sarà quello dedicato a Tom Petty, di cui tra un attimo, l’ultimo sarà quello sui Rolling Stones: ad accompagnare Lucinda, oltre al produttore Ray Kennedy, che insieme alla Williams e al marito Tom Overby, ha coordinato il tutto dai Room And Board Recording Studios di Nashville, ci sono una serie di musicisti che ultimamente accompagnano la musicista di Lake Charles: Stuart Mathis alla Chitarra Solista, Joshua Grange, Chitarra e Tastiere ,Stephen Mackey al Basso e Fred Eltringham alla Batteria.

La nostra amica aveva ottimi rapporti con Petty tanto che era stata l’opening act nella tre serate all’Hollywood Bowl, culminate con la data del 25 settembre 2017, l’ultimo concerto di Tom prima della prematura scomparsa avvenuta il 2 ottobre dello stesso anno: sono già passati tre anni e mezzo, ma il biondo musicista manca sempre di più a tutti, anche se le sue canzoni continuano a vivere con una serie di eventi che si sono succeduti da allora. L’ultima a voler approcciare il suo songbook è stata appunto Lucinda Williams, che per questo Runnin’ Down A Dream A Tribute To Tom Petty ha scelto dodici brani della sua sterminata produzione, aggiungendo una canzone scritta appositamente per l’occasione. Come sa chi legge abitualmente questo Blog il sottoscritto apprezza molto la musica della nostra amica https://discoclub.myblog.it/2020/04/24/sferzate-blues-e-ballate-elettriche-urticanti-dalla-citta-degli-angeli-lucinda-williams-good-souls-better-angels/ , ma mi rendo conto che per vari motivi, soprattutto la voce, molti non la amano e rispetto la loro scelta: però non mi esimo dal dire che anche questa volta mi sembra che l’obiettivo di fare un buon disco sia stato centrato. Forse, anzi sicuramente, non un capolavoro, ma un sentito omaggio ad uno dei migliori talenti espressi dalla musica americana negli ultimi 40 e passa anni.

L’approccio ovviamente è diverso, manca il tipico jingle-jangle del rocker della Florida, a favore di un sound più bluesato e compatto tipico della Williams, ma non “sconosciuto” al sound degli Heartbreakers. Si apre con Rebels, brano tipicamente “sudista” che evidenzia le affinità tra i due: bella rilettura, molto laidback e vicina a quella dell’originale, meno carica rispetto a certe canzoni di Lucinda, ma sempre con la giusta tensione chitarristica, affidata all’interscambio tra Mathis e Grange, si prosegue con la title track, una delle canzoni nate dalla collaborazione con Jeff Lynne, più grintosa e tirata, decisamente vicina al groove dell’originale, con le chitarre che riffano di brutto nello spirito rock’n’roll pettyano, con assolo ruvido al seguito. Gainesville e Louisiana Rain sono altri due brani che evidenziano le comuni radici, non solo musicali, ma anche di vita, dei due, la seconda con il piano elettrico di Grange ad evidenziare l’atmosfera sospesa ma esuberante della canzone che ben si adatta alla interpretazione della Wiiliams.

I Won’t Back Down è uno dei capolavori assoluti di Tom, un pezzo trascinante ed esuberante, che ti resta subito in testa e che non viene stravolto in questa versione con Mathis alla slide che (quasi) riproduce lo stile inconfondibile di Mike Campbell; anche A Face In The Crowd viene dall’accoppiata Petty/Lynne ed è uno dei brani che meglio si adatta anche allo stile vocale di Lucinda, come pure Wildflowers, che in fondo è una ballata, ben si attaglia alla vocalità pigra e rilassata della signora, con il piano elettrico in bella evidenza e un arrangiamento avvolgente e confortevole. You Wreck Me non raggiunge la devastante potenza di sparo degli Heartbreakers, anche se i musicisti forse ce l’avrebbero nelle loro corde e anche la scelta della non notissima Room At The Top, brano estratto da Echo, magari non è felicissima, ma evidentemente ognuno ha le sue preferenze, e questa canzone triste e malinconica, sulla fine del primo matrimonio di Tom, si adatta nella sua scarna interpretazione al mood della Wiiliams che ben si allinea anche allo stile ciondolante, figlio del Sud, scelto per You Don’t Know How It Feels, da dove vengono, sin dal titolo e come ubicazione, anche sia Down South che una accorata Southern Accents che Lucinda Williams aveva già nel suo repertorio Live.

La affettuosa dedica finale di Stolen Moments, brano peraltro molto bello, è sia per Tom quanto per la moglie Dana e chiude degnamente un album complessivamente soddisfacente, ma, manco a dirlo, le canzoni originali rimangono insuperabili, comunque grazie a Lucinda per averci provato.

Bruno Conti

Riprende La Campagna Di Ristampe Deluxe Di Sir Paul, Con Uno Dei Suoi Dischi Migliori Di Sempre. Paul McCartney – Flaming Pie

paul mccartney flaming pie

Paul McCartney – Flaming Pie – Capitol/Universal 2CD Deluxe – 2LP – 3LP – Super Deluxe 5CD/2DVD Box Set – Uber Deluxe 5CD/2DVD/3LP/45rpm Box Set

A poco più di un anno e mezzo dalla doppia uscita Wild Life/Red Rose Speedway ecco il tredicesimo capitolo delle ristampe potenziate del catalogo di Paul McCartney, in assoluto una delle serie più amate (ma anche più discusse) dai fans: se molti pronostici, incluso il mio, indicavano un’altra doppia pubblicazione che avrebbe chiuso gli anni settanta, cioè London Town e Back To The Egg (album quest’ultimo verso il quale ho sempre avuto un debole, e che andrebbe assolutamente rivalutato), Macca ha spiazzato tutti scegliendo quello che a tutti gli effetti è il lavoro più recente tra quelli presi in esame finora in questa serie, vale a dire Flaming Pie del 1997. Una scelta che comunque ha suscitato reazioni positive (anche nel sottoscritto, per quanto può valere), dato che stiamo parlando di uno degli album migliori dell’ex Beatle, anzi forse il suo ultimo vero grande disco, nonostante in seguito abbia ancora pubblicato lavori più che positivi come Chaos And Creation In The Backyard ed il recente Egypt Station: personalmente lo metto nella mia Top Three degli album di Paul, ultimo di un’ideale trilogia che comprende anche Band On The Run e Tug Of War.

Flaming Pie (che prende il titolo dal famoso sogno nel quale un giovane John Lennon vide un uomo uscire da una “pie” fiammeggiante – dove per “pie” si intende il tipico pasticcio di carne della cucina inglese – pronunciando la celebre frase “Voi sarete i Beatles con la A!”) è infatti un disco splendido, ispirato e pieno di grandi canzoni, un lavoro di un McCartney tirato a lucido ed in forma come non mai, con alcuni dei suoi brani migliori degli ultimi 30-40 anni. Il fatto che otto brani su quattordici siano prodotti dal mio “amico” Jeff Lynne (gli altri sei vedono alla consolle lo stesso Paul, quattro da solo e due con lo storico produttore dei Fab Four George Martin) non influenza il giudizio, al massimo è la classica ciliegina sulla torta. Lynne all’epoca era reduce dal progetto The Beatles Anthology per la quale aveva supervisionato i due brani nuovi Free As A Bird e Real Love, e sembrò a tutti una cosa naturale che alla fine l’ex ELO finisse per collaborare direttamente con Paul. Flaming Pie è anche l’ultimo album in cui compare l’amata moglie di Paul, Linda, già colpita dal tumore che la porterà via con sé nel 1998; oltre a McCartney, Linda e Lynne non è che il disco contenga molti altri musicisti: Paul e Jeff si occupano di gran parte degli strumenti, mentre in alcune canzoni alla batteria troviamo il vecchio compagno Ringo Starr ed alla chitarra solista in tre pezzi addirittura Steve Miller, amico di Paul da una vita (e nel brano Heaven On A Sunday l’assolo di chitarra è dell’allora diciannovenne figlio di Macca, James McCartney).

La ristampa di Flaming Pie esce nella solita varietà di formati, ed il top di gamma “umano” (sì perché c’è anche una versione mastodontica venduta solo sul sito di Paul a quasi seicento euro, e che incredibilmente non aggiunge neanche un minuto di musica rispetto al cofanetto “normale”) è il classico box Super Deluxe ricchissimo di contenuti visivi, con un libro davvero magnifico che raccoglie una lunga serie di bellissime foto di Paul in studio ed in famiglia (ed anche alcuni scatti insieme a George e Ringo per l’Anthology), una riproduzione del songbook originale ed un libretto di ricette di Linda con sei tipi diversi di pasticci di carne. Ma, memore delle critiche feroci piovutegli addosso per la ristampa di Flower In The Dirt, anche il contenuto musicale è più ricco che mai, e prosegue la nuova tendenza inaugurata con Wild Life e Red Rose Speedway: nonostante ciò, i circa 250 euro chiesti per questa edizione sono davvero esagerati. Il primo CD contiene ovviamente la versione rimasterizzata del disco originale, un lavoro ribadisco splendido.

Le tipiche ballate di Paul sono il frutto di un artista veramente ispiratissimo, deliziosi bozzetti come The Song We Were Singing, Calico Skies (un brano che ricorda Blackbird, ancora oggi nelle setlist dal vivo), Little Willow, Great Day (che invece rimanda curiosamente al piccolo frammento del White Album prima di Revolution # 9), e soprattutto le straordinarie Somedays, piccolo gioiello acustico con la raffinata orchestrazione di Martin ed una melodia da brividi, e la pianistica Beautiful Night, dotata anch’essa di un motivo di prima qualità ed un finale corale travolgente con il vocione di Ringo in evidenza (la canzone ha origini antiche, in quanto era stata incisa già nel 1986 ma inspiegabilmente lasciata in un cassetto). La produzione di Lynne qui è meno caratterizzante del solito, se si eccettuano il trascinante rock’n’roll della title track ed il coinvolgente pop-rock della bella The World Tonight, che sembra una outtake dei Traveling Wilburys.

E poi c’è Steve Miller che fa sentire la sua chitarra nella rockeggiante If You Wanna, nella jam session cruda e bluesata Used To Be Bad, nella quale duetta con Paul anche vocalmente, e soprattutto nella squisita Young Boy, una di quelle pop songs irresistibili che solo Paul è in grado di scrivere e che all’epoca uscì come primo singolo. Chiudono il cerchio la raffinata Heaven On A Sunday, dal tocco jazzato, il godibile errebi bianco di Souvenir e Really Love You, collaborazione più unica che rara a livello di scrittura tra Paul e Ringo e musicalmente una pura improvvisazione sullo stile di Why Don’t We Do It In The Road?

Il secondo dischetto del box è riservato agli Home Recordings di 11 dei 14 brani del disco, incisi da Paul tra il 1993 ed il 1995, voce, chitarra acustica e piano; se i pezzi di stampo acustico sono simili a quelli conosciuti, le sorprese riguardano The World Tonight, If You Wanna, Young Boy (qui ancora intitolata Poor Boy) e Flaming Pie, estremamente gradevoli anche in questa veste “stripped-down” (per la serie: se una canzone è bella, è bella sempre). Con il terzo CD ci spostiamo in studio (The Mill Studios nel Sussex, di proprietà di Paul, dove è stato inciso il disco): qui possiamo ascoltare i demo acustici, solo Paul e Linda, di Great Day, Calico Skies e If You Wanna, un work in progess di Beautiful Night con Paul e Ringo, una lunga versione alternata e non troppo rifinita di Heaven On A Sunday, un breve accenno di poco più di un minuto di C’mon Down C’mon Baby, brano mai più ripreso in seguito (ed a sensazione non ci siamo persi molto), e quattro “rough mix” di tre pezzi che finiranno sull’album ed uno, Whole Life (un discreto funk-rock inciso con Dave Stewart), che verrà usato sulla compilation a scopo benefico One Year On.

E veniamo al quarto dischetto, che inizia con un brano molto particolare: si tratta della nota collaborazione tra Paul ed Allen Ginsberg in The Ballad Of The Skeletons, una poesia del grande artista americano messa in musica proprio da Macca ed incisa con una superband che vede al suo interno oltre allo stesso Paul Lenny Kaye, Philip Glass, David Mansfield e Marc Ribot. Il brano, per chi non lo conoscesse, è una bella sorpresa: Ginsberg recita in maniera molto musicale, l’accompagnamento è elettrico al punto giusto (sembra quasi un pezzo di Lou Reed) e l’insieme risulta addirittura trascinante. Il CD prosegue con quattro b-sides, le prime due rispettivamente ancora con Lynne e Miller, ma se la funkeggiante Looking For You non è il massimo, il blues elettroacustico Broomstick non è affattto male; le altre due, Love Come Tumbling Down e la sofisticata Same Love (con il grande Nicky Hopkins al piano), risalgono addirittura al biennio 1987-88, ed avrebbero potuto occupare tranquillamente entrambe due lati A.

La parte finale del dischetto è appannaggio di sei diversi capitoli della saga di Oobu Joobu, una trasmissione radio curata da Paul in cui l’ex Beatle parlava, scherzava e cazzeggiava, ma mandava in onda anche canzoni inedite: qui possiamo ascoltare una serie di brani registrati nel 1986 (alcuni con la produzione di Phil Ramone), tra cui la versione originale di Beautiful Night incisa con la band di Billy Joel, le orecchiabili Don’t Break The Promise e Love Mix e le meno riuscite I Love This House, Atlantic Ocean e Squid, tutte rovinate da orribili sonorità sintetizzate tipiche degli anni ottanta. Il quinto CD, intitolato Flaming Pie At The Mill, è uno spoken word di un’ora circa in cui Paul ci illustra il suo studio e parla del disco (di difficile ascolto se non siete di madre lingua), mentre gli episodi salienti dei due DVD sono i vari videoclip promozionali ed il documentario In The World Tonight (che ricordo all’epoca aveva trasmesso anche la RAI).

Un cofanetto quindi decisamente esauriente (ma, ripeto, costosissimo), che ci fa riassaporare in profondità uno dei più bei lavori di sempre di Sir Paul McCartney: non credo che con la prossima uscita ci si spingerà ancora più avanti come periodo, e quindi punto fin da ora sull’accoppiata di cui vi parlavo prima London Town/Back To The Egg (a meno che Paul non decida di rischiare e sorprenderci di nuovo con i criticatissimi Give My Regards To Broad Street e Press To Play).

Marco Verdi

Il 31 Luglio Esce Flaming Pie, La 13a Uscita Della Serie Delle Ristampe Di Paul McCartney

paul mccartney flaming pie

Paul McCartney – Flaming Pie – MPL/Capitol/Universal – 2 CD – 2 LP – Limited 3 LP Boxset – Superdeluxe 5 CD + 2 DVD – 31-07- 2020

Dopo il lungo lockdown, anche a livello discografico, l’estate sta portando ad un ritorno, sia pure ancora prudente, e con ulteriori diversi rinvii, anche all’ultimo momento, delle date di uscita, alla pubblicazione di parecchi nuovi album, anche nell’ambito dei cofanetti. Ne sono stati annunciati parecchi, e altri si aggiungono con cadenza nuovamente vivace.

Questo di Flaming Pie di Paul McCartney è sicuramente uno dei box più lussuosi (e ovviamente costosi, con un prezzo indicativo intorno ai 250 euro, ma c’è anche una Collector’s Edition limitata a 3.000 copie, con quattro vinili aggiunti, che sul sito di Macca costa 600 euro): oltre al contenuto discografico, il cofanetto, rivestito di panno, contiene, oltre a memorabilia assortita, che allargando l’immagine sopra, o guardando il video, potete verificare, il solito librone rilegato da 128 pagine (e anche gli Stones con Goats Head Soup per la prima volta seguiranno l’esempio) ricco di interviste, foto inedite di Linda, informazioni brano per brano, anche sui musicisti impiegati, tra cui alcuni ospiti di pregio, da Jeff Lynne, che co-produce il disco con Paul e George Martin, a Steve Miller, Ringo Starr, anche il figlio di Paul, James McCartney, che all’epoca aveva 20 anni, e una miriade di altri strumentisti, che fanno sì che questo album del 1997 sia uno dei migliori della sua produzione solista, anche per le canzoni presenti, tra cui ce ne sono parecchie di ottima qualità. Nella confezione anche 2 DVD, ma pure un CD parlato Flaming Pie At The Mill: negli altri 4 CD troviamo il disco originale rimasterizzato, un dischetto di registrazioni casalinghe e demo, un altro di studio tracks varie, e infine le B-sides di singoli, mix, e mini cd, per un totale di 32 canzoni extra.

Come al solito a seguire trovate il contenuto completo del cofanetto.

[CD1]
The Song We Were Singing
The World Tonight
If You Wanna
Somedays
Young Boy
Calico Skies
Flaming Pie
Heaven On A Sunday
Used To Be Bad
Souvenir
Little Willow
Really Love You
Beautiful Night
Great Day

[CD2: Demos & Home Recordings]
The Song We Were Singing [Home Recording]
The World Tonight [Home Recording]
If You Wanna [Home Recording]
Somedays [Home Recording]
Young Boy [Home Recording]
Calico Skies [Home Recording]
Flaming Pie [Home Recording]
Souvenir [Home Recording]
Little Willow [Home Recording]
Beautiful Night [1995 Demo]
Great Day [Home Recording]

[CD3: Studio Tracks]
Great Day [Acoustic]
Calico Skies [Acoustic]
C’mon Down C’mon Baby
If You Wanna [Demo]
Beautiful Night [Run Through]
The Song We Were Singing [Rough Mix]
The World Tonight [Rough Mix]
Little Willow [Rough Mix]
Whole Life [Rough Mix]
Heaven On A Sunday [Rude Cassette]

[CD4: B-Sides]
The Ballad Of The Skeletons
Looking For You
Broomstick
Love Come Tumbling Down
Same Love
Oobu Joobu Part 1
Oobu Joobu Part 2
Oobu Joobu Part 3
Oobu Joobu Part 4
Oobu Joobu Part 5
Oobu Joobu Part 6

[CD5]
Flaming Pie At The Mill (Spoken Word)

[DVD1]
In The World Tonight (Documentary)

[DVD2]
Beautiful Night
Making Of Beautiful Night
Little Willow
The World Tonight [Dir Alistair Donald]
The World Tonight [Dir Geoff Wonfor]
Young Boy [Dir Alistair Donald]
Young Boy [Dir Geoff Wonfor]
Flaming Pie Epk 1
Flaming Pie Epk 2
In The World Tonight Epk
Flaming Pie Album Artwork Meeting
Tfi Friday Performances
David Frost Interview

Per tutti gli ulteriori dettagli ed una disamina della parte musicale, dopo l’uscita del manufatto troverete sul Blog un resoconto dettagliato.

Bruno Conti

Ben Prima Di Wilburys Ed ELO (E Della Barba), Ecco I Primi Passi Di Jeff Lynne. The Idle Race – The Birthday Party Deluxe Edition

idle race birthday party

The Idle Race – The Birthday Party Deluxe Edition – Grapefruit/Cherry Red 2CD

Interessante e per chi scrive gradita ristampa di The Birthday Party, album d’esordio degli Idle Race, gruppo pop britannico proveniente da Birmingham che altro non è che la band nella quale Jeff Lynne mosse i primi passi musicali nel lontano 1967, prima di entrare nei Move e successivamente “trasformarli” nella Electric Light Orchestra, band che gli darà fama mondiale e che gli permetterà di far entrare il suo nome nel giro che conta consentendogli di diventare, a partire dalla seconda metà degli eighties, uno dei produttori più richiesti dalla crema del rock internazionale. Lynne non ha mai nascosto il suo grande amore per i Beatles (specialmente il lato McCartney), e questa influenza si manifesta in maniera chiara e lampante ascoltando queste incisioni, una bella serie di canzoni pop gradevoli e dirette, con coretti e melodie orecchiabili, un tocco di vaudeville e persino un pizzico di psichedelia (il suono “californiano” del Jeff produttore è qui ancora molto lontano, ma le radici del suo stile ci sono già).

Eppure gli Idle Race non sono al 100% una creatura di Lynne, in quanto si formarono nel 1966 sull’ossatura dei Nightriders (gruppo nel quale aveva militato anche Roy Wood, amico di gioventù di Jeff ed in seguito con lui sia nei Move che nella prima ELO): il nostro prese il posto di Johnny Mann, e con i “superstiti” Dave Pritchard alla chitarra ritmica, Greg Masters al basso e Roger Spencer alla batteria formò appunto gli Idle Race (in un primo momento il nome era Idyll Race), con i quali esordì nel 1967 con un paio di singoli e nel 1968 con l’album The Birthday Party, disco che non ebbe il minimo successo nonostante il buon livello delle canzoni, un po’ per la scarsa promozione da parte della Liberty, un po’ per la bizzarra scelta di non estrarne neppure un singolo, ma anche perché un certo tipo di pop all’acqua di rose (ed un po’ derivativo) arrivava forse leggermente fuori tempo massimo.

Risentito oggi l’album, pur nella sua brevità (meno di mezz’ora), è un divertente e gradevole esempio di puro pop beatlesiano, nel quale troviamo i germogli del talento di Lynne che scrive tutte le canzoni tranne una, pur con qualche ingenuità di fondo (tra l’altro l’ormai famosa frase “produced by Jeff Lynne” la troveremo dal loro secondo lavoro, in quanto qui alla consolle ci sono Eddie Offord e Gerald Chevin). I brani sono tutti estremamente godibili: la saltellante Skeleton And The Roundabout, una deliziosa ed orecchiabile pop song con uno stile a metà tra il vaudeville degli anni trenta ed i Fab Four, il pop barocco di The Birthday, già con alcuni elementi nel songwriting di Lynne che ritroveremo negli anni a seguire, la squisita I Like My Toys, un pezzo accattivante che avrebbe potuto essere un buon singolo. Ma anche gli altri pezzi, pur non avendo cambiato la storia del pop-rock, sono meritevoli di ascolto, come la solare Morning Sunshine, Follow Me Follow, dalla melodia fresca e con similitudini anche con i Bee Gees, o le ugualmente fresche e piacevoli Sitting In My Tree e On With The Show, le super-beatlesiane Lucky Man, Don’t Put Your Boys In The Army, Mrs. Ward e The Lady Who Said She Could Fly (tutte influenzate dal sound di Sgt. Pepper) e la ballata End Of The Road, con gli archi che in un certo senso anticipano il futuro suono della ELO; non male neanche Pie In The Sky, unico pezzo scritto e cantato da Pritchard.

Questa nuova edizione della Cherry Red non contiene inediti assoluti, ma è comunque interessante perché il primo CD include per la prima volta la versione mono dell’album, mentre nel secondo trova posto la controparte in stereo, il tutto impreziosito da dieci bonus tracks totali, nove nel primo dischetto (tutte in mono) ed una soltanto nel secondo, una versione alternata in stereo di Sitting In My Tree (dato che per motivi ignoti anche nell’edizione originale in stereo dell’album questa canzone era in mono) pubblicata originariamente nella ristampa del 1976. Il primo CD comprende invece sei brani usciti solo su 45 giri nel triennio 1967-68-69 (la pimpante The Lemon Tree, scritta da Roy Wood ed incisa anche dai Move, la bella e rockeggiante My Father’s Son di Pritchard, la bizzarra Imposters Of Life’s Magazine, l’orecchiabile b-side Knocking Nails Into My House, la vibrante Days Of The Broken Arrows, tra pop e rock’n’roll e tipica di Lynne, e la misticheggiante Worn Red Carpet, ancora di Pritchard) e tre takes alternate già pubblicate nell’antologia del 1996 Back To The Story (Lucky Man, Follow Me Follow e Days Of The Broken Arrows).

Lynne rimarrà nel gruppo anche per il seguente Idle Race (1969), dopodiché accetterà l’invito da parte di Wood di entrare nei Move (ed il seguito è noto), mentre il resto della band, con qualche cambio in formazione, pubblicherà ancora Time Is nel 1971 e poi, dato anche il perdurante insuccesso, diventerà il nucleo della Steve Gibbons Band.

Marco Verdi

Il Solito Disco Molto Piacevole (Anche Più degli Altri), Ma Date Una Band A Quest’Uomo! Jeff Lynne’s ELO – From Out Of Nowhere

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Jeff Lynne’s ELO – From Out Of Nowhere – Columbia/Sony CD

La Electric Light Orchestra non è più una vera band dal 1986, anno in cui diede alle stampe il peraltro non eccelso Balance Of Power prima di sciogliersi definitivamente: da allora tutto ciò di nuovo che è uscito a nome del gruppo (in realtà dal 2001 in poi) ha visto l’ex leader Jeff Lynne come unico musicista presente, sia che abbia usato l’antico moniker (Zoom e Mr. Blue Sky, che era un’antologia di vecchi successi incisi ex novo) che, dal 2015, quello di Jeff Lynne’s ELO (Alone In The Universe). Questo è sempre stato il pregio ma anche il limite del barbuto artista britannico, geniale architetto pop con un gusto non comune per le melodie orecchiabili ed immediate (chi segue il blog da tempo saprà della mia passione “proibita” per il musicista di Birmingham https://discoclub.myblog.it/2017/11/22/lastronave-e-tornata-ai-fasti-di-un-tempo-jeff-lynnes-elo-wembley-or-bust-e-un-breve-saluto-a-malcolm-young/ ), ma anche maniaco del controllo con la fissazione di voler fare tutto da solo, mentre spesso le sue canzoni, se non proprio di qualcuno che si occupi di chitarre e tastiere (due ambiti in cui il nostro se la cava egregiamente), beneficerebbero almeno di una buona sezione ritmica.

Anche in questo From Out Of Nowhere, nuovissimo lavoro a nome ELO (in un certo senso), Jeff finisce per scrivere, cantare, suonare e produrre tutto da solo, con l’eccezione dell’ingegnere del suono Steve Jay al quale lascia “l’onore” di suonare tamburello e shaker, e dell’ex compagno di Astronave Richard Tandy al pianoforte in un brano. Comunque From Out Of Nowhere è il solito bel dischetto formato da canzoni di piacevole ascolto e ricche delle classiche soluzioni sonore tipiche del nostro e perfette armonie vocali influenzate da Beatles e Beach Boys, un album citazionista fin dalla copertina e dal titolo (che richiamano rispettivamente A New World Record ed Out Of The Blue, forse i due lavori “classici” migliori della band): il risultato finale è superiore a quello di Alone In The Universe, in quanto qui i brani sono decisamente più convincenti nonostante i dubbi che ho espresso prima circa l’assenza di musicisti più “specializzati”, anche se avrei gradito un minutaggio maggiore dei 33 minuti scarsi totali. Si inizia con la title track, una limpida ballata pop-rock dal tempo mosso e con una melodia contagiosa tipica di Lynne, con tutto ciò che uno si aspetta di trovare in una canzone targata ELO (tranne violini e violoncelli, che in questa versione “moderna” del gruppo sono praticamente spariti), con Jeff che mostra di avere sempre una gran bella voce: da sola questa canzone è già meglio di metà del materiale di Alone In The Universe.

Deliziosa Help Yourself, che è un misto tra anni sessanta e Traveling Wilburys, con i tipici riverberi del nostro, il solito motivo ruffiano ed un assolo chitarristico alla George Harrison; All My Love è contraddistinta da un basso pulsante e da un ritmo spezzettato, con Jeff che tenta di diversificare leggermente il suono, canzone discreta ma nulla più, a differenza di Down Came The Rain che è una rock song chitarristica dallo spiccato gusto sixties, che rimanda al Tom Petty più pop (che infatti era prodotto proprio da Jeff). Losing You è una ballata lenta ed ariosa in uno stile tra il malinconico ed il nostalgico che è uno dei vari marchi di fabbrica di Lynne, One More Time è uno scatenato e coinvolgente rock’n’roll con il già citato ottimo intervento di Tandy al piano (e qui si sente in misura maggiore l’assenza di un bassista ed un batterista “veri”), mentre Sci-Fi Woman è un altro pezzo giusto a metà tra pop e rock, ritmo cadenzato e consueto refrain immediato e gradevole. La tersa Goin’ Out On Me è uno slow ancora immerso in un’atmosfera anni sessanta, poco ELO e molto Lynne (la differenza è sottile ma c’è), e precede Time Of Our Life (dedicata alla memorabile serata a Wembley che ha originato il live Wembley Or Bust), una delle più orecchiabili del CD ed ancora molto Wilbury-sounding, e la conclusiva Songbird, altro lento dal sapore d’altri tempi che vede il ritorno del violoncello all’interno della strumentazione.

Pur con tutti i dubbi sul fatto di voler fare sempre tutto da solo, From Out Of Nowhere è il miglior lavoro di Jeff Lynne da quando è tornato a produrre musica per conto proprio.

Marco Verdi

L’Astronave E’ Tornata Ai Fasti Di Un Tempo? Jeff Lynne’s ELO – Wembley Or Bust (E Un Breve “Saluto” A Malcolm Young)

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Jeff Lynne’s ELO – Wembley Or Bust – Columbia/Sony 2CD/BluRay – 2CD/DVD – 2CD – 3LP

Dopo il flop del suo album del 2001 Zoom (accreditato alla Electric Light Orchestra per ragioni di marketing) con conseguente annullamento della tournée successiva per mancato interesse del pubblico, secondo me neppure lo stesso Jeff Lynne avrebbe pensato ad un ritorno di popolarità del gruppo che gli diede fama e successo negli anni settanta. Negli ultimi anni c’è però stata una decisa spinta “revivalistica” verso gli acts più popolari del cosiddetto periodo “classic rock”, ed anche il barbuto songwriter-cantante-produttore ne ha beneficiato, prima con l’assaggio del concerto di Hyde Park di due anni fa (e relativo DVD), poi con il nuovo album di studio uscito sempre nel 2015, Alone In The Universe (per la verità non un grande successo, a dimostrazione che oggigiorno le rockstar i soldi li fanno con i concerti e non con i dischi http://discoclub.myblog.it/2015/12/04/la-serie-chi-si-accontenta-gode-jeff-lynnes-elo-alone-the-universe/ ), entrambi sotto il nuovo moniker Jeff Lynne’s ELO, creato ad hoc per prendere le distanze dal gruppo farlocco messo su dai suoi ex compagni negli anni novanta. A quel disco è seguito un tour quello sì di grande impatto (e già ci sono nuove date pronte per il 2018), culminato con la serata del 24 Giugno di quest’anno al Wembley Stadium di Londra, a detta dello stesso Lynne l’evento “top” della sua carriera artistica.

Ed a ragione, in quanto il mitico stadio londinese era tutto esaurito, con un colpo d’occhio impressionante, tutto molto ben evidenziato dalle immagini del film-concerto uscito per celebrare la serata, Wembley Or Bust, che a differenza del live a Hyde Park comprende anche la versione audio. Ed il concerto è altamente spettacolare, grazie all’enorme palco sul quale incombe la ben nota astronave da sempre simbolo del gruppo, ma anche al suono potente e decisamente più rock che su disco, ad opera di una numerosa live band che però non ha nulla a che vedere con la ELO originale, che è ormai un progetto di studio del solo Jeff: l’unico membro passato, il pianista Richard Tandy, è assente per problemi di salute, ma ci sarà nel tour del 2018. Sul palco, compreso Lynne, sono ben in tredici, in modo da ricreare al meglio le architetture pop della band inglese, ed anche le complesse armonie vocali, molto influenzate da Beatles e Beach Boys: non li nomino tutti, ma meritano senz’altro una citazione il chitarrista ritmico e direttore musicale Mike Stevens, il bassista Lee Pomeroy, la seconda chitarra solista e slide Milton McDonald, il backing vocalist (che di tanto in tanto canta anche qualche strofa come voce solista) Iain Hornal, ed il trio di archi tutto al femminile formato dalle sorelle Rosie ed Amy Langley (entrambe molto attraenti) rispettivamente al violino e violoncello, e Jessica Cox anch’essa al violoncello.

Lynne sul palco ricorda un po’ Roy Orbison: non si muove molto, non è un vero animale da palcoscenico, a volte appare anche piuttosto intimidito dall’enorme quantità di pubblico, ma bastano ed avanzano le sue canzoni per mandare in visibilio gli oltre sessantamila presenti sugli spalti (con un’età media, bisogna dirlo, abbastanza elevata). Dopo l’apertura con la trascinante Standing In The Rain, tra rock, pop, e musica sinfonica, vediamo sfilare una bella serie di brani che, volenti o nolenti, sono ormai dei classici del pop-rock internazionale: la danzereccia Evil Woman, l’errebi Showdown, la godibile Living Thing, nella quale troviamo le radici del Wilbury sound, le deliziose ballate Can’t Get It Out Of My Head e Telephone Line, molto beatlesiane, l’antica 10538 Overture, il gioiellino pop Sweet Talkin’ Woman, la mossa Turn To Stone (che non mi ha mai entusiasmato) e la trascinante Don’t Bring Me Down. Dall’ultimo album Jeff suona solo un pezzo, la ballad When I Was A Boy (dal ritmo leggermente accelerato rispetto alla versione in studio), mentre pesca dal suo songbook anche qualche sorpresa, come una sempre splendida Handle With Care (giusto omaggio ai Traveling Wilburys), l’inattesa Xanadu, in origine cantata da Olivia Newton-John, la festosa All Over The World e la mini-suite di quattro minuti Wild West Hero. Non viene dimenticata anche la ELO più “disco music”, Last Train To London e Shine A Little Love, fortunatamente controbilanciate dalla parte rock’n’roll formata da Do Ya (un’eredità dei Move), Rockaria! e Ma-Ma-Ma Belle. Gran finale con la famosissima Mr. Blue Sky, forse la signature song di Lynne per antonomasia, e la sempre strepitosa Roll Over Beethoven, puro e trascinante rock’n’roll, con i violini tenuti al minimo sindacale in favore delle chitarre.

Sono ben conscio che Jeff Lynne e la ELO rientrano nella categoria “piaceri proibiti”, ma sono convinto che se il pop cosiddetto da classifica di oggi fosse a questi livelli vivremmo in un mondo (musicale) migliore.

Marco Verdi

P.S: a proposito di piaceri proibiti, volevo spendere due parole in ricordo di Malcolm Young, storico chitarrista ritmico degli AC/DC, scomparso il 18 Novembre scorso a soli 64 anni per problemi pare legati al cuore (ma anni fa aveva sconfitto un cancro ai polmoni, e nel 2014 aveva dovuto abbandonare il gruppo a causa di una forma tutto sommato precoce di demenza senile). Fratello meno famoso di Angus Young (iconico leader della band australiana di origine scozzese, grazie anche al suo abbigliamento da scolaretto ed al passo dell’oca, che però fu introdotto nel rock’n’roll da Chuck Berry), Malcolm è sempre stato un leader silenzioso ma determinante per il suono del gruppo, essendo parte integrante e fondamentale della spina dorsale ritmica dei potenti brani del quintetto: dagli addetti ai lavori è stato infatti giudicato uno dei migliori chitarristi ritmici in campo hard rock di sempre. Adesso Malcolm ritroverà il vecchio amico Bon Scott, e magari organizzeranno una bella jam session a tutto rock…non prima magari di essersi fatti un goccetto.

*NDB del P.S. Circa un mese prima, il 22 ottobre scorso, è morto a 71 anni, anche George Young, che era il fratello maggiore di Angus e Malcolm, nonché il produttore con Harry Vanda dei primi dischi degli AC/DC e prima ancora, sempre con l’accoppiata Vanda/Young era stato il leader degli Easybeats, una delle band storiche del primo rock australiano autori del mega successo mondiale Friday On My Mind (immortalato per i posteri anche da David Bowie su Pin Ups, il suo disco di cover, e per noi italiani, come La Follia, dai Ribelli di Demetrio Stratos, come Lato B di Pugni Chiusi https://www.youtube.com/watch?v=OlHVY9bZtDA). Il disco originale era prodotto da Shel Talmy, quello degli Who e dei Kinks.

Il “Solito” Ringo, Piacevole E Disimpegnato. Ringo Starr – Give More Love

ringo starr give me more love

Ringo Starr – Give More Love – Universal CD

Personalmente non sono mai stato d’accordo con le critiche più frequenti mosse negli anni verso Ringo Starr, e cioè che fosse un batterista piuttosto scarso e che dovesse la sua fama semplicemente all’allontanamento di Pete Best dal posto dietro ai tamburi dei Beatles. Certo, quello può essere stato un colpo di fortuna, ma il piccolo e nasuto Richard Starkey i galloni se li è guadagnati sul campo, migliorandosi negli anni e mettendo a punto uno stile riconoscibilissimo, pulito ed essenziale: non credo infatti che la miriade di musicisti che, dal 1970 in poi, hanno richiesto i servigi di Ringo sui propri album fossero tutti degli autolesionisti che volevano un batterista poco capace solo perché “faceva figo” avere il nome di un Beatle sul disco. Diverso è il discorso quando si parla di Ringo come musicista in proprio, dato che nella sua ormai ampia discografia (19 album di studio compreso l’ultimo) e volendo stare larghi, di dischi indispensabili ne citerei tre: l’ottimo esercizio di puro country Beaucoups Of Blues del 1970, lo splendido Ringo del 1973 ed il riuscito comeback album del 1992 Time Takes Time. Nel corso degli ultimi vent’anni Ringo ha continuato ad incidere con regolarità (e ad esibirsi con la sua All-Starr Band, ma questa è un’altra storia), sfornando una serie di album tanto piacevoli quanto tutto sommato superflui, con alcuni meglio di altri (Vertical Man, Ringo Rama, Liverpool 8) ed altri apprezzabili ma decisamente meno riusciti, tra i quali metterei senz’altro i tre usciti nella presente decade, Y Not http://discoclub.myblog.it/2009/12/30/ringo-starr-y-not/ , Ringo 2012 e Postcard From Paradise.

Give More Love, uscito il 15 Settembre scorso, è un buon disco, con alcune canzoni ottime ed altre più nella norma, un lavoro che non si aggiunge certo ai tre “imperdibili” citati all’inizio ma si colloca altrettanto certamente tra i più positivi delle ultime due decadi. Inizialmente Give More Love doveva essere un album country da realizzare in collaborazione con l’ex Eurythmics Dave Stewart, ma poi Ringo ha scritto canzoni con uno spirito diverso, più rock, e le ha incise e prodotte in proprio nel suo studio casalingo. E l’esito finale è molto piacevole, forse più del solito: Ringo non sarà mai un fuoriclasse, ma in tutti questi anni ha imparato anche a scrivere canzoni migliori, e se messo nelle giuste condizioni, cioè con in brani adatti a lui e con l’aiuto di qualche amico, è ancora in grado di divertire. Dicevo degli amici, ed in questo disco c’è una lista di nomi impressionanti, che solo ad elencarli tutti ci vuole un post a parte (anche se ognuno di loro, devo dirlo, si mette al servizio del nostro senza rubargli mai la scena): Steve Lukather, Peter Frampton, Joe Walsh, Greg Leisz, Dave Stewart, Gary Nicholson, Benmont Tench, Edgar Winter, Don Was, Greg e Matt Bissonette, Timothy B. Schmit, Nathan East e, l’ho lasciato volutamente per ultimo, l’ex compare Paul McCartney al basso in due pezzi. Un gradevole disco di pop-rock quindi, senza troppe problematiche, di classe e suonato benissimo. Si inizia con la potente We’re On The Road Again, un rock’n’roll trascinante con Lukather alla solista e McCartney al basso che “pompano” che è un piacere e Ringo che canta in maniera sicura (e Paul alla fine piazza un paio di controcanti riconoscibilissimi): ottimo avvio. Laughable, cadenzata ed insinuante, è piacevole ed immediata, grazie ad un bel refrain, e mostra che il nostro ha scelto una produzione più rock che pop, con grande spazio per le chitarre (qui l’axeman è Frampton).

Show Me The Way è uno slow piuttosto asciutto nell’arrangiamento (organo, chitarra e sezione ritmica), ma io Ringo lo preferisco nei brani più mossi, come Speed Of Sound, altro rock’n’roll deciso, ben eseguito e sufficientemente coinvolgente, con Frampton che per l’occasione rispolvera il suo talkbox. Molto carina Standing Still, un rock-country-blues con un bravissimo Leisz al dobro e Ringo che intona una melodia che piace all’istante; King Of The Kingdom (scritta con Van Dyke Parks) ha un tempo reggae, un motivo orecchiabile e solare ed un bell’intervento di Winter al sax, mentre Electricity, nonostante la presenza di Walsh e Tench ed un testo autobiografico, non è una gran canzone. Molto meglio So Wrong For So Long, una languida country ballad con la splendida steel di Leisz, unico residuo del progetto iniziale con Stewart (che infatti è co-autore), un peccato comunque che non si sia andati fino in fondo. La parte “nuova” del CD (dopo vedremo perché nuova) si chiude con la swingata Shake It Up, un boogie dal gran ritmo, una delle più immediate del lavoro, e con la squisita title track, la più pop del disco, ma con il sapore nostalgico dei brani dell’amico George Harrison. A questo punto il dischetto presenta quattro bonus tracks, quattro brani che Ringo ha preso dal suo passato reincidendoli ex novo (e va detto, senza mai superare gli originali), a partire da una versione molto particolare di Back Off Boogaloo, che parte dal demo originale del 1971 al quale sono stati aggiunti gli strumenti odierni, e c’è anche Jeff Lynne alla chitarra (e per una volta non alla produzione). Poi abbiamo la beatlesiana Don’t Pass Me By, suonata insieme alla band indie americana Vandaveer (ed accenno finale ad Octopus’s Garden), una tonica You Can’t Fight Lightning con il gruppo anglo-svedese Alberta Cross e, sempre con i Vandaveer, la sempre bellissima Photograph.

Un disco, ripeto, molto piacevole e senza troppe elucubrazioni mentali, forse non imperdibile, ma comunque se lo comprate non sono soldi buttati.

Marco Verdi

Da Evitare: Un’Altra “Mezza” Fregatura! Del Shannon – The Dublin Sessions

del shannon the dublin sessions

Del Shannon – The Dublin Sessions – S’More Entertainment/Rockbeat Records   

Che dire? Io inizierei, come si usa in questi casi, con un bel “Mah”! Ormai le etichette specializzate in ristampe sono alla spasmodica ricerca di materiale raro od inedito, o comunque di cui si vocifera tra i fans degli artisti in questione, di solito nomi importanti che magari hanno fatto la storia del rock. E di sicuro Del Shannon rientra in questa categoria. Però il cantante del Michigan è ormai scomparso suicida da quasi 30 anni e i suoi ultimi album, a parte un paio dove erano coinvolti Tom Petty e gli Heartbreakers, e nell’ultimo Rock On, uscito postumo nel 1991, anche Jeff Lynne, non brillavano certo per qualità https://www.youtube.com/watch?v=0vrnwu_yl4k . Proprio negli anni ’70 Shannon aveva raggiunto il nadir della sua carriera: affetto da alcolismo Del non sempre sapeva scegliere i suoi collaboratori e anche le scelte discografiche, tipo questa di registrare un disco in Irlanda, durante un tour del Regno Unito del 1977, con molte date fissate anche a Dublino, si era poi rivelata sbagliata, visto che il disco inciso, dopo essere stato proposto e rifiutato da varie case discografiche, alla fine non era mai stato pubblicato. E forse un motivo c’era: registrato insieme alla sua touring band dell’epoca, tali SMACKEE da Coventry, (di cui vi risparmio i nomi perché sono assolutamente sconosciuti), l’album contiene undici brani, tra cui quattro cover, poco più di 37 minuti di musica, che a parere di chi scrive avrebbero dovuto restare nei cassetti dove erano rimasti per tutti questi anni. So che i fans più accaniti dissentiranno, ma queste operazioni lasciano il tempo che trovano (e non solo nel caso di Del Shannon), spesso, anzi quasi sempre, sono molto più interessanti quei vituperati, da alcuni, broadcast radiofonici (semi) ufficiali che impazzano negli ultimi anni, operazioni dubbie, in prevalenza dedicate ad artisti scomparsi, che quindi non si possono “difendere”, ma spesso valide.

Dopo questa lunga concione, scusate, ma quando ci vuole ci vuole, non c’è molto da dire sul disco: se volete una sintesi potrei dirvi che sembra un disco “bruttino” di Roy Orbison degli anni ’70, prodotto da un Jeff Lynne  (o un Dave Edmunds, entrambi hanno avuto a che fare con Shannon) che nei giorni delle registrazioni era affetto però da una forte otite che gli impediva di sentire bene. Se volete elaboro: non c’è un ingegnere del suono, produce lo stesso Del, anche il suono è piuttosto bolso, a tratti sembra quasi in mono, spesso la voce è semi nascosta dagli strumenti e il sound si rifà, a momenti, alla dance music che stava per esplodere in quegli anni. E le canzoni? Un altro bel mah è d’uopo: Best Days Of My Life non è neppure malaccio, sembra un pezzo dei Rockpile, anche se i coretti e il suono dell’organo sono improponibili, Love Letters di Ketty Lester, l’aveva inciso anche Elvis, sembra appunto quasi un brano di Roy Orbison, la voce non è neppure disprezzabile ma l’arrangiamento è pessimo, e pure le melodrammatiche Till I Found You e Raylene, in questo senso non scherzano, la voce è ancora stentorea e orbisoniana (si può dire?), ma l’arrangiamento, con uso massiccio di archi e di coretti fa accapponare la pelle.

One Track Mind è un buon pezzo rock, sempre con la voce sepolta dagli strumenti, ma Black Is Black dei Los Bravos in versione disco-dance con organetto vintage è da denuncia penale, meglio Oh Pretty Woman, il classico di Roy Orbison con cui Del Shannon aveva più di una affinità, anche se ne ho sentito versioni migliori. Le morbide e “cariche” Another Lonely Night e Amanda temo che non resteranno negli annali della musica, come pure una loffia e danzereccia Love It Don’t Come Easy; paradossalmente il brano migliore è la cover di Today, I Started Loving You Again, un pezzo country che uno non vedrebbe legato alle corde vocali di Del Shannon, ma nel disastro totale si salva. Magari, anzi sicuramente, ci sono della passione e della competenza coinvolte (non dimentichiamo che i tipi della Rockbeat erano tra i fondatori della prima Rhino Records), e di tanto in tanto queste operazioni permettono la (ri)scoperta di piccoli gioiellini sepolti dalle sabbie del tempo, ma spesso, non sempre per meri motivi commerciali, semplicemente per entusiasmo, queste operazioni nascondono delle vere fregature per gli appassionati. Per me questo è uno di quei casi, forse sbaglio, ma se potete statene alla larga, oppure maneggiate con cura, e comunque non fidatevi dei fans sui social o su YouTube (sotto il video di Raylene c’è un testuale ” A Del Shannon Masterpiece”), peccato!

Esistono anche delle Nashville Sessions registrate tra il 1982 e il 1984, che sembrano quasi anche peggio, o comunque è una bella lotta, sentite qui sopra, speriamo non vengano mai pubblicate, ma temo il peggio.

Bruno Conti

Non Ci Posso Credere, Lo Hanno Fatto Pure Con Lui, Anche Peggio Di Elvis! Il 3 Novembre Esce “A Love So Beautiful: Roy Orbison With The Royal Philarmonic Orchestra”.

roy orbison a love so beautiful

Ho notato questa notizia tra le news e sono inorridito a tal punto da non poter esimermi dallo scrivere due righe, anche se come vedremo l’uscita è tra molti mesi: non contenti dello scempio fatto con Elvis Presley, del quale due anni orsono sono state prese alcune tracce vocali ed appiccicate su accompagnamenti orchestrali incisi per l’occasione con esiti, come direbbe un noto allenatore, “agghiaggiandi” (If I Can Dream, del quale mi ero sincerato di parlare malissimo proprio qui sul blog http://discoclub.myblog.it/2015/11/05/questanno-natale-bella-seduta-spiritica-elvis-presley-with-the-royal-philarmonic-orchestra-if-i-can-dream/ , bissato l’anno scorso da The Wonder Of You, per il quale invece non avevo voluto infierire preferendo ignorarlo), la Sony ha annunciato che il 3 Novembre uscirà A Love So Beautiful: Roy Orbison With The Royal Philarmonic Orchestra, altra incredibile tamarrata nella quale la voce inimitabile del grande cantante scomparso da diversi anni verrà letteralmente sepolta da arrangiamenti ridondanti e pacchiani. Come aggravante, la base strumentale dei brani sarà risuonata ex novo (orrore!) dai tre figli di Roy, meglio noti come i Roy’s Boys, che da qualche anno sono diventati i curatori degli archivi del padre: un’operazione demenziale che però temo, come è già successo con Elvis, sarà incensata da una certa stampa allineata e “marchettara” e venderà copiosamente, in quanto il pubblico è ormai sempre più attratto dal kitsch fine a sé stesso. Per puro dovere di cronaca, ecco i titoli dei brani inclusi nel CD:

  1. In Dreams
  2. Crying
  3. I’m Hurtin’
  4. Oh, Pretty Woman
  5. It’s Over
  6. Dream Baby
  7. Blue Angel
  8. Love Hurts
  9. Mean Woman Blues
  10. Uptown
  11. Running Scared
  12. Only The Lonely
  13. I Drove All Night
  14. You Got It
  15. A Love So Beautiful
  16. Pretty Paper

Fa specie trovare all’interno anche pezzi originariamente prodotti dal mio “amico” Jeff Lynne, che quindi ha dato il suo benestare ad un’operazione che definire una porcata non è assolutamente fuori luogo, ancor più sorprendente dato che riguarda un artista che in vita non si sarebbe certo prestato a cose del genere (mentre su Elvis qualche piccolo dubbio ce l’avrei…). Dispiace dirlo, ma con Barbara Orbison ancora tra noi questo non sarebbe successo.

Marco Verdi

Per La Serie: Chi Si Accontenta Gode! Jeff Lynne’s ELO – Alone In The Universe

jeff lynne's elo alone in the universe

Jeff Lynne’s ELO – Alone In The Universe – Columbia/Sony CD

Da quando ho iniziato a collaborare a questo blog mi sono tolto parecchie soddisfazioni, commentando lavori di alcuni tra i miei musicisti preferiti e, grazie alla magnanimità del titolare, anche di qualcuno dei miei cosiddetti “piaceri proibiti”. Tra questi, uno dei principali è sicuramente Jeff Lynne: da sempre guardato dall’alto in basso da una certa critica (ma anche da diversi ascoltatori) per il suo passato commerciale come leader della Electric Light Orchestra, Jeff è a mio giudizio un vero architetto pop, dal gusto melodico sopraffino (e molto beatlesiano), che credo abbia dimostrato con le sue produzioni post-ELO tutta la sua bravura, anche se capisco che i suoi dischi a capo dell’Astronave da Discovery in poi possano risultare indigesti per qualcuno (ma che, paragonati a certe immondizie che vanno in classifica oggi, sono sinfonie). Dopo anni di quasi totale inattività (solo qualche nuova canzone sparsa come bonus nelle ristampe della ELO e del suo unico album solista Armchair Theatre), ha prima rialzato la testa nel 2012 con il disco di cover Long Wave e con l’antologia mascherata Mr. Blue Sky (cioè nuove versioni di vecchi successi del suo gruppo storico) http://discoclub.myblog.it/2013/04/13/ristampe-che-passione-2-elo-jeff-lynne/ , per ritornare prepotentemente sul mercato negli ultimi mesi: da Settembre ad oggi, prima il live registrato lo scorso anno a Hyde Park, con il suo nuovo moniker Jeff Lynne’s ELO  http://discoclub.myblog.it/2015/09/26/ritorno-grande-stilejeff-lynnes-elo-live-hyde-park/ (per ragioni di marketing, oltre che per distinguere i nuovi lavori dalle mille antologie e per dissociarsi dalla ELO Part II, tristissima cover band formata da ex membri del vecchio gruppo), poi con la produzione del nuovo Get Up! di Bryan Adams (quasi un disco di Jeff cantato da un altro) http://discoclub.myblog.it/2015/10/22/la-cura-jeff-lynne-ha-fatto-bene-anche-bryan-adams-get-up/ , ed ora con quella che dovrebbe essere la punta di diamante dell’intera operazione di rilancio, cioè un nuovo album intitolato Alone In The Universe.

Dopo lo scioglimento della ELO nel 1986, a seguito di Balance Of Power, Lynne ha troncato i rapporti con tutti i suoi ex compagni (tranne Richard Tandy), trattando da allora la ELO come un giocattolo personale: il suo ritorno sulle scene del 2001, Zoom, peraltro di scarso successo, era un album solo di Jeff in tutto e per tutto, in quanto il suono solo relativamente richiamava quello della vecchia band, ma era più in linea con la sonorità da lui create per le sue produzioni conto terzi. Con Alone In The Universe (primo disco di canzoni nuove da Zoom) il discorso cambia: Jeff è sempre solissimo (c’è solo la figlia Laura ai cori in un paio di pezzi ed il sound engineer Steve Jay al tamburello e shaker), ma le canzoni presenti richiamano direttamente la golden age dell’Astronave, con continui rimandi sia ai gloriosi anni 70 che ai più criticati anni 80, un album quasi “citazionista” che manderà in brodo di giuggiole i fans (ed i primi dati di vendita paiono incoraggianti, al punto che Jeff ha già messo a punto una tournée per l’anno prossimo che al momento non tocca il nostro paese) e continuerà a suscitare perplessità tra i detrattori. Io mi ritengo un fan critico, e credo che Alone In The Universe sia un disco molto piacevole, che scorre via abbastanza facilmente, anche se Jeff sembra non abbia osato più di tanto, ma che abbia voluto scientemente accontentare i suoi ammiratori con delle sonorità “prevedibili”, che però difficilmente attireranno nuovi acquirenti: non capisco poi il senso delle due edizioni (tre se contiamo quella giapponese con tredici canzoni), dato che quella normale con dieci brani dura appena mezz’oretta, e quella “deluxe” con dodici solo cinque minuti in più.

L’album si apre con il primo singolo When A Was A Boy, una ballata tipica del suo autore, con una struttura simile a classici come Can’t Get It Out Of My Head o Telephone Line, cantata molto bene e con una melodia di quelle che non ti mollano più: al limite sorprende che sia stata messa all’inizio del disco, dato che di solito si usa esordire con un brano più potente. Il singolo è anche corredato da un bellissimo video autobiografico (sullo stile di quello di Free As A Bird dei Beatles) che ripercorre i momenti salienti della carriera del nostro: particolarmente toccante il momento in cui vengono ricordati i Traveling Wliburys e lo scomparso Roy Orbison). La cadenzata Love And Rain rimanda direttamente a metà anni 70 e a brani pop-errebi come Showdown, uno stile che Lynne non riprendeva in mano da anni: se Zoom era un disco di pop-rock contemporaneo, da questi due brani si capisce subito che la sigla ELO qui ha più senso.

L’orecchiabile Dirty To The Bone ha una melodia solare ed il classico wall of sound lynniano, mentre When The Night Comes è pop-rock di gran classe, che invece ricorda la ELO post-disco dei primi anni 80, anche se con minor uso di synth (il ritornello è molto simile a quello di Not Alone Anymore dei Wilburys, ma al massimo è auto-plagio). The Sun Will Shine On You è una ballata caratterizzata dal tipico big sound di Jeff, con la voce in primissimo piano, anche se non è tra le mie preferite; Ain’t It A Drag è invece un rock’n’roll with a pop touch, che risente in parte dell’influenza di Tom Petty, mentre All My Life è uno slow decisamente melodico e riuscito, con uno dei migliori refrain del CD ed un suono più Wilbury che ELO. I’m Leaving You ha un delizioso feeling pop anni sessanta (tracce di Orbison), e Jeff canta davvero bene, One Step At A Time sembra una outtake (con una pulizia sonora migliore) di un suo album dei tardi anni settanta (e qui i vecchi fans della ELO esulteranno), mentre la title track chiude la versione “normale” del CD, un brano minore, gradevole ma nulla più. Le bonus tracks sono Fault Line, un divertente rockabilly del tipo che Lynne scrive anche dormendo e la bella Blue, ancora dal deciso sapore sixties (un pezzo che non avrebbe sfigurato tra le dieci della versione normale); discorso a parte per On My Mind, una vibrante rock ballad dalla melodia solida e train sonoro coinvolgente, un peccato che sia solo per i giapponesi.

Quindi un disco fresco e piacevole, che scorre leggero e senza problemi, ma probabilmente senza regalarci un nuovo classico da greatest hits (tranne credo When I Was A Boy): forse sarebbe stato lecito aspettarsi qualcosina in più, ma di questi tempi (se vi piace il genere, è chiaro) ci si può anche accontentare.

Marco Verdi