Humble Pie: La Quintessenza Del Rock Agli Inizi E Poi Un Lungo Lento Declino. Parte II

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Seconda parte.

Gli Anni Della Consacrazione 1971-1973

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Proprio il 28 e 29 maggio del 1971 vengono tenuti al Fillmore East di New York, quattro concerti leggendari  (due al pomeriggio e due alla sera, allora usava così), più o meno con delle scalette simili, come testimoniato dal cofanetto quadruplo in CD Performance Rockin’ The Fillmore, The Complete Recordings, uscito nel 2017, ma che all’epoca, nel classico formato del doppio album, fu pubblicato a novembre, e che arrivò al 21° posto delle classifiche di Billboard, vendendo più di mezzo milione di copie.

Si tratta di uno dei doppi Live forse meno conosciuti e celebrati di altri anche inferiori come qualità e contenuti, ma gli Humble Pie, ancora con Frampton in formazione, sono agli apici della loro potenza sonora, con un set incendiario che oltre alle riletture già citate di I’m Ready, Stone Cold Fever e Rollin’ Stone, comprende anche svariate altre cover: la breve Four Day Creep di Ida Cox,  che apre le procedure, con ugole spiegate e le chitarre a fronteggiarsi a tempo di boogie, con Ridley e Shirley che rispondono colpo sul colpo alla coppia Marriott/Frampton, dopo I’m Ready e Stone Cold Fever che rivaleggiavano come potenza di fuoco con i migliori Led Zeppelin, arriva una chilometrica, più di 23 minuti, versione di I Walk On Gilded Splinters di Dr. John, che dalle volute voodoo dell’originale si trasforma appunto in una devastante performance rock-blues, che tra lunghe pause, ripartenze improvvise, assoli di armonica e di chitarre strapazzate senza pietà, celebra il rito del rock-blues più focoso ed impulsivo che si poteva vedere all’epoca sui palcoscenici americani.

Dopo i 16 minuti di Rollin’ Stone, più soul che blues, arriva anche HallelujahI Love Her So, il brano classico di Ray Charles che la band piega con impeto ai propri voleri, pur mantenendo lo spirito dell’originale, per poi chiudere con un altro brano dal repertorio del “Genius”, una incandescente I Don’t Need No Doctor, piena della furia rock’n’rollistica di Steve Marriott, allora 24enne e non ancora provato dagli stravizi con alcol e droghe che da lì a poco gli faranno perdere il filo della storia.

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Ma nel 1972 tutto funziona ancora alla grande: Dave “Clem” Clempson, arrivato in precedenza dai Colosseum per sostituire Frampton nel tour europeo (approdato anche a luglio del 1971 al Vigorelli di Milano, pochi giorni dopo la mattanza dei Led Zeppelin, come spalla dei Grand Funk Railroad), si limita ad essere la seconda chitarra, mentre quasi tutte le composizioni di Smokin’ (****) sono di Steve Marriott, ed il disco, registrato a febbraio, esce a marzo ‘72, entrando per la prima volta al n° 6 negli States e al 20° posto in Inghilterra.

Diventando il loro disco di maggior successo ed enfatizzando quel tipo di sound su cui i Black Crowes hanno costruito, meritatamente, metà della loro carriera (l’altra metà con i Led Zeppelin, e qualche tocco di Faces): il disco è prodotto dallo stesso Steve che però comincia ad avere problemi di salute al termine delle registrazioni, dove spiccano il rock’n’soul con wah-wah di Hot’n’Nasty , il blues carico e selvaggio di The Fixer, la splendida ballata tra soul e gospel You’re So Good For Me con Doris Troy e Madeline Bell alle armonie vocali, con finale estatico https://www.youtube.com/watch?v=0L_AcS6zBSs .

C’mon Everybody di Eddie Cochran viene rallentata ad arte, ma è sempre di una potenza inaudita con Marriott che canta come un uomo posseduto dal R&R, Old Time Feelin’ è un blues acustico cantato da Ridley, con Alexis Korner al mandolino, mentre nella cover di Road Runner/Road Runner’s ‘G’ Jam, c’è Stills ospite alla chitarra, e non possiamo dimenticare 30 Days In The Hole, uno dei loro brani più famosi, a  tutto riff https://www.youtube.com/watch?v=sdXjm8pZMws , di cui ricordo una versione gagliarda dei Gov’t Mule, per non parlare di un lungo slow blues formidabile come I Wonder, con assolo di wah-wah da sballo https://www.youtube.com/watch?v=KE1y1AUoQrs .

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Eat It (***1/2), un altro doppio album, esce nella primavera del 1973, registrato nello studio casalingo di Marriott, è ancora un successo nelle charts americane, dove arriva fino al 13° posto, un disco che impiega in pianta stabile le Blackberries,  un trio composto da Venetta Fields, Clydie King e Sherlie Matthews, e che accentua l’anima R&B e soul della band, senza tralasciare il rock: il disco alternava una facciata di pezzi di Marriott, una di cover, di nuovo pezzi originali e poi cover, tra i pezzi di Steve molto buone l’iniziale Get Down To It, la dichiarazione di intenti Good Booze & Bad Women, la melliflua Is It For Love, l’ondeggiante Drugstore Cowboy, la vibrante Black Coffee di Ike & Tina Turner https://www.youtube.com/watch?v=oqWNGNRX_4s , e le sofferte I Believe To My Soul di Ray Charles e That’s How Strong My Love is, famosa nella versione di Otis Redding, ma l’hanno incisa anche gli Stones, che Marriott omaggia poi con una Honky Tonky Women scintillante, tratta dalla quarta facciata del disco, registrata dal vivo a Glasgow, concerto che si conclude con una versione monstre di oltre 13 minuti di Road Runner dove le chitarre di Clempson e Marriott ruggiscono con forza.

L’inizio della fine 1974-1975

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Nel  febbraio del 1974 esce Thunderbox (***), ancora un buon album che ha un discreto successo negli USA, ma in Inghilterra non viene neppure pubblicato: sette cover e cinque originali, ancora con la presenza delle Blackberries (dove è rimasta solo la Fields) e Mel Collins ospite al sax, la title track potrebbe passare con il suo riff e per il cantato di Marriott, per un brano degli AC/DC se decidessero di darsi al R&B, buone le cover di I Can’t Stand The Rain di Ann Peebles e della delicata Anna Go To Him di Arthur Alexander, che avevano fatto anche i Beatles, la voce di Steve è sempre eccellente ma il suono non è più quello potente dei dischi precedenti, fin troppo annerito e funky, comunque Ninety-Nine Pounds, Every Single Day e la cover bluesy con uso slide e armonica di No Money Down di Chuck Berry non dispiacciono.

Con la stonesiana Oh La-De-Da che ha lampi del vecchio splendore. In quel periodo Steve Marriott si candida ad entrare appunto negli Stones in sostituzione di Mick Taylor, ma ovviamente, per i problemi di compatibilità con un altro cantante non male, tale Mick Jagger, non se ne fa nulla. Anche il disco solista di Marriott registrato nei ritagli di tempo, tra un disco degli Humble Pie e l’altro, viene “confiscato” dalla A&M e i nastri appaiono ai giorni nostri nell’orrido album della Cleopatra intitolato Joint Effort, di cui leggete in altra parte del blog https://discoclub.myblog.it/2019/03/11/dischi-cosi-brutti-negli-anni-70-non-li-avrebbero-mai-pubblicati-ma-oggi-purtroppo-si-humble-pie-joint-effort/ . Nel frattempo Steve, che comincia a da avere grossi problemi con alcol e droga, di ritorno da un ennesimo tour negli Stati Uniti, scopre che non ci sono più soldi sul conto in banca, e quindi su sollecitazione del manager Dee Anthony decide di registrare un altro disco per la A&M, con la produzione e soprattutto il mixaggio del rientrante Andrew Loog Oldham.

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Il risultato finale del disco pubblicato non piace a nessuno all’interno della band e in effetti Street Rats (*1/2) che esce nel febbraio del 1975 è piuttosto bruttarello: forse, e dico forse, si salvano le tre cover “soulizzate” di brani dei Beatles, We Can Work It Out, Rain e Drive My Car, anche se quest’ultima drammatizzata e cantata da Ridley è alquanto penosa, Greg canta anche con risultati disastrosi Rock And Roll Music di Chuck Berry e altri tre brani. Dopo il tour di addio la band si scioglie, anche se si parla brevemente di proseguire con Bobby Tench, il vecchio cantante del Jeff Beck Group Mark II, ma non se ne fa nulla.

La Reunion Di Inizio Anni ’80.

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Però alla fine del 1979, proprio con Tench come secondo vocalist e chitarrista, e il nuovo bassista Anthony “Sooty” Jones, decidono di provarci ancora e registrano non uno ma ben due album, che in America escono per la Atco, mentre in Inghilterra, per la serie le sfighe non finiscono mai, vengono pubblicati dalla Jet Records di proprietà del primo manager degli Small Faces,  quel Don Arden (babbo di Sharon, la moglie di Ozzy Osbourne): On To Victory (**) esce nel 1980 e non è neppure orribile come Street Rats,  ma solo un filo migliore; la voce di Marriott è ancora il suo principale atout,però il sound per lunghi tratti è confuso e pasticciato, salverei forse Baby Don’t You Do It, un vecchio brano Motown, che faceva anche la Band e la struggente cover di My Lover’s Prayer dell’amato Otis Redding, ma gli anni ’80 sono iniziati e dal sound si sente, anche se il disco almeno vende.

Go For The Throat (**) , il loro decimo e ultimo album, che viene pubblicato a giugno 1981, non è molto meglio: c’è giusto un po’ di energia superiore nell’iniziale All Shook Up, dove quantomeno le chitarre si fanno sentire, e si salva anche la ripresa della vecchia Tin Soldier degli Small Faces che entra in classifica, e negli altri brani, anche se non c’è di nulla di memorabile almeno sembra che ci sia una maggiore convinzione e grinta, con le chitarre che a tratti ringhiano come ai vecchi tempi. Ma durante la tournée promozionale Marriott si ammala, scopre di avere l’ulcera e quindi le date rinviate, vengono poi cancellate e la casa discografica li scarica.

Una fine ingloriosa. Dopo alcuni anni difficili in cui si ritira nel circuito dei clubs e dei pubs, Marriott agli inizi degli anni ’90 contatta Frampton per scrivere alcune canzoni nuove ed un tentativo di reunion degli Humble Pie, ma il 20 aprile del 1991, Steve Marriott muore orribilmente nell’incendio che distrugge il suo cottage, causato forse da una sigaretta dimenticata accesa prima di andare a dormire. Stendiamo un velo pietoso sul tentativo di reunion del 2002 con l’album Back On Track, dove Ridley e Shirley, ancora una volta con Bobby Tench, tentano di far rivivere il vecchio marchio.

Meglio andarsi a cercare alcuni degli album dal vivo postumi pubblicati nel corso degli anni: Natural Born Boogie del 2000 con le vecchie BBC Sessions, il Live At The Whisky A Go-Go ’69 con un concerto strepitoso, solo 5 brani ma epici, uscito su CD nel 2000 per la Sanctuary, magari anche In Concert con il King Biscuit Flower registrato al Winterland di San Francisco nel 1973. E per i completisti più scatenati i due box della serie Official Bootleg, il primo da 3 CD e il secondo da 5 CD, la qualità sonora non è sempre eccellente, ma ci sono alcune performances memorabili.

That’s All.

Bruno Conti