Un Dave Alvin “Diverso” Ma Sempre Notevole. The Third Mind

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The Third Mind – The Third Mind – Yep Roc CD

Penso che non ci siano dubbi sul fatto che Dave Alvin sia uno dei campioni mondiali del genere roots rock/Americana, e che appartenga alla ristretta cerchia di musicisti che non hanno mai sbagliato un disco, sia come leader dei Blasters insieme al fratello Phil che come solista. Questa volta però il rocker californiano ha voluto fare qualcosa di diverso, andando a ricreare le atmosfere psichedeliche del periodo 1967-69: il risultato è The Third Mind, che oltre ad essere il titolo dell’album è anche il nome del supergruppo dietro il quale Dave ha deciso di “nascondersi” (nome ispirato da un libro scritto da William S. Burroughs, famoso artista della Beat Generation, insieme a Brion Gysin), un quartetto in cui l’ex Blasters è coadiuvato dall’altro chitarrista David Immergluck, noto per i suoi trascorsi con Camper Van Beethoven, Counting Crows e John Hiatt Band (e più di recente con James Maddock), dal bassista Victor Krummenacher, anch’egli dei Camper Van Beethoven, e dal batterista Michael Jerome (Richard Thompson, John Cale, Blind Boys Of Alabama).

I quattro si sono dati appuntamento in uno studio in Connecticut e hanno registrato sei brani (cinque cover ed un originale) usando un approccio, a detta di Alvin, alla Miles Davis (nel periodo in cui sperimentava con il suo produttore Teo Macero), cioè scegliendo una tonalità di partenza e suonando in presa diretta e senza seguire alcun spartito o vincolo musicale. Il risultato è un eccellente disco che ci riporta idealmente indietro di cinquanta anni, quando San Francisco era la capitale mondiale della musica rock e gli acid test a base di LSD e quant’altro erano all’ordine del giorno, e l’elenco dei musicisti ai quali l’album è dedicato è emblematico: Gary Duncan, John Cipollina, Roky Erickson e Mike Bloomfield. Grande musica, con le chitarre dei due leader che si scambiano licks e assoli come se piovesse e la sezione ritmica che li asseconda in maniera solida e potente: un suono che non ti aspetti da uno come Alvin (ma anche Immergluck si muove solitamente in territori “roots”), ma il disco risulta comunque riuscito, coinvolgente e per nulla ostico. L’iniziale Journey In Satchidananda (brano strumentale del 1970 di Alice Coltrane, musicista di estrazione jazz moglie del grande John Coltrane e scomparsa nel 2007) parte piano, con i nostri che sembrano accordare gli strumenti e lanciano vibrazioni psichedeliche alla Grateful Dead, poi il brano prende corpo a poco a poco ma sempre in modo soffuso: basso e batteria procedono con fare attendista, ma i due chitarristi iniziano a fendere l’aria con svisate elettriche notevoli, con Dave che si produce in un lungo e lirico assolo subito doppiato da uno acidissimo di Immergluck.

The Dolphins (Fred Neil) è nettamente più distesa e rilassata, con Alvin che ci fa sentire la sua ugola baritonale: il brano, splendido, mantiene l’anima folk originale con l’aggiunta però della chitarra dell’ex Blasters, che ci regala momenti formidabili di pura psichedelia. La breve, meno di tre minuti, Claudia Cardinale è l’unico pezzo originale, una canzone dedicata ad un’icona della bellezza degli anni sessanta (Bob Dylan fece inserire addirittura una sua foto nella copertina interna di Blonde On Blonde) che è uno strumentale per chitarra dall’andamento ipnotico ma nello stesso tempo profondamente melodioso e godibile, con un finale in deciso crescendo. Il CD arriva alla sua parte cruciale con i nove minuti della nota Morning Dew, folk song di Bonnie Dobson ma resa famosa dai Grateful Dead, dal testo post-apocalittico che mette i brividi ancora oggi: la versione dei nostri è strepitosa (la voce femminile è di Jesse Sykes, ospite speciale solo in questo brano), con la base che rimane folk, il tempo lento e Dave che fornisce la parte rock con la sua magica chitarra, ed un crescendo strumentale fantastico ed emozionante https://www.youtube.com/watch?v=sOzHXb-u92s . Niente psichedelia, solo grande musica rock.

Ma ecco il centerpiece del disco, cioè una sensazionale rilettura di sedici minuti del capolavoro della Butterfield Blues Band East-West (l’originale durava tre minuti di meno), un tour de force incredibile in cui ascoltiamo un’esplosione di rock, psichedelia, blues e musica orientale in un tripudio di chitarre (c’è anche un’armonica, suonata da Jack Rudy) e con la sezione ritmica che pare un treno in corsa: una jam fluidissima nella quale i nostri mostrano di poter suonare qualsiasi cosa riuscendo sempre a farci godere come ricci. Il CD si chiude con una versione potente, roccata e coinvolgente di Reverberation, un classico dei 13th Floor Elevators di Roky Erickson, forse il brano più diretto ed immediato dell’album. Questo per quanto riguarda il disco “normale”, ma la prima tiratura (che credo si trovi ancora) presenta due bonus tracks, ovvero due versioni alternate di East-West: la prima è un remix ad opera del noto produttore Tchad Blake, mentre la seconda è una take differente e forse ancora più roccata e trascinante. Un gran bell’esordio questo dei Third Mind, un album da consigliare non solo ai fan di Dave Alvin: c’è solo da sperare che non si tratti di un evento estemporaneo.

Marco Verdi

Bastardi Senza Cuore Ma Ricchi di “Voce” E Grinta – Heartless Bastards – Arrow

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Heartless Bastards – Arrow – Partisan Records 2012

Quando un tempo si usava ancora catalogare (e non era una scienza esatta) i dischi secondo i generi che proponevano questo Arrow sarebbe finito nella categoria “File Under Rock”, senza tanti sottogeneri e sottili distinguo ma, oggi, nei tempi dell’alternative e dell’indie rock che più che un genere indicano una attitudine o una appartenenza virtuale, gli Heartless Bastards, per chi scrive, fanno rock, solo rock, fortissimamente rock, perlopiù, anzi totalmente chitarristico.

Già il fatto di avere come frontwoman una come Erika Wennerstrom, una ragazza con una voce stentorea e potente come nel rock classico dei tempi passati (e di voci femminili che sapessero coniugare rock così bene ce ne sono state poche anche in passato), non è particolare da poco: il gruppo che ruota intorno a lei e che prende il nome da una risposta errata ad un quiz musicale “Il nome del gruppo che suona con Tom Petty?”, è solido e grintoso, chitarra, basso e batteria e la seconda chitarra della stessa Erika, senza fronzoli ma capaci anche di raffinatezza quando serve.

Prendete il brano di apertura, Marathon, che potrebbe fuorviarvi, una sorta di ninna ninna a tempo di valzer con gli strumenti accarrezzati e la voce che sembra, apparentemente, fragile e delicata ma in realtà è raffinata e appassionata e se vi fermaste lì nell’ascolto poi non potreste apprezzare i restanti 50 minuti di solido rock and roll che seguono, dal rock stradaiolo e riffaiolo di Parted Ways con il suo impasto di acustiche ed elettriche e gli interventi puntuali della solista che arriva insinuante e ricorrente nelle pieghe sudiste del brano e il finale con la voce della Wennestrom e il gruppo tutto in estasi rock. O il brano-proclama Got To Have Rock and Roll dalle cadenze glam con il sound del Bowie o dei Mott The Hoople dei tempi che furono nel cuore (che quindi c’è ma non si vede) e le chitarre ruggenti come si conviene, ma stemperate da quei coretti malandrini e dall’ugola “infiammata” della nostra amica.

Only For You è una ballata mid-tempo con una chitarra dal sapore country & Twangy e i vocalizzi in falsetto della brava Erika in grande evidenza, dolce ma sempre con il cuore di acciaio. Simple feeling è nuovamente rock all’ennesima potenza con chitarre e voce (e una batteria insinuante) che si disputano il predominio sulla dinamica del brano mentre Skin and Bone con chitarre acustiche a cascata e le percussioni che si uniscono al basso rotolante forse segnala l’influenza del produttore Jim Eno degli Spoon (batterista lui stesso).

La lunga The Arrow Killed The Beast tra country epico e psichedelia moderna potrebbe segnalare punti di contatto con la collega Jesse Sykes, un’altra che sa trattare la materia con classe. Late In The Night contiene altri quattro minuti di meraviglioso rock and roll classico, duro e puro e non adulterato da menate mentali solo chitarre che sfrecciano e la voce “in coppa” al tutto. Low Low Low è country folk blues tanto per mostrare che sanno maneggiare anche questo stile, che è comunque nel loro DNA.

Vi confesso che quando è partita Down In The Canyon ho controllato il lettore: questo brano dei Black Sabbath non me lo ricordo, su che album è? Forse non c’entra con il resto dell’album ma è una canzone ricca di pathos come quelle cavalcate improvvise elettriche di Neil Young con i suoi Crazy Horse. Non avranno la stessa classe però posso confermare che saranno “bastardi” ma “senza cuore” no!

Un’altra piacevole scoperta. Vengono da Cincinnati, Ohio ma l’album è stato registrato a Austin, Texas (hanno anche partecipato a una memorabile puntata di Austin City Limits con gli Avett Brothers). Dimenticavo, questo è il loro quarto album, il migliore!

Bruno Conti

Per Chi Non La Conosce! Jesse Sykes And The Sweet Herefter – Marble Song

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Jesse Sykes And The Sweet Hereafter – Marble Son – Fargo/Self

Per chi non la conosce già (ma soprattutto per chi apprezza) esce oggi in Italia e Francia il quarto album di Jesse Sykes con il suo gruppo gli Sweet Hereafter. Il suo “partner in crime” è il chitarrista Phil Wandscher (membro fondatore dei Whiskeytown con Ryan Adams), sono basati a Seattle, vengono etichettati come alt-country ma ci sono anche molti elementi “dark” e psichedelici in questa musica che è comunque originale e poco consueta, ma molto valida.

Giudicate voi. Un piccolo assaggio video e qui se volete ascoltare qualche altro brano 114391211950595, nonché il loro sito index_02.html

Bruno Conti