Per “Buongustai” Del Rock Americano – The Hold Steady – Teeth Dreams

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The Hold Steady – Teeth Dreams – Washington Square – Deluxe Edition 2 CD Australia

Gli Hold Steady (per chi non li conoscesse) vengono da Brooklyn, New York City, e sono da anni uno dei migliori gruppi americani in circolazione, certamente tra i pochi in grado di suonare ancora oggi un classic-rock elettrico, pulsante, e infarcire le canzoni con tempeste di assolo di chitarre senza perdere un briciolo di credibilità, e senza risultare inevitabilmente retrò. Dopo il debutto squassante di Almost Killed Me (04), non sbagliano un colpo con Separation Sunday (05), a cui segue il devastante Boys And Girls In America /(06) un incrocio fra Springsteen e Jim Carroll (questo nuovo, con espressione felice, è stato definito Randy Newman meets Husked Du), il superbo Stay Positive (08), il live A Positive Rage (09) e Heaven Is Whenever (10) http://discoclub.myblog.it/2010/05/02/un-disco-di-transizione-hold-steady-heaven-is-whenever/ .

L’America di bravi “storytellers” è piena, ma Craig Finn frontman, chitarrista e compositore del gruppo, possiede una marcia in più (dimostrata anche nel suo esordio solista Clear Heart Full Eyes http://discoclub.myblog.it/2012/01/23/semplice-fresco-efficace-ma-anche-raffinato-craig-finn-clear/ ), riuscendo a scrivere canzoni dai testi intelligenti e letterati, e dopo l’abbandono di Franz Nicolay lo storico tastierista del gruppo, l’attuale line-up è composta da Galen Polivka al basso, Bobby Drake alla batteria, e alle chitarre il “vecchio” Tad Kubler con il nuovo entrato Steve Selvidge dei Lucero,  sotto la produzione di Nick Raskulinecz (Rush), magari non raggiungerà i livelli degli album centrali, ma Teeth Dreams dimostra cosa gli Hold Steady sanno fare meglio, rock pieno di chitarre con un suono aggressivo, dove l’entusiasmo non viene mai a mancare.

Come al solito, si parte subito forte con i “riff” chitarristici di I Hope This Whole Thing Didn’t Frighten You  e Spinners , entrambe sostenute da una batteria irruente, come nel rock urbano di The Only Thing. Con The Ambassador arriva la prima ballata del disco (sembra pescata dai solchi dei Why Store, una formazione “minore” che varrebbe la pena di ri-scoprire), per poi scaldarsi ancora con il rock energico e a tratti torrido del trittico On With The Businness, Big Cig e Wait A While, mentre Runner’s High sposa sonorità rock più garagiste. Ma quello che rende la penna di Finn più simile ad uno scrittore che a un cantautore sono i due brani conclusivi, Almost Everything, una ballata melodica ricca di pathos, accompagnata da arpeggi chitarristici https://www.youtube.com/watch?v=BuQFL6f7D4U , e una grande canzone come Oaks (una sorta di Jungleland, quasi 40 anni dopo), oltre nove minuti di narrazione urbana, con un forte crescendo elettrico dilatato dalle chitarre. Meravigliosa (per ora la canzone dell’anno) https://www.youtube.com/watch?v=iZG3jTWlIOs .

Il bonus CD (disponibile solo per i nostri amici di Down Under) contiene altre tre tracce: Records & Tapes https://www.youtube.com/watch?v=bvUKzBIVk_c , Saddle Shoes https://www.youtube.com/watch?v=TEQvaffy2Rc  e Look Alive https://www.youtube.com/results?search_query=hold+steady+look+alive , un ulteriore vero e proprio arsenale rock. (*NDB Buona caccia, purtroppo costa parecchi soldini e non è facile da trovare, ma noi segnaliamo e indichiamo i link di Youtube per chi vuole sentirle)! Nient’altro da dire, se non che Teeth Dreams è un acquisto obbligato per chiunque voglia credere alla capacità di fare grande musica mantenendosi onesti, diretti e sinceri, raccontando la vita a chitarre spianate attraverso i sogni di uno “storyteller” nato non per caso a Brooklyn, dove si respira aria buona (da li viene anche un certo Matt Berning dei National).

Tino Montanari

Ray Manzarek (& Roy Rogers), Atto Finale! Twisted Tales

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Ray Manzarek & Roy Rogers – Twisted Tales –  CNC (Chops Not Chaps) Records

Dai tempi in cui non era più il tastierista di quella promettente formazione fondata a Venice Beach con l’amico Jim Morrison, in California, nell’estate del 1965, The Doors, Raymond Daniel Manzarek non era stato più in grado di accedere a quei livelli di ispirazione che avevano caratterizzato i primi sei anni della sua carriera, fino al fatidico 1971 dell’uscita di La Woman. Ma ha caparbiamente e testardamente portato avanti la leggenda del gruppo (che si apprende in questi giorni avrà scampoli di nuova vita con la ennesima reunion di John Densmore e Robbie Krieger che sembrano avere appianato le loro diatribe legali), in qualche caso anche oltre i limiti dell’umana decenza musicale, ma sempre con una certa dignità e nel contempo ha firmato anche un consistente numero di progetti solisti e collaborazioni, soprattutto nell’ultima decade, che si sono protratti sino a pochi mesi prima della sua morte, avvenuta il 20 maggio di quest’anno, che possa riposare in pace.

Nessuno dei dischi che si sono succeduti negli oltre 40 anni passati da allora può essere definito memorabile, ma le collaborazioni con Roy Rogers, cantante e chitarrista slide, avvenute all’ombra della comune passione per il Blues (musica molto amata anche da Morrison e dagli altri Doors), sono sicuramente da ritenersi tra le più riuscite,  più di quella improbabile, ma non terribile, con Skrillex o la sua affermazione che i Chemical Brothers erano gli eredi dei Doors, opinione rispettabile ma difficilmente condivisibile, che però consentiva di “rimanere sempre alla moda”! Nei due precedenti dischi con Rogers, lo strumentale Ballads Before The Rain del 2008, dove venivano ripresi pezzi di musica classica, un paio di brani dei Doors e alcune nuove composizioni e il successivo Translucent Blues, decisamente più orientato verso le classiche 12 battute, con entrambi che si dividevano le parti vocali e i testi che venivano ripresi anche del repertorio di due grandi poeti americani, vicini al rock, come Michael McClure e Jim Carroll, soprattutto nel secondo c’era già in nuce questa collaborazione tra poesia, rock e blues, che in questo Twisted Tales raggiunge il suo completamento, completando il cerchio iniziato proprio 40 anni fa circa e che lo scorso anno, in modo più dimesso e meno eclatante, aveva visto la luce nell’album Piano Poems: Live In San Francisco che però in pratica erano dei readings dei poemi di McClure accompagnato dal piano di Manzarek e dal flauto di Larry Kassin.

Questa volta il progetto è più organico, quattro testi di Jim Carroll (poeta, ma anche grande rocker) e tre di McClure, messi in musica da Manzarek e Roy Rogers, oltre a tre canzoni scritte da Rogers, che con la sua formidabile slide si divide gli spazi con la tastiere di Ray in tutto l’album. Che, diciamolo subito, per sgombrare lo spazio da eventuali equivoci, è, ancora una volta, un onesto disco di blues-rock, ma niente di trascendentale, nella media di moltissimi altri album simili che escono quasi giornalmente, con Rogers che è cantante discreto, meglio Manzarek,  ma nessuno dei due un fulmine di guerra, però ai rispettivi strumenti si fanno valere, e il rock e il boogie di brani come le iniziali Just Like Sherlock Holmes e Eagle In The Whirlpool  si ascolta con piacere e fa muover il piedino. Quando l’organo di Manzarek sale in primo piano come nella doorsiana Cops Talk, un po’ di nostalgia ti attanaglia ma la consistenza vocale non incanta particolarmente anche se l’assolo di sax di George Brooks ha un suo fascino.

Ma la produzione di Manzarek non ha più quell’aria tagliente dei primi dischi degli X. Nel flamenco-rock di Street Of Crocodiles Ray sfoggia delle sfumature vocali alla Morrison che vivacizzano l’ascolto. Ma quando ci si allontana troppo dal blues come in American Woman, sembra di ascoltare una parodia dei Tubes o dei Cars, mentre Shoulder Ghosts di Roy Rogers tenta anche la strada della musica d’atmosfera, senza particolare successo, al di là della slide del titolare. In The Will Of Survive, ancora di Rogers, torna un po’ della grinta dei brani iniziali, ma nulla di cui entusiasmarsi. Meglio il lungo slow blues cadenzato, con uso di slide, di Black Wine/Spank Me With A Rose, reso vivace dall’organo di Manzarek che non ha perso il tocco e se la cava egregiamente alla voce. State Of the world e Numbers concludono, senza infamia e senza lode, un disco discreto che vive più sulla fama dei suoi protagonisti che sull’effettivo valore dei contenuti, arrivando alla sufficienza, sei di stima.

Bruno Conti