La Cleopatra Ha Colpito Ancora, Ma Stavolta Non E’ Colpa Loro! Black Oak Arkansas – Underdog Heroes

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Black Oak Arkansas – Underdog Heroes – Purple Pyramid/Cleopatra CD

Già durante la decade di maggior successo dei gruppi appartenenti al genere southern rock, cioè gli anni settanta, i Black Oak Arkansas (che prendono il nome dal luogo dal quale provengono) erano una band di secondo piano, forse anche terzo (* Con l’eccezione probabilmente di questo album https://discoclub.myblog.it/2015/08/10/succedeva-piu-40-anni-fa-piccolo-classico-del-rock-riscoperto-black-oak-arkansas-the-complete-raunchnroll-live/ ) . Pertanto non credo che qualcuno si strappasse i capelli per il fatto che il loro ultimo album con materiale originale, Rebound, risalisse ormai a 28 anni fa: c’è stato un CD uscito nel 2013, Black Thar N’Over Yonder, che oltre a contenere brani inediti dei seventies presentava anche cinque pezzi nuovi di zecca, ma non sembrava una reunion vera e propria. Invece ora due dei membri originali, il cantante Jim “Dandy” Mangrum ed il chitarrista Rickie Lee Reynolds, hanno pensato bene di riformare il gruppo con altri mestieranti (Billy Little, basso, Lonnie Hammer, batteria, Randall Rawlings, chitarra solista e Samantha Sauphine, cori e armonie vocali) e riproporre la vecchia sigla per questo Underdog Heroes, un disco che però di positivo ha molto poco.

Il gruppo è infatti ridotto ad essere la caricatura di sé stesso (e già all’epoca non è che fossero dei fuoriclasse), le canzoni sono di qualità scarsa quando non imbarazzante, con testi banali e pieni di luoghi comuni, mentre il suono ha ben poco di southern, essendo più che altro hard rock di grana grossa, adatto per un pubblico che non va tanto per il sottile. Personalmente non ho nulla contro il rock duro, che è un genere che mi piace anche, ma il problema sta nel fatto che questa è musica brutta, non importa se rock, country, folk, blues o tarantella; dulcis in fundo (si fa per dire), se Reynolds alla chitarra se la cava ancora, Dandy si ritrova un’ugola invecchiata malissimo, ed alterna momenti in cui ha una voce impastata da risveglio dopo notte di bagordi ad altri in cui sembra avere un uovo sodo in bocca. Il CD inizia con una delle due cover presenti, cioè Don’t Let It Show degli Alan Parsons Project (!), una canzone che spogliata delle sonorità elettroniche del produttore e musicista inglese diventa una fluida ballatona acustica, con un buon assolo elettrico centrale. Fin qui ci siamo, ma i problemi cominciano subito dopo con la title track, che ha un attacco duro e cupo, quasi alla Black Sabbath, ed anche il resto del brano mantiene toni un po’ tagliati con l’accetta, da hard rock un tanto al chilo (e la voce da ubriaco di Jim non aiuta), mentre Channeling Spirits ha un buon attacco strumentale d’atmosfera, ma poi purtroppo Dandy inizia a cantare e la canzone, già non il massimo di suo, si affloscia del tutto.

Ruby’s Heartbreaker (che non è dedicata alla “nipote di Mubarak”, stella del bunga bunga) è una rock song dal passo lento ed un tantino troppo declamatoria, sia nelle parti vocali che nell’arrangiamento tronfio, The Wrong Side Of Midnight vede Mangrum gigioneggiare con la voce, con il risultato di rendersi ridicolo (e la canzone è oscena), The Devil’s Daughter è un rock-blues piuttosto qualunque e senza fantasia, ma almeno è cantato dalla Sauphine che se la cava meglio del suo capo e possiede una certa grinta. Arkansas Medicine Man è ancora rock duro e fine a sé stesso (la chitarra sembra nelle mani di Joe Satriani o Steve Vai, altro che southern) e Dandy riesce ad essere addirittura fastidioso; Do Unto Others è un filo meglio, ha un ritmo sostenuto ed è quella che somiglia di più ad un rock’n’roll sudista, anche se sempre per palati non troppo fini (l’assolo è da metallari puri). La cadenzata You Told Me You Loved Me (un pezzo di Tommy Bolin) non è malaccio, ed il fatto che i due brani migliori del disco siano entrambi cover deve far pensare; il CD (che è pure lungo, 66 minuti), si chiude con Love 4 Rent, una ballata sbilenca cantata in maniera assurda, la dura The 12 Bar Blues, che se fosse uno strumentale si potrebbe anche salvare, e Johnnie Won’t Be Good, rock’n’roll senza fantasia ed inutile come il resto del disco.

I Black Oak Arkansas hanno avuto la loro bella reunion, ma ora per quanto mi riguarda possono tornare nell’oblio per altri trent’anni.

Marco Verdi

Succedeva Più Di 40 Anni Fa, Un Piccolo Classico Del Rock Riscoperto! Black Oak Arkansas – The Complete Raunch ‘n’ Roll Live

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Black Oak Arkansas – The Complete Raunch ’n’ Roll Live – Real Gone Music 

Il disco originale, uscito in origine nel 1973, è considerato a ragione uno dei piccoli classici Live della storia del rock. I Black Oak Arkansas, vengono proprio dalla piccola cittadina dell’Arkansas, e  come molti altri gruppi nati in quel epoca si trasferirono alla fine degli anni ’60 a Memphis, una delle capitali della musica, prima come The Knowbody Else (pubblicando addirittura un album per la Stax, rimasto ignoto ai più), poi un ulteriore trasferta in California, cambiando anche il nome in B.O.A e venendo messi sotto contratto dalla Atco, pubblicando tra il ’70 e il ’72 ben tre album di studio,  piuttosto buoni e caratterizzati da un certo successo commerciale (allora bastava arrivare intorno al 100° posto delle classifiche per vendere mezzo milione di copie), e circondati dalle polemiche per i contenuti pseudo satanici nascosti nei testi del cantante Jim Dandy, che, leggenda vuole, in un concerto borbottò tre volte “natas”, ma era probabilmente più dovuto al tasso alcolico e a quello che si fumava (non sigarette) che a motivi trasgressivi veri.

Comunque Jim “Dandy” Mangrum era effettivamente un personaggio sopra le righe, un prototipo per i futuri biondi con capello lungo, torso nudo, pantalone attillato, tipo Axl Rose e David Lee Roth, più che una copia di Robert Plant, che però era un grande cantante: comunque, anche con quella voce, che lui stesso definiva “l’urlo di un rospo”, sgraziata e rovinata dall’uso dell’hashish, non dal fumo di sigarette normali, era un animale da palcoscenico, con dei lunghi discorsi, spesso senza senso, tra un brano e l’altro, che avevano un effetto scatenante sul pubblico presente https://www.youtube.com/watch?v=KDJEfd4O0Ro . Oltre a tutto il repertorio della band era ottimo, gli album di studio, alcuni prodotti da Tom Dowd, pure Raunch’n’Roll, erano degli ottimi esempi di southern rock, sguaiato e “sporco” rispetto ai classici del genere, ma comunque di grande efficacia. Il gruppo era una vera potenza, con tre ottimi chitarristi, Harvey Jett, Stanley Knight e Rick Knight, alla dodici corde e con un batterista esplosivo come Tommy Aldridge (futuro collaboratore di Pat Travers, Gary Moore e Ozzy Osbourne) da poco entrato in formazione, in quel dicembre del 1972 in cui furono registrati i due concerti al Paramount Theatre di Portland.

Eh sì, perché qui sta la bellezza di questa ristampa doppia potenziata (già uscita nel 2008 per la Rhino Handmade, molto costosa e sparita in fretta dalla circolazione), dai sette brani del vinile originale dell’epoca (con la lunga Up, sfumata a 9 minuti dai quindici della versione completa) passa a ben 24 canzoni, le due serate complete, che anche se presentano molti brani in comune, offrono in ogni caso quattordici brani diversi. Ci sono naturalmente tutti i classici, Dandy canta con quella voce strozzata e gutturale, che ha comunque una sua rozza efficacia, ma sono i suoi compari che portano a casa il risultato: pezzi come l’iniziale Gettin’ Kinda Cocky, che apre entrambi i concerti, e che è una sorta di dichiarazione di intenti del gruppo, fonde un rock sudista poderoso e tirato, con l’energia e la grinta live di gruppi come gli MC5, con le chitarre che inanellano una serie di soli, anche ricchi di classe e tecnica, mentre Mangrun è una sorta di dinamo inarrestabile che proietta la sua carica sul pubblico presente, con presentazioni che sono versioni distorte dei sermoni imparati dalla mamma, tutt’ora maestra del coro in una chiesa nella natia Black Oak.

Ma sono i chitarristi e il batterista i veri protagonisti del concerto, andatevi a sentire il grande lavoro che fanno in un brano come Fever In My Mind, che è potenza rock allo stato puro, con le soliste che intrecciano duelli di grande intensità, ma anche la capacità di imbastire versione bastardizzate di un country malandrino e quasi punk , come in Uncle Liijah e R&R winteriano nella tiratissima Keep The Faith, con le due/tre soliste all’unisono, in puro stile sudista. Anche Mutants Of The Monster è un’altra sberla in faccia, con il suo crescendo vorticoso https://www.youtube.com/watch?v=muPcr4LIWiI  e Hot Rod è un’orgia wah-wah cattivissima, per non parlare di  devastanti versioni di Lord Have Mercy On My Soul e Full Moon Ride, ancora rock galoppante alla ennesima potenza o i canti tribali di una When Electricity Came To Arkansas, dove Dandy, con un primitivo washboard, detta i tempi di una sorta di rito pagano rock, prima di lasciare spazio alla band che nella parte strumentale del brano non ha nulla da invidiare ai migliori Allman Brothers, Dixie è il classico pezzo sudista che parte come un inno e poi “degenera” in puro stile Black Oak, altro super classico è Hot And Nasty, nuovamente puro southern rock della più bell’acqua https://www.youtube.com/watch?v=pDyp75O0kyc , prima di lanciarsi in una lunghissima Up, che è la quintessenza del sound della band, anarchico e disordinato (un assolo di batteria di 8 minuti era necessario?), ma con un assolo micidiale di slide nella parte finale https://www.youtube.com/watch?v=ZzlnpiH6SXY . Conclude la serata dell’1 dicembre una Movin’, quasi free form rock orgasmico che poi sfocia in un’altra micidiale cavalcata. La seconda serata, con alcune variazioni (anche sonore, per cui vale la pena di averla) replica il repertorio della prima, con l’aggiunta di un altro classico della band come Gigolò, che mancava dalla prima. Classico R&R con gli attributi, come usava un tempo.

Bruno Conti

Finalmente Degno Di Tanto Padre! Shooter Jennings – The Other Life

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Shooter Jennings – The Other Life – Black Country Rock/Entertainment One/Blue Rose

Come disse un tempo Jannacci Enzo da Milano, ogni tanto, “l’importante è esagerare”, e in questo caso mi sentirei di dire, finalmente Shooter è degno di tanto padre (e pure la mamma, Jessi Colter, sarà orgogliosa),  anche se, ad essere sinceri, Shooter Jennings di dischi belli ne ha già fatti parecchi, con Black Ribbons aveva messo a dura prova la pazienza dei suoi fans, con un disco che era un incrocio tra i Nine Inch Nails, detto da lui (e fin lì nulla di male) e il country-southern-rock, due mondi che difficilmente coincidono, più che altro collidono. Ma già il precedente Family Man, per dirla con il titolo del suo primo disco, aveva Put The O Back In Country, ed ora questo The Other Life completa l’opera, rivelandosi forse il suo migliore in assoluto. Il nostro amico Shooter, vero nome Waylon Albright Jennings, in onore del babbo, il fisico dell’outlaw ce l’ha, e anche la classe del musicista e la voce non si discutono, probabilmente non sarà mai un n.1 come il padre Waylon, che già alla fine degli anni ’50 era nella band di Buddy Holly e schivò l’incidente aereo del “The Day The Music Died” (dove oltre a Holly persero la vita anche Ritchie “Bamba”Valens e Big Bopper) per un pelo, diventando poi uno fondatori del movimento outlaw che ha rivoluzionato la musica country fino alle sue fondamenta. Il figlio ha il DNA dell’augusto genitore nelle sue cellule e questo nuovo album lo testimonia.

Essendo un figlio degli anni ’70 (1979 per la precisione) e quindi cresciuto negli anni ’90, Jennings jr. è stato influenzato anche da altri tipi di musica e questo ogni tanto traspare nelle sue canzoni, finché si tratta di rock e ancora meglio di southern rock, nulla di male, ma quando si lancia nell’alternative o nel pseudo psichedelico lo si capisce meno. Prendete ad esempio una canzone come l’iniziale Flying Saucer Song,che era uno dei brani che appariva in Pussy Cats (come bonus), il disco di Harry Nilsson prodotto da John Lennon, ma qui, in apertura di CD, sembra una outtake da qualche disco di Mike Oldfield, tastiere ovunque, suonate dallo stesso Shooter e da Erik Deutsche, piano, organo, wurlitzer, synth vari, voci trattate, vuoi vedere che ci è ricascato? Anche se poi un certo fascino si percepisce comunque, molto meglio il rock deciso e chitarristico di A Hard Lesson To Learn dove la pedal steel di Jon Graboff, co-autore del brano, comincia a spargere buona musica nei solchi digitali del disco, le tastiere ci sono, rappresentate da un gagliardo organo Hammond.

Quando però si decide di entrare a piedi uniti nel country di famiglia le cose si fanno serie: il galletto e gli uccellini che ci accolgono all’inizio di The White Trash Song (scritta da Steve Young) fanno da preludio ad un tripudio di pedal steel, violini, piano e alla follia sonora del “fuori di testa” di Austin, Texas, Scott H. Biram, che mette la testa a posto per un travolgente duetto con Jennings che più outlaw non si può. Il duetto con Patty Griffin in Wild and Lonesome è una ballata country di quelle che ormai si ascoltano raramente, del tutto degna delle migliori collaborazioni tra Gram Parsons ed Emmylou dei tempi che furono, ma anche di Waylon & Jessi, una piccola perla. Outlaw You che già dal titolo, e poi nel testo, cita e ricorda personaggi come Johnny Cash e babbo Waylon, si regge su un violino insinuante (suonato nel disco, di volta in volta, da Eleanor Whitmore, Stephanie Coleman e dal veterano Kenny Kosek), sul banjo di Bailey Cook e sulle chitarre del già citato Graboff e dei due chitarristi solisti , Jeff Hill e Steve Elliot, Steve Earle non gli fa un baffo, grande brano! La title-track, The Other Life, è un’altra ballatona di quelle struggenti, sorretta nuovamente da piano, pedal steel e chitarre, presenta i “soliti ingredienti”, ma se sono usati bene la loro porca figura la fanno sempre, soprattutto se chi canta ci mette il giusto impegno.

The Low Road è nuovamente del sano outlaw country-rock, che mescola banjo e steel con il suono rock delle chitarre, l’andamento pigro ma deciso della ritmica e la grinta del cantato, che è lontana anni luce dalla melassa di Nashville. Mama, It’s Just My Medicine è un country & roll di quelli ruspanti, con un assolo di synth che, stranamente, si inserisce perfettamente nel tessuto più moderno del brano, forse destinato alle radio, commerciale, ma averne di brani così sulle onde radio. The Outsider è un altro perfetto esempio di country song pura e dura, con l’aggiunta dell’armonica di Mickey Raphael che potrebbe proporla al suo datore di lavore Willie Nelson. 15 Million Light-Years Away presenta una accoppiata inconsueta, Jim Dandy (il cantante dei Black Oak Arkansas) con il suo vocione inconfondibile si adatta “come un pisello nel suo baccello” al mood della canzone e questo mid-tempo elettrico è un altro highlight del CD, permettendo ai due chitarristi di dare libero sfogo al loro solismo, poi reiterato nella lunga e tiratissima ode di progressive southern rock, The Gunslinger, dove chitarre, tastiere e un sax inconsueto si fanno largo tra i “motherf**ers” che nel testo si sprecano, inizio misurato e crescendo micidiale. Ben fatto, Shooter Jennings!                                        

Bruno Conti