Supplemento Del Sabato: L’Apoteosi Del Dylan Performer! Bob Dylan – Trouble No More: The Bootleg Series Vol. 13/1979-1981 Parte I

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Bob Dylan – Trouble No More: The Bootleg Series Vol. 13/1979-1981 – Columbia/Sony 2CD – 4LP – Box Set 8CD/DVD

Il periodo più controverso della lunga carriera di Bob Dylan, più ancora della famosa “svolta elettrica” del 1965, è sicuramente stato quello del triennio 1979-1981, durante il quale il grande cantautore, in preda ad una violenta crisi mistica che lo portò anche ad aderire alla setta dei Cristiani Rinati, pubblicò tre album a carattere gospel, sia dal punto di vista musicale che da quello dei testi (Slow Train Coming, Saved e Shot Of Love, quest’ultimo peraltro con il ritorno di alcuni brani dal carattere “laico”). Ma se la musica contenuta in quei tre dischi ottenne diversi riconoscimenti (compreso un Grammy per Gotta Serve Somebody) sia per il suono “caldo” dei Muscle Shoals Studios (dove vennero incisi i primi due) sia per la qualità delle canzoni, le critiche vennero rivolte più che altro alle parole, piene di lodi al Signore e con toni talvolta da predicatore, ed in gran parte anche alla discutibile copertina di Saved. Ma i commenti più feroci il nostro li ebbe a seguito della lunga tournée che intraprese per promuovere i tre lavori, in primo luogo perché tra un brano e l’altro si produceva in lunghi e stucchevoli sermoni di stampo ultra-conservatore (famosa una sua tiritera contro gli omosessuali), ma soprattutto in quanto decise di proporre solo le canzoni a sfondo religioso, compresi parecchi inediti, ed eliminando dalla setlist ogni traccia di classici del passato anche recente, cosa che mandò in bestia più di un fan (ma Bob non si scompose, anzi: una sera, introducendo una rara performance di Mary Of The Wild Moor, canzone popolare del 1800, disse beffardo “Mi chiedete sempre le vecchie canzoni: ecco, questa è vecchia davvero”).

Queste critiche misero però in secondo piano il fatto secondo me più importante, e cioè che le performances di Dylan erano tra le migliori della sua carriera: infatti il nostro era in forma vocale strepitosa, come forse mai prima d’ora (eccetto il periodo con la Rolling Thunder Revue) e mai più dopo (tranne in parte il tour con Tom Petty del 1986-1987), ed in più le sue prestazioni erano letteralmente arse dal sacro fuoco, come se cantare quei pezzi a sfondo biblico fosse l’ultima cosa della sua vita. E, dulcis in fundo, il gruppo che lo accompagnava era la sua migliore band di sempre (esclusi ovviamente gli Heartbreakers e The Band) con luminari degli studi di Muscle Shoals come il bassista Tim Drummond e l’organista Spooner Oldham, il chitarrista dei Little Feat, Fred Tackett, il grandissimo Jim Keltner alla batteria ed il pianista Terry Young (nel 1981 si aggiunsero Steve Ripley alla chitarra, mentre i due tastieristi furono rimpiazzati da Willie Smith e, soprattutto, da Al Kooper); la vera novità del suono però fu da imputare al coro gospel femminile, un vero muro del suono vocale che nel corso dei tre anni vide avvicendarsi Clydie King, Carolyn Dennis, Helena Springs, Madelyn Quebec, Regina McCrary, Mona Lisa Young, Mary Elizabeth Bridges e Gwen Evans. Oggi finalmente la Columbia rimette le cose a posto con questo splendido tredicesimo volume delle Bootleg Series dylaniane, intitolato Trouble No More e dedicato per la quasi totalità dei suoi 8 CD (il Bignami di due dischetti, o quattro LP, non lo prendo neanche in considerazione) alle performances dal vivo di quel controverso triennio (fortunatamente senza sermoni), ben cento canzoni in versione mai sentita e con una moltitudine di highlights, anche nei brani che si ripetono (ma Dylan è sempre stato famoso per non suonare mai una canzone per due volte allo stesso modo), e con la chicca nel terzo e quarto CD, di outtakes e versioni alternate del trittico di album di studio. Inutile spendere però altre parole, e mi lancio quindi in una disamina dettagliata del cofanetto (che include anche un DVD con il film che dà il titolo al box, un interessantissimo documentario di un’ora realizzato quest’anno dalla regista Jennifer LeBeau, e due bellissimi libri pieni di splendide foto inedite e con le note brano per brano dei primi quattro CD).

CD 1-2: Live – due dischetti con il meglio del lungo tour (che è anche la stessa tracklist della versione doppia “economica”), che iniziano con una Slow Train molto più energica e potente che in studio, con un grande Tackett. Il meglio si ha con la splendida ballata I Believe In You, tra le più belle melodie mai scritte da Bob, qui cantata alla grande, una When You Gonna Wake Up? più tonica e roccata di quella in studio, quasi infuocata nella performance vocale, When He Returns, già in Slow Train Coming con una prestazione magnifica da parte di Dylan, e da pelle d’oca anche dal vivo, la bellissima e gioiosa Precious Angel (con Tackett che tenta di emulare Mark Knopfler, che suonava nella versione originale), oppure la squisita Covenant Woman, uno dei brani più sottovalutati del periodo, dotata di un motivo toccante. Poi abbiamo le trascinanti Solid Rock e Saved (quest’ultima con un ottimo Young al piano), le emozionanti In The Garden e Pressing On, entrambe con un crescendo strepitoso, ed una Gotta Serve Somebody in Germania nel 1981 da brividi. Tra i pezzi tratti da Shot Of Love spiccano la fantastica Every Grain Of Sand (tra le più belle del songbook dylaniano), nell’unica volta in cui è stata suonata in tutto il tour, una granitica The Groom’s Still Waiting At The Altar con Carlos Santana alla solista, e la splendida Caribbean Wind nella sola versione live di sempre. E poi ci sono le canzoni inedite, a partire dalla magnifica Ain’t Gonna Go To Hell For Anybody, un trascinante gospel cantato in maniera superba, la saltellante Ain’t No Man Righteous, No Not One, dalla melodia diretta ed istantanea e la potente Blessed Is The Name, tra rock’n’roll e gospel.

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Marco Verdi

Ma Lo Sapete Che E’ Pure Brava?!? Carla Bruni – French Touch

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*NDB Una breve premessa del titolare del Blog: come dice Marco alla fine della recensione, il “personaggio” non gode delle simpatie musicali del sottoscritto (per il resto nulla da dire, anche se il suo appoggio, più volte espresso, per Cesare Battisti, non me la rende ancora più attraente anche sul lato umano). Comunque come diceva, non Voltaire, a cui è stata attribuita la frase, ma una delle sue biografe, tale Evelyn Beatrice Hall: “Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire”. Oddio, magari proprio la vita no, ma una pagina del Blog sì, e aggiungo che non condivido quasi nulla di quanto detto nel Post anche sui contenuti musicali, ma concludo con una seconda citazione colta “de gustibus non disputandum est”, quindi buona lettura (ammetto di avere aggiunto un punto di domanda ed uno esclamativo al titolo).

Carla Bruni – Franch Touch – Verve/Universal CD – CD/DVD

Quel “pure” nel titolo del post è riferito al fatto che ci troviamo di fronte indiscutibilmente ad una delle donne più belle del mondo, e che per qualche anno, cioè quando l’attuale marito Nicolas Sarkozy era presidente della repubblica francese, anche delle più potenti. Carla Bruni (nata Bruni Tedeschi) era già famosissima prima di sposare l’ormai ex presidente transalpino, non tanto per la sua carriera di musicista, quanto per il fatto che è stata per anni una delle più importanti modelle in circolazione, ed anche in secondo luogo per aver frequentato di sfuggita il mondo del rock sotto forma di flirt amorosi, si dice, con Eric Clapton e Mick Jagger. Nel nostro paese non riscuote molte simpatie, più che altro per il fatto di aver preferito la nazionalità francese a quella italiana (è infatti originaria di Torino), ma chi lo dice forse non sa che Carla vive in Francia da quando ha sette anni, e quindi ha tutto il diritto di sentirsi appartenente al paese d’oltralpe (e, bisogna riconoscerlo, non ha mai rinnegato le sue radici italiche). Appassionata di musica, la Bruni ha esordito nel 2002 con Quelqu’Un M’A Dit, un album che ha avuto un buon successo, soprattutto nei paesi francofoni, anche se l’attenzione su di sé come cantante (anche del sottoscritto) l’ha attirata cinque anni dopo con No Promises, un bel disco in lingua inglese con una serie di adattamenti in musica di testi di vari poeti (Yeats, Emily Dickinson, ecc.) in uno stile pacato, raffinato e melodico che qua e là poteva ricordare anche Leonard Cohen.

Dopo altri due dischi meno interessanti ed ancora in lingua francese, Carla torna tra noi con questo French Touch, nel quale reinterpreta alcuni famosissimi brani contemporanei di stampo pop, country ed anche rock, ma arrangiando il tutto con uno stile ancora raffinato, quasi jazz, e decisamente piacevole. Quando ho visto che il produttore era David Foster ho avuto qualche brivido di paura, dato che stiamo parlando di uno che è abituato a lavorare con Celine Dion, Whitney Houston, Madonna, Mariah Carey ed anche i nostri Andrea Bocelli e Laura Pausini, quindi uno che di solito ha la mano pesante: in French Touch però è tutto il contrario, e riveste le canzoni con lo stretto necessario, una chitarra acustica, percussioni, pianoforte, fiati ed archi quanto basta, ed al centro la voce di Carla, che è uno strumento a sé. Infatti non stiamo parlando di una voce bella nel senso puro del termine, non è Janis JoplinLiza Minnelli né tantomeno Edith Piaf (per restare in Francia), a volte è più un sussurro che un canto vero e proprio, ma l’intonazione c’è e poi, cosa che a noi maschietti suscita scosse telluriche nelle parti intime, una bella dose di sensualità. Alcuni pezzi di French Touch sono stati incisi a Parigi con musicisti locali, ma altri ai Capitol Studios di Hollywood e con dentro vere e proprie icone come il grande Jim Keltner alla batteria e il formidabile chitarrista Dean Parks. L’album dura solo 34 minuti, ma c’è anche una versione con DVD allegato, con dentro un paio di videoclip ed alcune canzoni suonate in acustico durante uno special televisivo francese.

Apre il disco Enjoy The Silence, uno dei brani più noti dei Depeche Mode: la melodia è molto conosciuta, e qua l’attacco è dato da una chitarra acustica e da malinconici rintocchi di piano, poi entra la voce sexy di Carla ed il resto della band che avvolge il brano in maniera emozionante, con archi non invadenti ed un breve assolo di slide. Un ottimo avvio. Jimmy Jazz è proprio quella dei Clash (nel booklet interno Carla spiega canzone per canzone le sue scelte), e qui l’arrangiamento la fa diventare un delizioso pop afterhours di classe, jazzato come da titolo e godibilissimo, con uno splendido pianoforte ed uno squisito intervento di fiati in puro stile dixieland. Love Letters (l’ha fatta anche Elvis) ricorda certe cose di Rickie Lee Jones quando vuole jazzare, altra bella versione, fluida e distesa, con una chitarrina che fa capolino ogni tanto; Miss You è la prima sorpresa, con la Bruni che spoglia il brano degli Stones del ritmo da discoteca lasciando intatta la melodia, e trasformandolo in una bossa nova davvero raffinatissima e con un feeling ispanico (*NDB Scusate se mi intrometto ancora, ma a proposito di voci femminili, Etta James ai tempi ne aveva fatta una versione leggerissamente migliore, a mio parere https://www.youtube.com/watch?v=ZMT4mwvAIWQ), mentre The Winner Takes It All, proprio il successo degli ABBA, è in versione rallentata, con la voce particolare di Carla in primo piano, una chitarra arpeggiata ed un violoncello, un pezzo che, spogliato delle frequenti sonorità pacchiane del quartetto svedese, risulta malinconico e struggente.

Crazy era già raffinata nella versione del suo autore Willie Nelson (o di Patsy Cline, che fu colei che la portò al successo), qui Carla la movimenta un pochino, ancora con un leggero tocco pop-jazz e, sorpresa sorpresa, compare anche Willie in persona a duettare con lei (portandosi dietro anche Mickey Raphael all’armonica), e la temperatura sale ulteriormente; che dire di Highway To Hell degli AC/DC ripresa in versione jazz-lounge, con il riff di chitarra di Angus Young sostituito da una sezione fiati? Un po’ spiazzante a dire il vero, e qui forse è l’unico caso in cui si sfiora l’effetto-parodia (vi ricordate i Big Daddy?). Ma Carla riprende subito in mano il gioco con la splendida Perfect Day di Lou Reed, rifatta come un valzerone francese, una situazione che si addice alla perfezione a Madame Sarkozy (anche se nel ritornello il brano riprende la sua forma conosciuta, e Carla canta benissimo). Sembra strano ma Stand By Your Man, uno dei brani country al femminile più famosi di sempre (immortale la versione di Tammy Wynette) è rifatta con buona aderenza all’originale, con tanto di piano honky-tonk e dobro: una delle più riuscite. Please Don’t Kiss Me era interpretata da Rita Hayworth nel film La Signora Di Shanghai, e la Bruni la rifà in maniera giustamente vintage, con una strumentazione simile a quella di Bob “Sinatra” Dylan; chiude il CD la famosissima Moon River, scritta da Johnny Mercer con Henry Mancini per il film Colazione Da Tiffany, un pezzo che hanno rifatto sia lo stesso Sinatra che Sarah Vaughan, ma Carla non si lascia intimorire e la rifà alla sua maniera, voce in primo piano e poco altro.

Sono perfettamente conscio del fatto che la figura di Carla Bruni  possa non godere delle simpatie del titolare di questo blog e dei suoi abituali lettori, ma credetemi se vi dico che nel trasporto con cui ho giudicato questo French Touch il mio indiscutibile debole per il fascino femminile c’entra fino ad un certo punto.

Marco Verdi

Peccato Perché E’ Bravo, Ma Non Basta. John Mayer – The Search For Everything

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John Mayer – The Search For Everything – Columbia/Sony

Mmmhhh, maaah?! Perché questa presentazione quasi onomatopeica? Non lo so, mi è venuta così. O meglio un’idea ce l’avrei: di solito in una recensione la prima cosa che si scrive è il giudizio critico, le classiche stellette o il voto numerico, ebbene, se vi interessa, tradotto in voti scolastici è forse un 5- -, il classico “il ragazzo è bravo, ma non si impegna”!. A parte a cercare di accontentare la sua casa discografica, a cui ha dato una serie di album che quando sono andati male sono arrivati comunque al 2° posto delle classifiche di Billboard, ma le cui vendite, in un mercato in continuo calo, dai 2 milioni e passa di Heavier Things del 2003 sono arrivati alle 500.000 copie circa dell’ultimo Paradise Valley, ma al giorno d’oggi bisogna contare anche i download e le visualizzazioni su YouTube e Spotify. Perché in fondo John Mayer deve vivere in due mondi diversi: il “bel fioeu” (si dice così al nord), fidanzato con Jessica Simpson, Jennifer Aniston, Katy Perry e Taylor Swift, per citarne solo alcune, e il grande appassionato di Eric Clapton, nonché il nuovo chitarrista dei  Dead & Co, che si è imparato tutto il repertorio dei Grateful Dead, per andare in tour con loro.

Dopo due album come Born And Raised e il citato Paradise Valley, dove, anche grazie alla produzione di Don Was, sembrava avere prevalso il secondo, in questo The Search For Everything torna il Mayer più tamarro, il quasi “gemello” di Keith Urban, in quel caso un country-pop pasticciato e mediocre, nel disco in esame un neo-soul-pop-rock, molto morbido e all’acqua di rose, dove il ritorno di Steve Jordan, alla batteria, ma non alla produzione, e Pino Palladino al basso, oltre al bravo Larry Goldings  alle tastiere, non serve a salvare il lavoro a livello qualitativo. Anche la presenza di Cary Grant alla tromba in un brano (ma non era morto? Si scherza) non risolleva le sorti del disco, peraltro già parzialmente pubblicato a rate in due EP usciti nella prima parte del 2017 come Wave One e Wave Two, quindi otto dei dodici brani totali si erano già sentiti, e i restanti quattro non sono così formidabili da ribaltare il giudizio. Siamo di fronte al classico disco da ascoltare come musica di sottofondo in qualche party sofisticato (non disturba neanche) o se esistesse ancora la filodiffusione negli ospedali sarebbe l’ideale per anestetizzare le preoccupazioni dei pazienti.

E se mi passate il gioco di parole bisogna essere veramente pazienti per ascoltare questo The Search For Everything: dal malinconico (nel testo, e questo è il sentimento che prevale nell’album) neo-soul soporifero con “ardito” falsetto di una Still Feel Like Your Man dedicata alla non dimenticata Katy Perry, alla morbida ballata acustica Emoji Of A Wave, che non è disprezzabile, intima e delicata, anche se al solito forse troppo carica nella produzione a cura dello stesso Mayer e del suo storico ingegnere del suono Chad Franscowiak,, non male comunque, anche grazie alle armonie vocali di Al Jardine dei Beach Boys. Helpless è un funky-rock non malvagio dove John Mayer arrota la chitarra nel suo miglior stile alla Clapton, ma poi vira verso un sound alla Clapton anni ’80 o Lenny Krarvitz, con coretti insulsi, però la solista viaggia, peccato non la suoni di più nel disco, lui è veramente bravo come chitarrista. Love On The Weekend ripristina il John Mayer Trio solo con Jordan e Palladino, ma purtroppo è un’altra ballata “moderna” con suoni molto pensati per la radio di oggi, poca grinta e molto pop. Meglio In The Blood, non un capolavoro, ma la lap steel di Greg Leisz e la seconda voce di Sheryl Crow aggiungono un poco di pepe al brano, che comunque fatica a decollare, molto Nashville Pop Country, con la solita chitarra che non basta a salvare il tutto.

Changin’, nonostante il titolo, non cambia molto, ma è una ballata piacevole e ben suonata, con Mayer al piano oltre che alla chitarra, Goldings all’organo e Leisz che passa al dobro, forse il brano che ricorda di più gli ultimi due dischi. Theme For “Search For Everything”, è un breve strumentale, con arrangiamento di archi aggiunto, dove Mayer si produce all’acustica, senza infamia e senza lode. Moving On And Getting Over sembra un brano del George Benson anni ‘80, funky “sintetico” e mellifluo, ma non è un complimento, e pure il falsetto non fa impazzire, a meno che non amiate il genere. Ancora piano e archi per una ballata strappalacrime come Never On The Day You Leave, molto simile a mille altre già sentite. Rosie è un mosso mid-tempo in cui qualcuno ha ravvisato analogie con Hall & Oates, ma a me sembra sempre il Clapton anni ’80, nonostante i fiati con Cary Grant. Finalmente un po’ di vita e di rock in Roll It On Home con doppia batteria, uno è Jim Keltner, più Greg Leisz alla pedal steel, sembra sempre Clapton, ma quello buono. You’re Gonna Live Forever On Me è una ennesima ballata, solo voce, piano e archi, ricorda vagamente un brano à la Billy Joel, discreto. Speriamo nel prossimo album.

Bruno Conti  

Se Lo Dicono Tutti Sarà Veramente Così Bello? Questa Volta Direi Proprio Di Sì! Conor Oberst – Salutations

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Conor Oberst – Salutations – Nonensuch/Warner

Come sapete al sottoscritto non piace uniformarsi per forza ai giudizi critici (che comunque leggo per documentarmi) relativi ai nuovi dischi in uscita: preferisco sempre adottare l’infallibile metodo “San Tommaso”, o se preferite Guido Angeli, ovvero provare per credere, anzi meglio, ascoltare per credere. E quindi, se posso, compatibilmente con le qualità industriali di dischi che “devo” sentire ogni mese, cerco di ascoltare gli album che per vari motivi hanno stuzzicato la mia curiosità, anche se poi non sempre riesco a scrivere il resoconto delle mie impressioni: ma questa volta, come dico nel titolo, sì! Perché l’album in questione, nello specifico parliamo del nuovo Salutations, a firma Conor Oberst, mi pare proprio un ottimo album. Disco che nasce sulla scia della prova acustica Ruminations, pubblicata solo alcuni mesi or sono e che che conteneva dieci delle canzoni ora riproposte in versione elettrica nel CD, con l’aiuto del grande batterista Jim Keltner, che ha curato anche la co-produzione dell’album insieme a Oberst, e alla band roots-rock dei Felice Brothers, veri spiriti affini di Conor e di cui l’estate scorsa vi avevo segnalato l’eccellente Life In The Dark, un piccolo gioiellino http://discoclub.myblog.it/2016/07/06/antico-dylaniano-sempre-gradevole-felice-brothers-life-the-dark/, che si muoveva, come questo, su territori cari alla Band Bob Dylan, ma non solo. Quindi il solito retro-rock? Direi di sì, ma quando è fatto così bene è difficile resistere, e le 17 canzoni contenute in questo disco (le dieci di Ruminations più altre sette aggiunte per l’occasione) sono tutte veramente belle e non si riscontrano momenti di noia dovuti alla eccessiva lunghezza dell’album.

Oltre ai Felice Brothers e Keltner nell’album appaiono parecchi altri musicisti di pregio: dall’ottimo Jim James Blake Mills, Gillian Welch Maria Taylor alle armonie vocali, nonché M. Ward e il quasi immancabile, in un disco di questo tipo, Jonathan Wilson, a chitarre e tastiere in due dei brani più belli del disco, uno dei due, Anytime Soon, dove è anche coautore del pezzo, con lo stesso Oberst, Taylor Goldsmith dei Dawes, Johnathan Rice, frequente collaboratore di Jenny Lewis, in una sorta di meeting di alcuni dei “nuovi” talenti del suono westcoastiano, considerando pure che il tutto è stato registrato ai famosi Shangri-La Studios di Malibu. Quindi Dylan+Band+California, risultato: ottimo disco, che lo riporta ai fasti dei migliori album fatti con i Bright Eyes. Partiamo proprio con la citata Anytime Soon, un bel pezzo rock di impianto californiano, con la slide pungente di Wilson, che ricorda quella di David Lindley, a percorrerla e una melodia solare che si rifà al sound dei Dawes o del loro mentore Jackson Browne, ma anche con spunti beatlesiani.

Comunque fin dall’apertura deliziosa della valzerata Too Late For Fixate, con in evidenza il violino di Greg Farley e la fisarmonica di James Felice, che uniti all’armonica dello stesso Oberst, crea subito immediati rimandi alla musica del Dylan anni ’70 ( e anche la Band, ovviamente, grazie all’uso della doppia tastiera, affidata spesso a Felice); contribuiscono ampiamente alla riuscita anche i testi visionari e surreali, sentite che incipit: “Tried Some Bad Meditation/ Sittin’ Up In The Dark/They Say To Picture An Island/Cuz That’s One Place To Start/I Guess I Could Count My Blessings/I Don’t Sleep In The Park/With All My Earthly Possessions/In One Old Shopping Cart”, e ditemi chi vi ricorda. Anche la seconda canzone Gossamer Thin mantiene questa atmosfera sonora, con il riff circolare a tempo di valzer, sempre impreziosito dall’uso di violino, fisa ed armonica, oltre alle armonie vocali di Jim James, che rimane poi anche per la successiva Overdue, dove si apprezza il lavoro delle chitarre elettriche e quello di un piano Wurlitzer, molto alla Neil Young anni ’70, con il ritornello che ti rimane subito in testa.

Afterthought in veste full band acquisisce ulteriore fascino, anche grazie al lavoro preciso e variegato di Jim Keltner, uno dei più grandi batteristi della storia del rock, ancora splendide le armonie vocali corali dei Felice Brothers assortiti, il violino guizzante di Farley e l’armonica insinuante di Conor, sembra quasi di essere capitati in qualche outtake di Blonde On Blonde. Molto coinvolgente anche la delicata ballata Next Of Kin, già presente in Ruminations, che rimanda ai pezzi più belli di un altro cantautore che quando viene colto dall’ispirazione può regalare canzoni stupende, penso a Ryan Adams, e pure in questo testo ci sono deliziose citazioni d’epoca:  “Yeah I met Lou Reed and Patti Smith/It didn’t make me feel different/I guess I lost all my innocence/Way too long ago”. In Napalm il ritmo si fa più incalzante e bluesy, per continuare il parallelo con Dylan ci tuffiamo in Highway 61 con l’organo di Felice e le chitarre di Oberst a ricreare il sound dell’accoppiata Kooper/Bloomfield, con i dovuti distinguo, e senza dimenticare Farley che si dà sempre da fare con il suo violino.

Blake Mills aggiunge il suo guitaron e la baritone guitar per una intima e raccolta Mamah Borthwick (A Sketch), dove si apprezza anche la voce di Gillian Welch, splendida. Mentre nelle successive Till St. Dymphna Kicks Us Out e Barbary Coast (Later) appare anche un quartetto di archi e il pianoforte assurge a ruolo di protagonista, nel primo brano, a fianco degli immancabili violino, fisarmonica e armonica, senza dimenticare la chitarra elettrica di Ian Felice, sempre presente, con un lavoro sia di raccordo quanto solista; Barbary Coast addirittura mi ha ricordato certe cose del primo Van Morrison, quello californiano, con il prezioso apporto della voce di Maria Taylor. Tachycardia è un’altra ballata di ampio respiro, con doppia tastiera e armonica sempre in evidenza (ma è difficile trovare un brano non dico scarso, ma poco riuscito), mentre Conor Oberst canta sempre con grande trasporto e convinzione, mentre il violino e la chitarra di Mills ricamano sullo sfondo. Serena ed avvolgente anche la dolcissima Empty Hotel By The Sea, con mille particolari sonori gettati nel calderone sonoro di una ennesima riuscita canzone, con gli strumenti sempre usati con una precisione quasi matematica.

Del pezzo con Jonathan Wilson abbiamo detto. Counting Sheep è una ulteriore variazione sul tema sonoro dell’album, e nonostante il titolo è meno “sognante” di altri episodi, con le chitarre elettriche più graffianti e la bella voce della Taylor che ben supporta il nostro. Rain Follows The Plows, di nuovo con la presenza del quartetto di archi, assume un carattere quasi più barocco e complesso, grazie all’uso del piano elettrico e della chitarra elettrica di Blake Mills, presente per l’ultima volta, a fianco di violino,, armonica e tastiere, che, l’avrete ormai capito, sono gli strumenti più caratterizzanti dell’album. Di nuovo Gillian Welch a duettare con Oberst in You All Loved Him Once, altra love ballad di elevata qualità e delicatezza, con armonica e chitarra elettrica che deliziano i nostri padiglioni auricolari ancora una volta, una delle più belle canzoni del disco.

A Little Uncanny, con video prodotto dal bassista del disco (e dei Felice Brothers) Josh Rawson è uno dei pezzi più rock e mossi di questo Salutations, chitarristico ed incalzante, prima del commiato, Salutations appunto, dove ritornano il piano, la chitarra ed il synth di Jonathan Wilson, per un altro tuffo nel sound da singer songwriter californiano degli anni ’70, a conferma della qualità di questo lavoro che si candida fin d’ora tra le migliori prove di questo inizio 2017, e che vi consiglio caldamente!

Bruno Conti 

Nuovo Supplemento Della Domenica: Un Disco “Normale” Di Neil… Forse Anche Troppo! Neil Young – Peace Trail

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Neil Young – Peace Trail – Reprise/Warner CD

Nonostante sia risaputo che Neil Young è uno che non sta fermo un attimo, non mi aspettavo che, ad appena un anno e mezzo dal discusso (ma musicalmente riuscito) The Monsanto Years ed a pochi mesi dallo strano live “per band e animali” Earth http://discoclub.myblog.it/2016/06/26/nuovo-tipo-musica-ambient-neil-young-promise-of-the-real-earth/ , il nostro canadese preferito (ancora di più dopo la triste scomparsa di Leonard Cohen) potesse chiudere idealmente il 2016 con un altro disco nuovo di zecca. Eppure è successo proprio questo: Peace Trail, 38° disco di studio, racchiude dieci nuove canzoni, ed è stato inciso in fretta e furia con una formazione ridotta all’osso, e con un approccio quasi completamente acustico. Essenziale è infatti il primo aggettivo che mi viene in mente, dalla copertina alla band presente in studio (solo Neil all’acustica, armonica ed occasionalmente anche alla chitarra elettrica ed organo a pompa, Paul Bushnell al basso ed il grande Jim Keltner alla batteria), fino al modo in cui è stato inciso l’album, senza pensare troppo al suono ed agli arrangiamenti, buona la prima e via andare. Quando avevo letto che Peace Trail sarebbe stato un album elettroacustico mi erano venuti in mente lavori come Harvest (ed il suo “seguito” Harvest Moon), Comes A Time, Silver And Gold, Prairie Wind, anche se in quei dischi il suono era molto più rifinito e spesso sfiorava il country, mentre qui, pur essendoci pochi strumenti, le sonorità risultano a tratti spigolose e poco accattivanti, somigliando forse di più al primo lato di Hawks & Doves del 1980.

Ma questo con il “Bisonte” non è mai stato un problema, ben poche volte nella sua carriera si è fatto aiutare da un produttore esterno (anche se quando lo ha fatto, vedi Daniel Lanois con Le Noise, gli esiti sono stati eccellenti): il problema principale di Peace Trail è la penuria di canzoni, in quanto, a parte due-tre casi, il disco suona piuttosto monocorde e ripetitivo, con diversi momenti in cui Neil sembra far fatica a trovare il bandolo e finisce per parlare più che cantare, anche se i testi sono sempre basati sull’attualità, pur meno arrabbiati e più ironici che in The Monsanto Years. Non è un brutto disco, a quella categoria appartengono altri lavori passati di Young (so che pensate tutti a Trans, ma per me quell’album aveva delle potenzialità: io mi riferisco soprattutto a Landing On Water, Fork In The Road ed all’inqualificabile disco di cover A Letter Home), ma sicuramente rimane un disco irrisolto, che avrebbe potuto venire fuori molto meglio se solo Neil ci avesse lavorato un paio di mesi in più, magari sostituendo i brani più deboli con altri di maggior impatto.

L’album inizia anche bene con l’epica title track, un tipico brano del nostro, con il caratteristico timbro elettrico della sua “Old Black” che contrasta con la voce quasi fragile, accompagnamento un po’ sbilenco ma di indubbio fascino, e poi la canzone è fluida, profonda ed intensa. Can’t Stop Workin’ (titolo perfetto per lui) è più interiore, con la base musicale ridotta all’osso ed un’armonica dal suono distorto, e con una melodia che fatica ad uscire; anche Indian Givers, nonostante l’ottima prova di Keltner, risulta ripetitiva e poco graffiante, oltre che eccessivamente allungata, mentre Show Me, con la sua andatura cadenzata ed il suo motivo insinuante, è nettamente meglio, pur non essendo di certo paragonabile ai capolavori younghiani. E poi va bene la spontaneità, ma un po’ più di tempo a rifinire un minimo il suono lo avrei dedicato. Texas Rangers è sconclusionata, priva di una melodia vera e propria e con un arrangiamento discutibile, forse se restava inedita era meglio https://www.youtube.com/watch?v=2ImCoRutaEM ; molto più riuscita invece Terrorist Suicide Hang-Gliders, finalmente con un motivo degno di Neil, un brano folkeggiante e fortemente caratterizzato dalla sezione ritmica, con un testo duro e cupo https://www.youtube.com/watch?v=rkhyw3SJdFs , ed anche la lunga John Oaks, pur essendo più parlata che cantata, è una delle più positive, avendo dalla sua forza ed intensità. L’incalzante My Pledge vede Neil doppiare sé stesso usando l’auto-tune, ma nonostante ciò il brano funziona, grazie anche al suo sviluppo regolare, ed ancora meglio è Glass Accident, forse la migliore insieme a Peace Trail, una tipica Neil Young song di quelle belle, con una melodia tra country e folk ed una chitarra ruspante sullo sfondo. Ma poi, siccome Neil è un tipo strano, chiude l’album in maniera spiazzante con la bizzarra My New Robot, che inizia come una normale ballata delle sue, neanche male, ma poi termina in un caos totale, con una voce meccanica e, appunto, robotica e si interrompe bruscamente (per fortuna, aggiungerei).

Un mezzo passo falso si perdona a tutti, figuriamoci a Neil Young che, nel corso della sua carriera, ha guadagnato diversi bonus: ora però (ma so che forse chiedo troppo) vorrei un 2017 senza dischi nuovi e con finalmente la pubblicazione del secondo volume dei suoi archivi.

Marco Verdi

*NDB Voi che ne pensate! Il sito Metacritic che raccoglie recensioni da tutto il mondo, prese da riviste cartaceee e online gli regala una media di 56 (cioé 5.6, inferiore alla suffiecienza) http://www.metacritic.com/music/peace-trail/neil-young, in Italia le recensioni sono state più positive.

Lo Hanno Fatto Per Davvero…E Alla Grande! Rolling Stones – Blue And Lonesome

Rolling Stines - Blue&Lonesome

Rolling Stones – Blue And Lonesome – Polydor/Universal CD

Quando diversi mesi fa si era sparsa la voce non confermata di un possibile album a carattere blues da parte dei Rolling Stones, quindi molto prima dell’annuncio ufficiale avvenuto lo scorso 6 Ottobre, le reazioni erano state perlopiù scettiche, in quanto sembrava strano a tutti che un gruppo attento al marketing come loro, che non muove un passo che non sia studiato nei minimi dettagli (e che ama molto poco il rischio, basti vedere le scalette dei loro concerti, specie in grandi arene o stadi, da anni decisamente sovrapponibili data dopo data, in pratica un gigantesco greatest hits ambulante), potesse pubblicare un album così di nicchia come un disco di cover di classici del blues, soprattutto considerando il fatto che il loro ultimo lavoro di inediti di studio, A Bigger Bang, risaliva a ben undici anni fa. Pochi sapevano però che quel disco i nostri lo avevano già inciso, in tre giornate del Dicembre del 2015, e che conteneva effettivamente dodici riletture di brani a tema blues, e neppure tra i più famosi: ora che ho finalmente tra le mani Blue And Lonesome, uno degli album più attesi del 2016, posso affermare quindi che non solo le indiscrezioni erano vere, ma che siamo alle prese con un grandissimo disco, grezzo, diretto e ruspante come è giusto che sia un lavoro di questo tipo. Gli Stones hanno preso in esame canzoni che usavano suonare più di cinquant’anni fa, quando si esibivano nei piccoli club di Londra e non erano nemmeno famosi, una sorta di piccolo Bignami del più classico Chicago blues, ma suonato con la classe, l’esperienza ed il feeling di più di mezzo secolo di strada percorsa insieme.

Musica vera, potente, spontanea, suonata con grande forza e passione da un gruppo che non si è adagiato sugli allori di una carriera unica al mondo, ma che ha voluto rimettersi in gioco (un’ultima volta?) con un disco che è tutto meno che commerciale: tutti e quattro hanno registrato in presa diretta, e d’altronde tre giorni per fare un disco erano pochi anche negli anni sessanta, sotto la supervisione del produttore Don Was, che però non è dovuto intervenire più di tanto per determinare il risultato finale. Sapevamo che sia Keith Richards che Ron Wood sono cresciuti a pane e blues (mentre il background di Charlie Watts è più jazz), ma il dubbio era al massimo sulla resa da parte di Mick Jagger, dato che quando il cantante si è in passato espresso come solista, ha, quasi sempre, pubblicato solenni porcate: ebbene, il grande protagonista del CD è proprio Mick, che canta con una grinta ed una passione, unite alla sua voce eccellente e alla sua capacità di essere istrione delle quali non si dubitava di certo, che quasi sembra uno che per tutto questo tempo non abbia fatto altro che esibirsi in qualche fumoso juke joint di Chicago, a cui aggiungiamo un’abilità come armonicista che non gli ricordavo a questo livello. Come co-protagonisti nel disco troviamo nomi già ultranoti come il bassista Darryl Jones (che di recente ha espresso il legittimo desiderio di venire riconosciuto a tutti gli effetti un membro del gruppo, ma gli altri quattro non credo vogliano rinunciare ad una parte di guadagni per darla a lui), il grande Chuck Leavell al piano ed organo, con l’aggiunta dell’ottimo Matt Clifford sempre alle tastiere, del leggendario batterista Jim Keltner in un brano e, in due pezzi, l’inimitabile chitarra di Eric Clapton (che era nello studio attiguo a dare gli ultimi ritocchi al suo album I Still Do, uscito la scorsa primavera).

Come ho accennato, non ci sono classici blues straconosciuti (Robert Johnson non è presente nemmeno una volta tra gli autori), ma quasi sempre brani più oscuri, che per i nostri rappresentavano le radici, i primi passi, con Little Walter a spiccare come artista più omaggiato, subito seguito da Howlin’ Wolf ed altri; il CD (la cui copertina è l’unica cosa sulla quale ci si poteva spremere un po’ di più, sembra più un’antologia di brani blues che un disco nuovo) esce in due versioni: quella normale ed una deluxe in formato cofanetto che purtroppo costa circa trenta euro in più (tanti soldi!), pur non presentando canzoni aggiuntive, ma con uno splendido libretto ricco di foto tratte dalle sessions e con immagini dei bluesmen originali che hanno scritto i vari brani, oltre ad un ottimo saggio ad opera di Richard Havers, scrittore a sfondo musicale esperto di Stones. L’album inizia con Just Your Fool (Little Walter): subito gran ritmo e Mick che ci dà dentro di brutto all’armonica, suono spettacolare e grandissimo feeling (una costante del disco), un jumpin’ blues fatto alla maniera di una vera rock’n’roll band; una rullata potente ci introduce a Commit A Crime (Howlin’ Wolf), volutamente sporca e ruvida, con Keith e Ron che lavorano di brutto sullo sfondo e Mick che incalza da par suo, un pezzo teso e diretto come una lama, mentre la title track, ancora di Little Walter, è un blues lento, sudato, sexy e minaccioso come nella miglior tradizione delle Pietre, con il solito grande Jagger (un vero mattatore), un pezzo in cui avrei visto bene come ospite Stevie Ray Vaughan se fosse stato ancora tra noi. All Of Your Love (Magic Sam) mantiene l’atmosfera limacciosa e notturna, con ottimo lavoro di Jones e soprattutto di Leavell, grande classe: quello che emerge da questi primi quattro brani non è un mero esercizio calligrafico da parte di rockstar ricche e famose, ma musica suonata con grinta e passione come se avessero ancora la fame dei primi anni sessanta.

I Gotta Go (di nuovo Walter) è caratterizzata dal solito gran lavoro di armonica e dal ritmo spedito, con la splendida voce di Jagger a dominare un brano che nelle mani sbagliate poteva anche suonare scolastico; Everybody Knows About My Good Thing (Little Johnny Taylor) è il primo dei due pezzi con Clapton e, con tutto il rispetto per Richards e Wood, qui siamo su un altro pianeta: Eric avrà anche problemi alla schiena che lo hanno costretto a diradare l’attività, ma quando prende in mano la sua Fender per suonare il blues dà ancora dei punti a chiunque. La saltellante Ride ‘Em On Down, di Eddie Taylor, è puro e trascinante Chicago blues http://discoclub.myblog.it/2016/09/27/altro-tassello-nellinfinita-storia-delle-12-battute-eddie-taylor-session-diary-of-chicago-bluesman-1953-1957/ , con la sua puzza di fumo e whisky (e ca…spita se suonano!), Hate To See You Go, l’ultima delle quattro canzoni di Little Walter, è tutta costruita intorno ad un pressante riff di chitarra doppiato prima dall’armonica e poi dalla voce, un brano secco, tirato e potente, mentre Hoo Doo Blues (Lightnin’ Slim) assume ancora contorni minacciosi e viziosi, con strepitosi intrecci di armonica e chitarre, il tutto guidato dal drumming tonante ma preciso di Watts. Little Rain (Jimmy Reed) è lenta, quasi pigra, con Mick che si destreggia alla grande in questo blues sincopato dai toni afterhours; il CD si chiude con due brani scritti da Willie Dixon, uno per Howlin’ Wolf e l’altro per Otis Rush: la veloce e roccata Just Like I Treat You, ancora con Leavell in gran spolvero, e la fluida e vibrante I Can’t Quit You Baby (la più nota tra quelle presenti), ancora con Eric Clapton splendido Stone aggiunto.

Probabilmente il disco blues dell’anno, ed uno dei migliori di sempre degli Stones (capolavori esclusi): saranno anche la più grande rock’n’roll band di tutti i tempi, ma Blue And Lonesome dimostra che, se avessero voluto, potevano dire la loro anche come blues band.

Marco Verdi

Cantautore, Attore, Pittore… E Altro! Peter Himmelman – The Boat That Carries Us

peter himmelman the boat that carries us

Peter Himmelman – The Boat That Carries Us – Himmasongs Recordings

Per chi scrive, Peter Himmelman è uno dei “songwriters” meno celebrati dell’intero panorama cantautorale americano, talmente poco riconosciuto che i suoi lavori ultimamente se li deve distribuire e produrre con mezzi propri (ma questa sta diventando una caratteristica di gran parte della scena musicale americana), come quest’ultimo The Boat That Carries Us. Nonostante sia ormai più noto come attore televisivo (ha partecipato a serie importanti come il Giudice Amy e Bones), il buon Peter vanta un lungo e dignitoso trascorso da rock’n’roller. Originario di Minneapolis, l’attività artistica di Himmelman era iniziata con i Shangoya già nel lontano ’78 per continuare poi con il gruppo dei Sussman Lawrence in cui militò fino al ’84. La sua carriera solista vera e propria parte con This Father’s Day (85), e il secondo colpo lo mette a segno sposando nel 1988 Maria Dylan figlia adottiva del grande Bob (la cui madre è l’ex moglie di Dylan, Sara Lowndes), e dopo undici album con punte altissime quali Flown This Acid World (92), Skin (94) https://www.youtube.com/watch?v=Vbz1D08muFw , Unstoppable Forces (04) e due album dal vivo Stage Diving (96) e Pen And Ink (08), oltre a cinque album dedicati ai ragazzi, si ripresenta un po’ a sorpresa, dopo l’esperimento Minnesota http://discoclub.myblog.it/2012/11/25/file-under-bella-musica-minnesota-are-you-there/ , con questo lavoro prodotto da Sheldon Gomberg (Ben Harper).

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Per l’occasione Peter ha riunito sulla stessa “barca” musicisti di grande talento come David Steele alle chitarre (Steve Earle, John Prine, Emmylou Harris), Lee Sklar al basso (tra i tantissimi Leonard Cohen, Jackson Browne, James Taylor), Jim Keltner alla batteria (John Lennon, Richard Thompson, e il genero Dylan, oltre ad una infinità di altri, forse si fa prima a dire con chia non ha suonato), Will Gramling alle tastiere (Colbie Caillat), e penso che con questi elementi sia molto difficile che non esca un prodotto di qualità come questo The Boat That Carries Us, una sorta di “concept album” scritto da Himmelman mentre era coinvolto nelle sue varie professioni.

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La barca salpa con la title track, un brano folk dalla morbida melodia acustica https://www.youtube.com/watch?v=RZFQkA77V0w , a cui fanno seguito il ritmo e l’energia di Afraid To Lose http://discoclub.myblog.it/2012/11/25/file-under-bella-musica-minnesota-are-you-there/ , l’atmosfera avvincente che si crea con Green Mexican Dreams (una delle migliori del disco), la divertente For Wednesday At 7pm (I Apologize) sostenuta da un buon “groove”, mentre 33K Feet è animata dalla chitarra di Steele, e Never Got Left Behind dalla batteria spazzolata di Keltner. Il viaggio prosegue dolcemente con la preghiera sincera di Mercy On The Desolate Road (splendida), il ritmo “sincopato” di In The Hour Of Ebbing Light, la pianistica Double Time Sugar Pain rubata dai solchi del miglior Randy Newman, passando per l’energia rock di Angels Die, con una grande ritmo dettato dalla batteria di Keltner, il sussurrato piano e voce di  Tuck It Away, il riff chitarristico di That’s What It Looks Like To Me, attraccando la barca al porto con il moderno gospel acustico di una solenne Hotter Brighter Sun. Hallelujah!

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Peter Himmelman pur rimanendo ai margini dell’industria discografica, è pur sempre una delle penne più vitali e creative della scena americana, uno di quei musicisti che non si nascondono e,essendo ormai una star televisiva, si può permettere di sfogarsi attraverso dischi, autoproducendoli come gli pare e piace (simpatica la trovata di utilizzare nel retro di copertina del CD la stessa grafica che utilizzarono i Clash per London Calling), per esempio questo The Boat That Carries Us, energico, ispirato e suonato come Dio comanda,e quindi, sempre per chi scrive, soldi ben spesi.

Tino Montanari

Replay: Ecco La Ristampa Dell’Anno! – The Waterboys – Fisherman’s Box

***NDB Visto che, causa sparizione di molti Post nel passaggio da un Blog all’altro (stiamo lavorando per farli riapparire, ma è dura, ci vorebbe il Mago Merlino o la Strega Nocciola, ma mai dire mai), alcune persone mi hanno detto di non avere fatto in tempo a leggere questo lungo articolo, il supplemento della domenica del Disco Club, dedicato da Marco Verdi a questa bellissima ristampa, eccolo di nuovo, buona lettura!

waterboys fisherman's box

The Waterboys – Fisherman’s Box Parlophone 6CD Box Set – 7CD + LP Super Deluxe

Il parere espresso nel titolo del post è ovviamente personale, anche perché il 2013 verrà ricordato come l’anno dei box set e delle ristampe eccellenti, e mai come quest’anno la scelta sulla migliore riedizione sarà ardua e legata ai gusti di ciascuno degli eventuali votanti.

Cito alla rinfusa alcuni dei pretendenti al titolo, sconfitti sul filo di lana dal box di cui mi accingo a parlare: la monumentale retrospettiva su Duane Allman, la deluxe version di Brothers & Sisters degli Allman Brothers Band, il decimo Bootleg Series di Bob Dylan (oltre al megabox di 47 CD con la sua opera omnia), l’ennesima edizione, spero definitiva, di Tommy degli Who, il live in 4CD di The Band, il sestuplo sulla carriera dei Beach Boys con una valanga di inediti, il ghetto blaster dei Clash, il secondo disco dei Velvet Underground in versione tripla e l’imminente cofanetto di Eric Clapton dedicato agli anni dal 1974 al 1976.

Per non parlare della lussuosa pubblicazione dedicata alle sessions di Moondance di Van Morrison, che è sempre stato uno dei miei cinque dischi da isola deserta.

(NDM: per quei due o tre curiosi che vogliono conoscere anche gli altri quattro, eccoli: Highway 61 Revisited di Bob Dylan, The River di Bruce Springsteen, John, The Wolfking Of L.A. di John Phillips e The Fillmore Concerts degli Allman).

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Ma veniamo al Fisherman’s Box: come saprete l’album del 1988 Fisherman’s Blues,da parte del gruppo anglo-scoto-irlandese dei Waterboys, è considerato a ragione il loro capolavoro, nonché uno dei dischi più belli degli anni ottanta, un album nel quale il rock cantautorale del carismatico leader Mike Scott si fondeva mirabilmente con sonorità sia celtiche che americane, country e folk soprattutto, un disco perfetto sia dal punto di vista musicale che da quello testuale, uno dei rari casi nei quali la musa ispiratrice è ben tangibile dal primo all’ultimo brano. Molte band del genere Americana, venute dopo, inseriranno questo album tra le loro influenze principali.

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Eppure quel disco era frutto di numerose sessions protrattesi per ben due anni, in diversi studi tra Irlanda e San Francisco e con diversi produttori (tra cui Bob Johnston, famoso per aver lavorato, tra gli altri, con Dylan, Johnny Cash e Leonard Cohen): vi risparmio la storia travagliata di quel disco, servirebbe un post a parte, ma ricordo soltanto che quelle sedute hanno dato alla luce altri due album, e cioè un secondo CD di inediti nella versione deluxe dell’opera originale, uscita nel 2006, ed un CD del 2001 intitolato Too Close To Heaven, nel quale Scott presentava altre outtakes, rimixandole ed aggiungendo diversi overdubs (in alcuni casi ricantandole da capo).

Ma il grosso di quelle registrazioni (più di ottanta brani) era rimasto nei cassetti, e quest’anno finalmente Scott si è deciso a renderle pubbliche: Fisherman’s Box contiene (o dovrebbe contenere) tutto, ma proprio tutto ciò che Mike e compagni hanno inciso in quei due anni, compresi i demo, le prove ad alcune cose appena accennate, oltre naturalmente a tutte le canzoni già pubblicate ufficialmente (anche se manca Good Man Gone, tratta da Too Close To Heaven, in quanto scritta durante quelle sessions, ma incisa soltanto nel 1991).

Un body of work impressionante, un viaggio irripetibile lungo 6CD nel mondo della musica popolare: infatti, oltre ai brani originali (e ce ne sono molti che ci chiediamo come possano essere rimasti inediti fino ad ora), ci sono varie cover versions di autori di riferimento per Scott e soci, Dylan su tutti, ma anche Morrison, Hank Williams, i Beatles ed altri che vedremo.

(NDM2: nella versione super deluxe, il settimo CD è infatti una compilations con alcuni brani dei musicisti che più hanno influenzato i Waterboys, anche se mancano sia Dylan che Morrison, un dischetto aggiuntivo tutto sommato inutile che, aggiunto al vinile del disco originale, serve solo a far lievitare il prezzo, che per la versione di 6CD è invece incredibilmente contenuto).

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Il box è, per dirla in parole povere, una goduria unica: se Mike Scott lo conoscevamo (a mio giudizio uno dei songwriters più di talento degli ultimi trent’anni), ascoltando i 121 brani presenti viene alla luce l’importanza per il sound della band di Steve Wickham ed Anthony Thistlethwaite, rispettivamente al violino e mandolino (il secondo anche al sassofono), vera e propria spina dorsale del gruppo, oltre alla sezione ritmica che suona decisamente rock, grazie al basso di Trevor Hutchinson (ma anche di John Patitucci in qualche brano) ed ai diversi batteristi che si sono succeduti (tra cui Fran Breen, Kevin Wilkinson e, dalla band di Patti Smith, Jay Dee Daugherty fino al mitico Jim Keltner), oltre ad una lunghissima serie di amici e sessionmen e qualche ospite di rilievo.

Nella confezione troviamo un bel libretto, con note, canzone per canzone, da parte di Scott (i brani sono presentati in rigoroso ordine cronologico, una scelta più che sensata), e con la prefazione di Colin Meloy dei Decemberists.

Dato che mi sono già dilungato abbastanza (anche se so che il Bruno non mi taglia, ma non voglio approfittarne), vado ora ad esaminare brevemente i sei CD citando gli episodi salienti, ed omettendo tutti i brani già noti (a proposito, il tutto è rimasterizzato ex novo).

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CD1: tra tutti, quello con la più ristretta combinazione spazio-temporale: è infatti frutto di un’unica session, tenutasi a Dublino il 23 Gennaio del 1986. E si parte subito alla grande con Stranger To Me http://www.youtube.com/watch?v=WvL_AfR3koY , una strepitosa country song guidata da fiddle e mandolino, con la voce carismatica di Scott in primo piano ed una melodia da urlo; segnalo anche una bella versione, molto personale, del classico di Hank Williams, I’m So Lonesome I Could Cry, un demo pianistico di Fisherman’s Blues, che ha già i germogli della grande canzone, una scintillante I’ll Be Your Baby Tonight di Bob Dylan http://www.youtube.com/watch?v=Mges1Ei9IBI (e c’è anche Girl From The North Country, gia pubblicata sulla versione deluxe del 2006 ma talmente bella che merita ancora una menzione, sembra uscita dalle sessions di Desire, noto album del grande Bob). Per finire con la lunga e fantastica Saints And Angels, strumentale per i primi quattro minuti, con Scott che poi inizia ad intonare una melodia straordinaria, morrisoniana al 100%,, per dieci minuti di pura libidine: assurdo che fosse rimasta inedita sino ad oggi http://www.youtube.com/watch?v=AxJHBLy-jR8.

waterboys fisherman's box group photo

CD2: qui gli highlights sono un trascinante gospel-rock dal titolo di One Step Closer, ancora Dylan con una When The Ships Comes In che purtroppo è solo un breve frammento, una versione diversa da quella conosciuta di Too Close To Heaven, più intima e dominata dal piano di Scott, con un bellissimo crescendo, e The Prettiest Girl In Church, altra magnifica country song mai sentita prima, con Mike che parla nelle strofe più che cantare, per poi stenderci con un ritornello irresistibile (avete presente Faraway Eyes degli Stones? Ecco, siamo da quelle parti). E poi una quasi jam session con ospiti Donal Lunny dei Moving Hearts e Liam O’Maonlai degli Hothouse Flowers, che parte con Lost Highway http://www.youtube.com/watch?v=csR5ku3TdkU, sempre di Hank Sr., per finire con una corale e gioiosa resa dell’inno della Carter Family Will The Circle Be Unbroken?

CD3: subito un trascinante rock’n’roll, Ain’t Leavin’, I’m Gone, una prima, splendida versione della giga tradizionale When Will We Be Married  http://www.youtube.com/watch?v=bUzB3a_bMf4, una deliziosa ballad intitolata When I First Said I Loved Only You, Maggie, cantata e suonata alla grande (anche questa un delitto che sia stata lasciata fuori), ed una versione alternata del coinvolgente gospel On My Way To Heaven. Alla fine, del CD, un vero e proprio piece de resistence di 25 minuti, Soon As I Get Homehttp://www.youtube.com/watch?v=AW42rE24UCManch’esso con l’influenza di Van Morrison abbastanza evidente, ed una personalissima Sergeant Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Fab Four.

CD4: qui troviamo una toccante cover di Come Live With Me dei fratelli Bryant, ma presa dal repertorio di Ray Charles, una Higher In Time per voce e due pianoforti, ricca di pathos, una coinvolgente Too Hot For Cleanhead, tra swing e rock’n’roll, la maestosa I Will Meet You In Heaven Again e soprattutto la splendida A Golden Age, una sontuosa ballata http://www.youtube.com/watch?v=lEuZNI5cSTQ anch’essa inspiegabilmente mai pubblicata fino ad oggi, con l’evocativa cornamusa di Vinnie Kilduff.

CD5: questo dischetto ha il meglio nelle versioni alternate di brani già noti: si inizia con la migliore tra le varie versioni di Higherbound, un folk-rock splendido, con un feeling enorme, per proseguire con un’altra take di Fisherman’s Blues  http://www.youtube.com/watch?v=XFrMSJgOIpM, che non avrebbe sfigurato sull’album del 1988, Has Anybody Seen Hank?, il toccante omaggio al padre della moderna country music, persino meglio dell’originale, ed una scintillante e grandiosa Strange Boat  http://www.youtube.com/watch?v=x-NXwRUQcmg, una delle gemme assolute del box. In più, un’ispirata rilettura del traditional gospel Working On A Building (incisa tra gli altri da Elvis Presley e John Fogerty), talmente personale da sembrare un brano dei Waterboys stessi.

waterboys strange boat

CD6: forse il migliore tra tutti, parte con la dylaniana On My Way To Tara  http://www.youtube.com/watch?v=gr9Rlac6HtA, per proseguire con l’imperdibile traditional Two Recruitin’ Sergeants, dove Scott canta con un marcato accento scozzese, e la musica ricorda quella dei migliori Fairport Convention. Poi meritano Strange Boat in versione acustica, che non perde un’oncia della sua bellezza, la struggente In Search Of A Rose  http://www.youtube.com/watch?v=cgNwiYKAbQM, in due superbe versioni, una full band e l’altra per voce, mandolino e violino, la take completa dell’inno di Woody Guthrie This Land Is Your Land, che chiudeva il disco originale ma durava appena un minuto, e l’ennesima cover di Dylan, Buckets Of Rain, che chiude il box con una nota di malinconia.

A parte citerei la fantastica And A Bang On The Ear  http://www.youtube.com/watch?v=xmyPHfu9c0c, la più bella canzone in assoluto di tutto il box (e forse dei Waterboys), che è la versione già conosciuta ma aggiunge più di due minuti inediti in coda. E tutte quelle che non ho citato nel corso dei sei dischetti…vi lascio il piacere di scoprirle da soli.

In conclusione, per dirla con una parola (anzi due): assolutamente imperdibile, anche per il prezzo per una volta non esorbitante.

Intanto mi informo se sull’isola deserta di dischi (intesi come pubblicazioni, quindi un box equivale ad un disco) ne posso portare sei invece di cinque…

Marco Verdi

Un Fulmine A Ciel Sereno! The White Buffalo – Shadows, Greys & Evil Ways

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The White BuffaloShadows, Greys & Evil Ways – Unison Music CD

Dopo aver ricevuto critiche più che lusinghiere lo scorso anno per l’ottimo Once Upon A Time In The West, i White Buffalo, ovvero la creatura di Jake Smith (con Matt Lynott e Tommy Andrews), ritornano a distanza di appena un anno con un lavoro ancora più ambizioso.

Shadows, Greys & Evil Ways è un disco molto bello, che a poche settimane dalla sua uscita ha già attirato l’attenzione delle testate più prestigiose (Entertainment Weekly ed il Wall Street Journal ne hanno parlato in maniera entusiastica), ed è l’album che dovrebbe consacrare definitivamente Smith come uno dei maggiori talenti degli ultimi anni.

Shadows, Greys & Evil Ways è un concept album, nel quale, in poco meno di quaranta intensissimi minuti, Jake e soci raccontano la storia di Joey White, un uomo comune, un personaggio come tanti che, tornato dalla guerra, cerca di riprendere la vita normale e di riallacciare i rapporti con l’amata Jolene, ma si rende presto conto che il mondo è cambiato e che ricominciare la vita di prima è tutt’altro che semplice. Una storia come tante, che però fornisce a Smith il pretesto per consegnarci un disco di grande spessore, dove la sua bravura come scrittore si unisce alla sua sensibilità musicale: un perfetto esempio di puro cantautorato in stile Americana, con elementi country, rock, folk e blues fusi insieme alla perfezione, il tutto suonato alla grande (fra i sessionmen troviamo anche Rick Shea ed il leggendario batterista Jim Keltner) e cantato benissimo dalla voce profonda di Jake. In alcuni momenti, nei brani meno rock, sembra quasi di aver a che fare con canzoni scritte da Guy Clark o Kris Kristofferson, e state certi che non sto esagerando. Tra l’altro Jake sembra proprio un texano doc: peccato che sia nato in Oregon e viva in California.

Si inizia alla grande con Shall We Go On, una ballata pianistica molto bella, passo lento, melodia profonda ed evocativa, con un toccante violino in sottofondo. Un avvio da manuale. The Getaway ha più o meno lo stesso arrangiamento, ma il tempo è quasi da valzer texano e l’atmosfera procura più di un brivido, grazie anche alla carismatica presenza vocale del leader.

When I’m Gone, più mossa ed elettrica, ha un testo molto diretto ed un suono solido e potente, mentre Joey White, nervosa e scattante, ha elementi blues e punti di contatto con il suono di Ray Wylie Hubbard: notevole la parte centrale, decisamente roccata. La breve 30 Days Back è molto triste e toccante, e prelude a The Whistler, che è uno degli highlights del CD: ballata western classica, lenta, intensa, con un crescendo assolutamente degno di nota. E’ in brani come questo che Smith dimostra di essere cresciuto a dismisura dai giorni dell’esordio di Hogtied Revisited.

Bella anche Set My Body Free, sempre di stampo western ed una melodia tra le meglio riuscite del lavoro; Redemption # 2, acustica e vibrante, è cantata con un trasporto quasi drammatico. La fluida This Year è un perfetto esempio di songwriting maturo, un altro dei brani di punta del disco; Fire Don’t Know sembra quasi uno slow alla Johnny Cash, mentre Joe And Jolene è diretta e sostenuta nel ritmo.

L’album giunge al termine con Don’t You Want It, orecchiabile ed ancora in odore di Texas, il breve strumentale per violino e contrabbasso # 13 e Pray To You Now, un’altra ballad di grande spessore, degna conclusione di un disco sorprendente.

Ascoltatelo, ne vale la pena.

Marco Verdi

*NDB Così, casualmente, a titolo informativo: questo è il Post n. 1500 del Blog. Per il momento si resiste, continuate a leggere e, se possibile, spargete la voce. Siamo un Blog di “Carbonari”, tra i 15 e i 20.000 contatti al mese, mentre l’utimo video di Miley Cyrus ha avuto più di 83 milioni di visualizzazioni in 4 giorni. Sarà più brava, ma…

Come diceva Gianni Minà, quando faceva una citazione ma non si ricordava di chi era, “come avrebbe detto qualcuno”: Rock On And Keep On Rolling!

Bruno Conti

Manolenta Va Ai Caraibi! Eric Clapton – Old Sock

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Eric Clapton – Old Sock – Bushbranch/Surfdog/Polydor CD

So che il titolo del post potrebbe anche sembrare quello di un’avventura di un personaggio dei fumetti, ma è in realtà il modo più sintetico per riassumere i contenuti di Old Sock (vecchio calzino, titolo indubbiamente autoironico), il nuovissimo album di studio di Eric “Manolenta” Clapton. A giusto tre anni da Clapton, che era il suo miglior disco di studio da secoli a questa parte (quelli di covers di blues esclusi), Old Sock migliora addirittura il livello, diventando forse il lavoro più bello addirittura da Money And Cigarettes (il disco con Ry Cooder, e stiamo parlando di trent’anni fa), ma operando delle scelte stilistiche diverse in materia di sound. Non è che Eric sia andato fisicamente ai Caraibi ad incidere, ma l’atmosfera all’interno del CD è quella, non tanto per i suoni (non somiglia, per dire, ad un disco di Jimmy Buffett), quanto per l’atmosfera solare e rilassata che si percepisce in tutti i brani.

Clapton ormai ha la sua età, è in pace con sé stesso e non deve dimostrare più nulla da tempo, e può fare ciò che gli pare, quando gli pare e con chi gli pare: a conferma di questo, l’album è il primo ad uscire per la sua etichetta personale, la Bushbranch. Eric riscopre il reggae (se ne era innamorato già negli anni settanta, ricordate I Shot The Sheriff e Knockin’On Heaven’s Door?), usandolo però non in dosi massicce, così da non scontentare chi non ama il genere alla follia (tipo il sottoscritto), fa qualche brano in perfetto stile anni 30-40, addirittura del country, un paio di pezzi tipici suoi, ma tutto in modo assolutamente rilassato. Attenzione, questo non va a discapito del feeling e dalla qualità: Old Sock è un gran bel disco, in cui Eric coniuga abilmente classe, mestiere e voglia di suonare e sperimentare anche sonorità insolite per lui, lasciando talvolta addirittura in secondo piano la sua chitarra (pochi sono infatti i suoi tipici assoli poderosi).

Clapton sceglie di fare perlopiù covers di varia estrazione, i brani originali (tra l’altro neppure scritti da lui, ma da Doyle Bramhall II con…Nikka Costa!!!) sono solo due su dodici, ma, come ho detto prima, Eric è arrivato ad un punto in cui sceglie le canzoni che vuole. Se aggiungiamo a tutto ciò una lista di musicisti impressionante (oltre a Bramhall abbiamo Steve Gadd, Greg Leisz, Jim Keltner, Matt Rollings, Willie Weeks, Henry Spinetti ed altri) ed alcuni special guests davvero special (li nominerò man mano) non ci vuole molto a fare un grande disco. Altro particolare degno di nota, il CD esce in una versione sola, ed oggi è una rarità (a dire il vero una versione deluxe ci sarebbe anche, ma è venduta solo sul suo sito, è limitata a mille copie, costa circa il triplo e l’unica bonus track, No Sympathy, non è sul CD ma su una chiavetta USB allegata. Complimenti…).

L’album si apre con Further On Down The Road, da non conforndersi con il quasi omonimo classico di Bobby “Blue” Bland: questo è un brano scritto da Taj Mahal, che appare al banjo ed armonica, proposto con un arrangiamento solare e delicatamente reggae, molto piacevole, subito una bella canzone. Angel (di e con J.J. Cale) è una ballata laidback tipica del suo autore, raffinata e godibilissima, cantata quasi sottovoce e strumentalmente ineccepibile; The Folks Who Live On The Hill (un brano anni trenta portato al successo da Peggy Lee) ha un arrangiamento di gran classe, tra jazz e musica hawaiana d’altri tempi. Gotta Get Over è un brano nuovo ed è anche il primo singolo, ed il suono qui è più vicino allo stile tipico di Eric, un rock classico ma molto ben fatto, vibrante, orecchiabile, diretto, con Chaka Khan alle armonie (ma non si nota…), ma soprattutto con il nostro che si lascia finalmente andare alla Stratocaster. Till Your Well Runs Dry (Peter Tosh) è molto bella nonostante sia un reggae (anche se solo nel ritornello); in All Of Me Clapton duetta addirittura con Sir Paul McCartney, regalandoci un irresistibile brano jazzato vivace e solare, anni quaranta, dove l’unico tributo alla modernità è il suono della chitarra di Eric (in origine era una canzone interpretata sia da Billie Holiday che da Sarah Vaughan). Born To Lose è stato un successo di Ted Daffan, un pioniere del country oggi dimenticato: l’arrangiamento di Eric è fedele allo stile dell’autore, e sembra che il nostro non abbia mai fatto altro che suonare musica country. Uno dei brani migliori, senza dubbio, una cover scintillante.

E il blues? Eccovi servita una sontuosa interpretazione di Still Got The Blues, un omaggio di Clapton a Gary Moore, con l’amico Steve Winwood a fare i numeri all’organo: versione manco a dirlo da applausi, lunga, profonda e sentita. Grandissima classe. Old Sock cresce brano dopo brano: è la volta della celeberrima Goodnight Irene (di Leadbelly, ma che ve lo dico a fa?), solare, fluida, caraibica, ispiratissima, in breve una delle più riuscite. La migliore del disco? Decisamente sì. Un capolavoro assoluto nella discografia di Clapton, sentire per credere. L’album si chiude con Your One And Only Man di Otis Redding, ancora reggae, Every Little Thing, il secondo brano originale del disco, molto bella anche questa, una ballata anni settanta cantata benissimo da Eric (ma il coro di bambini finale ce lo poteva risparmiare), e Our Love Is Here To Stay, dei fratelli Gershwin, jazzata e raffinata come da copione.

Che altro dire…uscite e compratelo!!!

Marco Verdi