Tra Caraibi E Tradizione, Due Modi Diversi Di Celebrare Il Natale! Jimmy Buffett – ‘Tis The SeaSon/Loretta Lynn – White Christmas Blue

jimmy buffett 'this the season

Jimmy Buffett – ‘Tis The SeaSon – Mailboat CD

Loretta Lynn – White Christmas Blue – Legacy/Sony CD

Da sempre, soprattutto in America, con l’avvicinarsi delle feste natalizie è prassi diffusa pubblicare dischi a carattere stagionale: ormai quasi tutti i big, ed anche i meno big, hanno nella loro discografia almeno un album od un singolo che celebra la festività più importante dell’anno. Anche in questo 2016 non mancano certo le uscite a tema, ed io ho scelto due lavori molto diversi tra di loro, ma con il comune denominatore della qualità.

Jimmy Buffett, cantautore molto popolare negli USA (un po’ meno da noi), già nel 1996 aveva pubblicato un disco natalizio, il riuscito Christmas Island, che mescolava classici e brani nuovi con il suo tipico stile solare e festoso, con versioni personali di celeberrimi standard, come una Jingle Bells decisamente caraibica ed una Run, Rudolph, Run di chiaro stampo rock’n’roll: a distanza di vent’anni Jimmy dà un seguito a quel disco, con questo ottimo ‘Tis The SeaSon (un gioco di parole tra il significato normale della frase, “questa è la stagione”, e “questo è il figlio del mare”), un lavoro assolutamente riuscito e che riesce ad intrattenere in maniera piacevole per quaranta minuti, nel più tipico stile del nostro: l’unica cosa brutta, anzi kitsch, è la copertina (non è la prima volta per lui, ma quei due poveri cagnolini con le corna di renna finte non si possono proprio vedere). Nelle dodici canzoni dell’album Jimmy è come al solito accompagnato dalla fedele Coral Reefer Band, un ensemble di musicisti strepitosi che ormai formano un tutt’uno con il musicista dell’Alabama (ma “adottato” dalla Florida), tra i quali spiccano il tastierista e direttore musicale Michael Utley, il chitarrista e cantautore a sua volta Mac McAnally e lo steel drummer Robert Greenidge, l’elemento che maggiormente caratterizza il suono del gruppo in chiave esotica. ‘Tis The SeaSon, che ha dalla sua anche un suono eccellente, è strutturato nello stesso modo di Christmas Island, cioè con classici assodati del periodo festivo, sia contemporanei che del passato, e brani scritti per l’occasione: il risultato è molto (ma molto) piacevole, direi anche in maniera maggiore rispetto al suo predecessore di vent’anni fa. Jimmy alterna sonorità caraibiche ad altre più vintage, ma mantenendo il livello alto e riuscendo a fare di questo album un qualcosa che va aldilà della pura celebrazione del Natale.

Tra gli evergreen troviamo una splendida Jingle Bell Rock, dalla deliziosa atmosfera tra il country e l’hawaiano, con il nostro decisamente rilassato e perfettamente a suo agio, così come bellissima è Rudolph The Red-Nosed Reindeer, rivisitazione che parte come un country tune degli anni trenta e termina come una irresistibile jam acustica da veri pickers. Tra i brani più o meno contemporanei abbiamo la scherzosa All I Want For Christmas Is My Two Front Teeth, portata al successo nel 1948 da quel pazzo scatenato di Spike Jones, con un arrangiamento d’altri tempi molto raffinato ma nel contempo scanzonato (e d’altronde Jimmy è un maestro nel coniugare ottima musica e divertimento), mentre Rockin’ Around The Christmas Tree (Brenda Lee) è ritmata, swingata e decisamente coinvolgente, una goduria per le orecchie; ho lasciato per ultimo tra i brani “attuali” la canzone che in realtà apre il CD, Wonderful Christmastime di Paul McCartney, in quanto è quella che mi convince meno, non per colpa di Buffett che anzi fa di tutto per darle un sapore solare ed “isolano”, ma perché il brano in sé non è certo tra i migliori del buon Macca. Poi ci sono quattro pezzi originali, a partire da Drivin’ The Pig, tipico Buffett-sound al 100%, ritmata, solare, fluida ed orecchiabile, ma nello stesso tempo suonata alla grande da una band formidabile; The Twelve Days Of Christmas (Parrothead Verison) è l’adattamento con parole attinenti al “mondo Buffett” di una nota filastrocca natalizia, forse più idonea per il pubblico americano, mentre What I Didn’t Get For Christmas (scritta da McAnally) è un rockin’ country/caraibico molto godibile e diretto, ancora una volta suonato splendidamente, e Santa Stole Thanksgiving è uno squisito swing “made in Buffett”, quindi solare, limpido e di grande piacevolezza. Il disco termina con quattro classici: Mele Kalikimaka (Merry Christmas in hawaiano, gli deve piacere proprio, era anche su Christmas Island, anche se qui è presente il virtuoso dell’ukulele Jake Shimabukuro), altro pezzo dall’arrangiamento delizioso, una Winter Wonderland fin troppo soave e leggera, il noto standard Baby, It’s Cold Outside, un duetto con Nadirah Shakoor in una versione country-pop molto gradevole, per finire con la famosissima White Christmas, soffusa e raffinata come da prassi ma con un tocco caraibico che le innumerevoli versioni precedenti non avevano mai avuto.

loretta lynn white christma blue

Loretta Lynn è indiscutibilmente la regina assoluta della musica country, forse più ancora di Patsy Cline (della quale è tra l’altro coetanea), in quanto la povera Patsy ci ha lasciato ormai da decenni, mentre Loretta, a 84 anni suonati, è ancora viva, vegeta e particolarmente attiva. E’ infatti suo uno dei migliori album country del 2016, quel Full Circle che l’ha vista ancora in grandissima forma nonostante l’età http://discoclub.myblog.it/2016/03/11/nuova-promettente-artista-talento-loretta-lynn-full-circle/ , una splendida cantante in possesso di una voce ancora formidabile e per nulla segnata dagli anni, un disco dalle sonorità classiche ma asciutte, con un gruppo di musicisti non numeroso e che ha rivestito le canzoni del disco con pochi orpelli, facendo risaltare al meglio la grande voce della Lynn, con la produzione attenta ed essenziale di John Carter Cash, figlio di Johnny e June. White Christmas Blue proviene dalle stesse sessions che hanno originato Full Circle e. come nel caso di Buffett, anche questo è il secondo album natalizio per Loretta, anche se il precedente, Country Christmas, risale al lontano 1966. E White Christmas Blue è un altro scintillante dischetto di pura country music come si usava fare una volta, cantata in maniera splendida (e qui non c’erano dubbi), ma suonata ancora in modo pulito e diretto, senza sovrincisioni e pesanti orchestrazioni, solo Loretta, qualche chitarra (tra cui i veterani Shawn Camp e Randy Scruggs), una steel (Paul Franklin), un paio di violini, basso e batteria. Musica pura, honky-tonk che più classico non si può e, ripeto, la voce ancora cristallina della “Coal Miner’s Daughter”.

White Christmas Blue comprende dodici brani, di cui nove sono standard e tre scritti da Loretta, il primo dei quali è la title track, che dà splendidamente avvio al CD, una country song limpida e purissima, suono spettacolare e melodia di grande impatto, subito seguita da un rifacimento della mossa e swingata Country Christmas, ancora bellissima e con Loretta che canta come se avesse ancora trent’anni; il trittico di brani originali si chiude con la saltellante To Heck With Ole Santa Claus (anche questa era sul disco di cinquant’anni fa), un pezzo di country come oggi non se ne fanno più (e che voce). Ma il disco è una goduria anche nei brani più famosi, tutti suonati, ripeto, in maniera fantastica: Winter Wonderland è riproposta con classe sopraffina (anche meglio di quella di Buffett), così come l’intensa Away In A Manger, suonata in punta di dita e cantata, tanto per cambiare, stupendamente; Blue Christmas è un honky-tonk scintillante, con ottimi interventi di piano e steel, Frosty The Snowman è un vivace swing d’altri tempi, mentre Oh Come, All Ye Faithful (che sarebbe il nostro Adeste Fideles), da sempre una delle più belle canzoni natalizie, brilla in uno strepitoso arrangiamento ancora honky-tonk, con un’interpretazione da pelle d’oca, Lascio a voi il piacere di scoprire le tre canzoni che seguono, un trittico che mette in fila i tre pezzi stagionali forse più conosciuti in assoluto (Jingle Bells, White Christmas e Silent Night), tutte rilette con classe e bravura immense, ma anche con una freschezza incredibile, per chiudere con ‘Twas The Night Before Christmas, un toccante talkin’ solo per voce e chitarra.

Non vi dico ancora Buon Natale dato che siamo ancora a Novembre, ma buon divertimento con la coppia Buffett/Lynn, questo sì.

Marco Verdi

Catalogare Sotto Jam Band, Ma Di Quelle Anomale. ALO – Tangle Of Time

alo tangle of time

ALO – Tangle Of Time – Brushfire/Universal Records 

Gli ALO (Animal Liberation Orchestra) sono una jam band anomala, fin dalla discografia: secondo alcuni questo è il nono album di studio della band (più una quantità incredibile di EP e alcune antologie e Live), contando anche i primi titoli pubblicati nel periodo “indipendente” del gruppo californiano e forse conteggiando per due volte Fly Between Falls, uscito prima per la loro etichetta Lagmusic Records e poi ristampato, con aggiunte, dalla Brushfire di Jack Johnson. Proprio con il compagno di etichetta e corregionale californiano, gli ALO condividono la passione per un rock piacevole, solare, con melodie scorrevoli, a tratti influenzate dalla musica caraibica, ma anche dal country e quella patina da jam band, che li avvicina ai Phish più leggeri, agli String Cheese Incident, i primi Rusted Root, ma anche la musica dei cantautori westcoastiani più disincantati e dallo spirito blue-eyed soul. L’attitudine jam viene estrinsecata soprattutto dal vivo, ma anche nei dischi in studio, a turno, i vari musicisti: Zach Gill, leader indiscusso, tastierista, ma pure a banjo, ukulele, fisarmonica (e una pletora di altri strumenti), Dan Lebowitz, alle prese con tutti i tipi di chitarra, e la sezione ritmica di Steve Adams e Dave Brogan, che oltre ai loro strumenti, basso e batteria, sono impegnati parimenti con tastiere e percussioni inusuali, tutti costoro si prendono i loro spazi di improvvisazione, all’interno di canzoni che però raramente superano i cinque minuti di durata, in questo Tangle Of Time, solo tre pezzi, Simple Times, Coast To Coast e The Fire I Kept, superano di poco quel limite.

Però l’idea è quella: per esempio The Ticket, la più lunga, con le sue chitarrine choppate e i suoi ritmi ha un qualcosa del Paul Simon “sudafricano”, ma anche del pop più commerciale dei Vampire Weeekend, raffinato e da classifica, con ampi strati di tastiere, piacevoli melodie e tratti di light funky, per esempio nell’uso di piano elettrico, synth e chitarre “trattate”, nella lunga coda strumentale che potrebbe ricordare anche i Talking Heads più leggeri. Altrove, per esempio in Coast To Coast, firmata dal batterista Dave Brogan, sembra di ascoltare gli Steely Dan anni ’70 o lo Stevie Winwood più scanzonato, mentre nell’iniziale There Was A Time fa capolino quel sound caraibico evocato prima, miscelato con sprazzi di musica della Louisiana, grazie alla fisa di Zach Gill che poi lascia spazio pure alla chitarra di Lebowitz che ci regala ficcanti e limpidi licks di stampo californiano, per poi salire al proscenio in Push, il brano che porta la sua firma e che è un brillante pop-rock dal suono avvolgente, grazie anche alle raffinate armonie vocali del gruppo.

Not Old Yet del bassista Steve Adams, che se la canta, è un’altra confezione sonora ben arrangiata, vagamente bluesy e sudista e Sugar On Your Tongue, sempre con l’accordion di Gill in evidenza, mescola leggeri sapori e tempi zydeco con solari armonie da cantautore alla Jimmy Buffett e spruzzate di chitarra che possono ricordare i Grateful Dead o i Phish di studio, quelli più rifiniti e meno improvvisati, per quanto…Non manca la ballata romantica, molto sunny California, come nel caso di Simple Times, dove si apprezza la bella voce di Zach Gill, che non fa rimpiangere certe cose degli Eagles o del James Taylor di metà carriera, con un pianino insinuante che guida le danze e una pedal steel che si “lamenta” sullo sfondo. Keep On, di nuovo di Adams, è molto leggerina e vagamente danzereccia e trascurabile, con Undertow che viaggia su un blue-eyed soul scuola Boz Scaggs, Marc Jordan, Bill LaBounty, Robbie Dupree, lo stesso Donald Fagen, “pigro” e raffinato, mentre A Fire I Kept è una ulteriore variazione su questi temi musicali, giocati in punta di strumenti, forse poca sostanza ma notevole classe ed eleganza formale. Chiude la breve, acustica e sognante Strange Days, altra confezione sonora apprezzabile per la sua complessità, tra dobro e tastiere che ben si amalgamano con il resto della strumentazione e che piacerà agli amanti del pop e del rock più raffinato, come peraltro tutto il resto del disco.

Bruno Conti    

A 76 Anni Il Suo Primo Album Di Duetti. Judy Collins – Strangers Again

judy collins strangers again

Judy Collins – Strangers Again – Wildflower/Cleopatra Records 

Prima del parlare del disco, che a scanso di equivoci, lo dico subito, è molto piacevole, due parole sui miei “amici” della Cleopatra, una etichetta che, come sapete, amo in modo particolare. Perché hanno pubblicato una Deluxe edition del CD, come ho scoperto girando in rete, ma disponibile solo per il download digitale? Qualcuno potrà obiettare che questo Strangers Again dovrebbe essere un album di duetti solo con voci maschili, mentre nelle tre bonus c’è un brano cantato con Joan Baez (oltre ad uno con Stephen Stills e un altro con i Puressence), ma il discorso dovrebbe valere pure per la versione digitale, anche se a ben guardare, essendo la Cleopatra, le tre canzoni erano già uscite tra il 2011 e il 2012 su altri dischi. Comunque, piccole polemiche a parte, l’album è tipico della discografia di Judy Collins: arrangiamenti sontuosi  e complessi, quasi barocchi, che a tratti sfociano anche in sonorità orchestrali, mescolando il gusto per il vecchio folk delle origini, quando “Judy Blue Eyes” scopriva e interpretava, a fianco di molti classici della canzone popolare, le prime canzoni di Joni Mitchell, Leonard Cohen, Stephen Stills, Sandy Denny, ma anche Dylan, Beatles, Randy Newman, mantenendo comunque anche un proprio contributo a livello compositivo, non copioso ma sempre di buona qualità. Anche nell’ultimo album Bohemian, pubblicato nel 2011, a fianco di brani di Joni Mitchell, Jacques Brel (altro grande amore), Woody Guthrie, Jimmy Webb, c’erano quattro canzoni firmate dalla Collins, e tre duetti, con Ollabelle, Kenny White Shawn Colvin, un arte che la nostra Judy ha sempre frequentato ma che per la prima volta viene a completa fruizione in questo Strangers Again.

La scelta dei compagni di avventura è quanto mai eclettica, ci sono tutti i tipi di cantanti, noti, ignoti ed emergenti e sono affrontati tutti i generi musicali, con canzoni celeberrime di grandi autori ed alcune recenti o scritte appositamente per l’occasione. La Collins si produce da sola, con l’aiuto di molti co-produttori ed arrangiatori, da Buddy Cannon a Katerine De Paul, Mac McAnally e Mickey Raphael. Alan Silverman, Sven Holcomb e altri, che alternano quel suono che si diceva all’inizio, tra un pop-rock, vogliamo chiamarlo soft rock, e un sound orchestrale, a tratti malinconico, a tratti anche pomposo, con svolte quasi obbligate nel songbook della grande canzone americana, di Leonard Bernstein e Sephen Sondheim. Non è certo un capolavoro assoluto, ma chi vuole ascoltare una delle più belle voci della canzone americana, ancora pura e cristallina a tratti, a dispetto del tempo che passa, qui troverà pane per i propri denti e anche alcuni artisti poco conosciuti che magari vale la pena di investigare. Partiamo proprio da uno di questi ultimi: Ari Hest è un nuovo (diciamo poco conosciuto, visto che ha già pubblicato una decina di album), cantautore di New York, che apre le danze con la title-track Strangers Again, una bella ballata pianistica mid-tempo avvolgente, dove si apprezza anche la voce di Hest che ha qualche punto in comune con quella di Nick Drake, anche a livello compositivo, con quei toni melanconici ed autunnali. Amy Holland è un’altra cantautrice newyorkese, con soli tre album pubblicati in 35 anni di carriera, ma la sua Miracle River è un’altra soffusa ballata elettroacustica che unisce la voce cristallina della Collins con il baritono di Michael McDonald, con risultati piacevoli anche se a tratti zuccherosi, che è il limite di McDonald quando non si dedica al soul o al rock.

Belfast To Boston è un brano di James Taylor, tratto da October Road del 2002, una bella canzone di stampo folk-rock, con Marc Cohn che fa le veci di Taylor in modo egregio, è sempre un piacere ascoltarlo. Anche When I Go, firmata dai poco conosciuti Dave Carter e Tracy Grammer https://www.youtube.com/watch?v=YLXpaTu3qEI , è un eccellente veicolo per ascoltare l’accoppiata con Willie Nelson, altro grande esperto dell’arte del duetto, bella canzone, tra country, folk e derive quasi celtiche. Make Our  Garden Grow, dall’opera Candide di Leonard Bernstein, presenta un altro strano accoppiamento, questa volta con Jeff Bridges, che non è certo un virtuoso vocale e un po’ si perde nei florilegi orchestrali del brano, ma alla fine se la cava egregiamente, anche se il brano è “molto” crossover, quasi Bocelliano, più per amanti del musical che del rock. Feels Like Home è una delle canzoni più belle di Randy Newman, che però per non volendo sfigurare a livello vocale con il soprano della Collins ha mandato avanti a sostituirlo Jackson Browne, ed il risultato è uno dei brani migliori di questo CD. Thomas Dybdahl è un altro di quei nomi che vi dicevo varrebbe la pena di scoprire, cantautore raffinatissimo norvegese, ci propone, con un falsetto particolare, la sua From Grace, altro brano composito, molto adatto alle corde vocali della Collins. Di Bhi Bhiman vi avevo già parlato da queste pagine virtuali http://discoclub.myblog.it/2012/09/09/un-musicista-dallo-sri-lanka-questo-mancava-bhi-bhiman-bhima/, e si rivela partner ideale per la rilettura di uno dei pochi brani di Leonard Cohen che Judy Collins non aveva mai inciso, una sontuosa versione di Hallelujah, e non aggiungo nulla, anzi, bellissima!

Una rara concessione a sonorità più rock, con chitarre elettriche quasi spiegate, viene utilizzata per una energica versione di un classico di Ian Tyson Someday Soon, cantata con Jimmy Buffett, che per l’occasione rispolvera il sound country-rock delle origini, deliziosa. Aled Jones è un cantante e presentatore gallese, popolarissimo nel Regno Unito, adatto per il tuffo “diabetico” in una Stars In My Eyes, di nuovo con un alto tasso di zuccheri, diciamo non è tra le mie preferite del disco. Meglio, anche se siamo sempre più o meno da quelle parti,  pop orchestrale estratto dai grandi Musical, per Send In The Clowns, il pezzo di Stephen Sondheim che però è stato anche il più grande successo discografico di Judy Collins nel lontano 1975, qui cantata insieme a Don McLean, un altro che ha sempre saputo mescolare il folk e la canzone d’autore con i brani scritti per Perry Como, il diavolo e l’acqua santa. E per concludere un altro brano scritto da un cantautore recente come Glen Hansard, nome peraltro già conosciuto ed emergente che ha un nuovo disco in uscita in questi giorni, Races è un altro dei brani più belli di questo album con le due voci che si amalgamano alla perfezione. Qui finisce la versione fisica e ci sarebbero i tre bonus della versione digitale, con la cover di Last Thing on My Mind di Tom Paxton, cantata con Stephen Stills, particolarmente bella.

Mi sono dilungato più del solito ma era l’occasione per parlare di una delle più grandi cantanti della musica americana, che almeno di nome tutti conoscono perché era il soggetto di una delle canzoni più conosciute della storia del rock, Suite:Judy Blue Eyes era infatti dedicata a lei. Ci sono sicuramente album più belli nella discografia della Collins, penso a Wildlowers, Who Knows Where The Time Goes, Whales And Nightingales, o anche i primi 5 acustici e folk, in anni recenti i tributi a Leonard Cohen e ai Beatles, oppure i tanti Live usciti negli ultimi anni, per festeggiare i 50 anni di carriera, ma questo Strangers Again conferma che la classe non è acqua.

Bruno Conti

La Classe Non E’ Acqua! James Taylor – Before This World

james taylor before this world cd standard james taylor before this world

James Taylor – Before This World – Concord/Universal CD – Deluxe CD + DVD – Super Deluxe 2CD + DVD + Book

Pur non essendo mai stato un suo grandissimo fan (mi mancano anzi diversi suoi album) a me James Taylor è sempre stato simpatico. Sarà per il suo stile garbato, sarà per la sua espressione costantemente rilassata, ma l’ho sempre visto come il classico vecchio amico che, in caso di bisogno, per te c’è in ogni momento, ha sempre una birra in fresco da offrirti e non ti fa mai mancare una parola di conforto per farti sentire meglio nei momenti difficili. Magari non sarà mai l’amico con cui uscire a fare bisboccia, divertirsi un mondo ma anche rischiare di finire la serata al commissariato (per quello ci sono i Rolling Stones), ma un punto fermo della tua vita a cui rivolgerti quando hai bisogno di sicurezze. Nei paesi anglosassoni uno come Taylor è definito acquired taste, gusto acquisito, cioè appartenente a quella schiera di artisti che nella loro carriera non hanno mai cambiato di una virgola il proprio suono, difficilmente fanno il disco sotto la media e comunque sai esattamente cosa aspettarti da loro, ma se sono ispirati potrebbero anche regalare la classica zampata d’autore: un altro valido esempio potrebbe essere Van Morrison, il cui standard è però sempre stato molto più alto.

Before This World è il diciassettesimo album di studio di James, ed il primo di materiale originale a ben dodici anni di distanza da October Road (nel mezzo c’è stato un ottimo disco di covers + un EP), e giunge quasi a sorpresa, in quanto si pensava che Taylor si fosse praticamente ritirato, apparendo soltanto per qualche sporadica tournée. Invece, dopo un attento ascolto, devo dire che Before This World è meglio di October Road (che pure non era male), e si colloca senza fatica tra i lavori più riusciti del nostro: James si dimostra in forma, per nulla arrugginito, la voce sempre uguale, e la sua capacità di scrivere canzoni semplici ma non banali (il suo marchio di fabbrica) è rimasta intatta.

Oltre a James, che si accompagna come al solito alla chitarra, troviamo un piccolo gruppo di musicisti con la “m” maiuscola, che rispondono ai nomi di Michael Landau alle chitarre, Jimmy Johnson al basso, Steve Gadd alla batteria, Larry Goldings alle tastiere ed Andrea Zonn al violino, gente che ha suonato con chiunque e che è in grado di fornire un tappeto perfetto e di classe alle composizioni di James, con la ciliegina sulla torta della produzione di Dave O’Donnell (uno che ha lavorato con Ray Charles, Herbie Hancock ed Eric Clapton), che dona al disco un suono scintillante. Il pubblico americano ha apprezzato questo ritorno, mandandolo direttamente al primo posto della classifica di Billboard, prima volta che James ottiene un risultato simile, non male dopo più di 45 anni di onorata carriera.

Il CD si apre con Today Today Today, una ballata gentile e leggermente country sia nella melodia che nell’arrangiamento (il violino è protagonista), con la voce limpida ed ancora giovane del nostro a predisporre subito al meglio l’ascoltatore. La lenta e pianistica You And I Again (che si può leggere anche come James che torna a rivolgersi al suo pubblico) è un’altra canzone tipica, delicata, raffinata e molto piacevole, con accompagnamento perfetto ed un’atmosfera anni settanta; molto bella Angels Of Fenway, una sorta di tributo ai Boston Red Sox per i quali evidentemente James fa il tifo, un pezzo cadenzato e con un motivo decisamente orecchiabile.Stretch Of The Highway ha un delizioso sapore errebi, ed il ritornello solare richiama i brani più melodici di Jimmy Buffett (o forse è il contrario, dato che il buon Jimmy ha sempre indicato Taylor come una delle sue maggiori influenze) https://www.youtube.com/watch?v=5xyZhyyRZd0 , Montana è un’altra delicata ballad come solo James sa scrivere, pochi accordi, pochi strumenti, ma grande classe, un brano che rimanda a decenni fa, quando la California era il centro mondiale di un certo cantautorato (lo so che Taylor è nativo della East Coast, ma il suo stile si adattava benissimo al giro di songwriters che bazzicavano dalle parti di Los Angeles). La vivace Watchin’ Over Me è ancora spruzzata di country, con un bell’interplay vocale tra il nostro ed i suoi backing singers; Snowtime è una delle più riuscite, una ballata dal sapore tra il latino ed il caraibico, che avvicina ancora James a Buffett, specialmente nel refrain.

L’intensa e profonda Before This World vede la partecipazione di Sting come seconda voce, ed il brano si fonde in medley con la squisita Jolly Springtime, quasi dal gusto irish, mentre la solida Far Afghanistan, dall’incedere drammatico, è una delle rare escursioni di James nei temi di attualità https://www.youtube.com/watch?v=upw-ox3wkW0 . Chiude l’album una versione del classico traditional Wild Mountain Thyme (conosciuta anche come Will You Go, Lassie, Go), che Taylor rivolta come un guanto per adattarla al suo stile pacato, facendola diventare quasi una sua canzone.

Bentornato, vecchio amico.

Marco Verdi

P.S: l’album esce sia in versione “normale”, sia con accluso un DVD con il making of, sia con la classica edizione Super Deluxe (e super costosa) che aggiunge al tutto un secondo CD con cinque pezzi extra ed un librone da collezione.

P.S. del P.S: per confondere ancora un po’ le idee, la catena americana Target ha in esclusiva una versione del CD con tre brani aggiunti, che però non fanno parte dei cinque della Super Deluxe Edition. Allegria …

Grande Attore, Ma Anche Musicista Coi Fiocchi ! Jeff Bridges & The Abiders – Live

jeff bridges abiders live

Jeff Bridges & The Abiders – Live – Mailboat Records

Mi viene da pensare che senza il film Crazy Heart, oggi il sottoscritto non avrebbe nel lettore questo live di Jeff Bridges & The Abiders. Jeff Bridges, noto attore americano ha sempre avuto una grande passione per la musica, e nel lontano 2000 aveva persino fatto un disco a suo nome Be Here Soon (sofisticate riletture di brani rock, country e soul, con l’aiuto di Michael McDonald e David Crosby), poi la colonna sonora di Crazy Heart lo ha definitivamente consacrato: nel film (che gli ha fruttato l’Oscar come miglior attore protagonista) Jeff canta molto bene canzoni come Hold On To You, Somebody Else, Fallin’ & Flyn’, I Don’t Know e Brand New Angel, e T-Bone Burnett (che musicalmente non è secondo a nessuno), ha capito le potenzialità di Bridges, gli ha trovato la band perfetta, poi insieme hanno trovato le canzoni, e il risultato è stato l’ottimo album omonimo Jeff Bridges (11). E siccome come dice un famoso detto “l’appetito vien mangiando”, arriva al mio ascolto anche questo Live (che non è proprio recentissimo, essendo uscito il 30 Settembre dello scorso anno), registrato durante un caldo concerto estivo al Red Rock Casino di Las Vegas, un totale di quattordici brani, in buona parte pescati dal disco d’esordio e dal film, più alcune cover scelte dal repertorio dei Byrds, Tom Waits, Townes Van Zandt, Creedence Clearwater Revival, e autori più recenti come Stephen Bruton e Greg Brown, CD pubblicato dalla Mailboat Records, l’etichetta di Jimmy Buffett.

Jeff Bridges & the Abiders Perform At The El Rey Theatre jeff-bridges-abiders

Jeff (capelli e barba bianca d’ordinanza) https://www.youtube.com/watch?v=_ct5tYkHrqY  voce, chitarra e tastiere, sale sul palco con i suoi Abiders che sono Chris Pelonis chitarra e tastiere, Bill Flores pedal steel e chitarra, Randy Tico al basso e Tom Lackner alla batteria e percussioni, iniziando con il blues incalzante di Blue Car (che arriva dalla penna di Greg Brown) cantato alla perfezione, seguito dalle atmosfere di frontiera di I Don’t Know, una ballata tra rock e country come What A Little Bit Of Love Can Do https://www.youtube.com/watch?v=oQ1lJFftyyo , la romantica Maybe I Missed The Point e la dolcissima serenata texana Exception To The Rule (del suo amico cantautore John Goodwin)  https://www.youtube.com/watch?v=nRt3Oh2fhlU , la lunga She Lay Her Whip Down con un bel lavoro della chitarra“slide”, andando a chiudere la prima parte omaggiando John Fogerty, con una pimpante e gioiosa Lookin’ Out My Back Door. Dopo una pausa e una bella bevuta di birra, si ritorna sul palco con Jeff che declama nuovamente una bellissima What A Little Bit Of Love Can Do, sorretta da batteria, pedal steel e un crescendo di chitarre, chitarre che “galoppano” anche nella successiva Van Gogh In Hollywood, per poi passare ad una delicata cover di Townes Van Zandt To Live Is To Fly (era in High, Low And In Beetwenhttps://www.youtube.com/watch?v=9J-yQuCbPjI , ad una campestre Fallin’ & Flyin’ recuperata dalla colonna sonora di Crazy Heart https://www.youtube.com/watch?v=TGJm72H31do , una inaspettata Never Let Go di Tom Waits (con Jeff al piano), per una ballata che profuma d’Irlanda (che è sempre nel mio cuore), rispolverando pure la famosissima So You Want To Be A Rock’n’Roll Star dei Byrds https://www.youtube.com/watch?v=3vT1ZsE7B6k  , chiudendo omaggiando un autore bravissimo ma poco conosciuto come il compianto Stephen Bruton (da sempre nel cuore di Jeff), con il ruspante blues di Somebody Else. Applausi!

JeffBridgesandtheAbiders jeff bridges live

Dopo il grande successo di Crazy Heart e il disco in studio prodotto da T-Bone Burnett, l’attore-cantante Jeff Bridges fa il disco che ha sempre sognato, un Live ruspante dove interpreta con il supporto di bravi musicisti, una sontuosa “setlist” di ballate, country e rock songs, cantate con una bella voce pastosa, per un CD che non ha scalato le classifiche, ma che potrebbe fare centro nel cuore degli amanti della buona musica. Sentire per credere!

Tino Montanari

P.S. Temo che stasera non vincerà nuovamente l’Oscar per il fim Il Settimo Figlio (che per fortuna non è neppure candidato), ma neanche il recente progetto, ambient e parlato, Sleeping Tapes, entrerà negli annali della musica, al di là dei suoi meriti filantropici!

Tra Le Migliori Jam Band In Circolazione. The String Cheese Incident – Song In My Head

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The String Cheese Incident – Song In My Head – SCI Fidelity Records

Si tratta del primo disco in studio da nove anni a questa parte, solo il quinto della loro discografia (live e collaborazioni a parte), esce per festeggiare il 20° Anniversario di attività degli String Cheese Incident ed è prodotto da Jerry Harrison, si proprio lui, quello dei Talking Heads! Elaboriamo partendo da questi dati. Dieci brani nuovi, o almeno mai registrati in studio in precedenza, visto che parecchi erano già stati testati in concerto in questi ultimi dieci anni. I nomi principali della band, per fortuna, sono i soliti: Bill Nershi, il leader, chitarrista e cantante, Michael Kang, mandolino, violino, chitarra e anche lui vocalist, Kyle Hollingsworth, alle tastiere (come vedremo molto presenti in questo disco) e al canto, sezione ritmica con Keith Moseley al basso, e all’armonica quando serve nei brani country, Michael Travis, batteria e Jason Hann alle percussioni, ospite al banjo Chris Pandolfi.

Globalmente formano una delle migliori Jam bands presenti sul territorio americano. Diciamo che in questa ultima decade Jerry Harrison non si è dannato l’anima con il suo lavoro di produttore: ricordiamo l’album dei Rides lo scorso anno, i vari dischi di Kenny Wayne Shepherd antecedenti all’ultimo e il mega successo dei Lumineers, ma in questo disco si sente la sua impronta. In Song In My Head troviamo dieci brani, tutti abbastanza lunghi, ma non lunghissimi, tra i quattro e i sette minuti la durata, e tutti completamente diversi come genere l’uno dall’altro: il bluegrass ed il country che erano due degli elementi distintivi da cui partivano le idee per le lunghe jam presenti nei loro concerti e relativi dischi dal vivo, oltre a quelli “normali” qualche decina di titoli nella serie On The Road, sembrano abbastanza scomparsi, a favore di un approccio più eclettico e ritmico, comunque sempre presente nelle variazioni rock, psichedeliche, progressive e jazzate della loro carriera.

Anche se per la verità quando una infila il CD nel lettore parte una Colorado Blue Sky, tutta banjo, mandolini, chitarre, armonie vocali, puro bluegrass/country, sembrano i Poco, se non i Dillards o qualsiasi grande band country-rock dei primi anni ’70, l’organo di Hollingsworth in agguato, ma poi parte l’improvvisazione, i migliori Grateful Dead sono dietro l’angolo, le chitarre elettriche di Nershi (che firma il brano) e Kang disegnano linee strumentali di grande fascino ma anche virtuosismi a iosa, senza perdere di vista la quota acustica e vocale, entrambe curatissime, un inizio fantastico Poi parte Betray The Dark, firmata da Michael Chang, e ti viene da controllare il lettore, un attimo di distrazione e ho infilato Abraxas o Santana 3 nel lettore? Con Santana, Shrieve e Gregg Rolie, più tutti i percussionisti indaffaratissimi! No, confermo, sono proprio gli String Cheese Incident e il brano è pure molto bello, con l’aspetto ritmico della migliore Santana Band molto presente, e anche l’assolo di organo di Hollingsworth bellissimo, non ne sentivo uno così coinvolgente da quei tempi gloriosi, una meraviglia e poi quando partono le chitarre, una vera goduria https://www.youtube.com/watch?v=j5cf6Rsag4k . A questo punto cosa devo aspettarmi per il terzo brano? Let’s Go Outside, è un bel funky-rock alla Sly & Family Stone o per restare in tempi moderni tipo Vampire Weekend, chitarre choppate e tastiere analogiche si fanno strada tra il notevole lavoro dei vari cantanti prima del breve intermezzo quasi radiofonico della parte centrale, ma con una raffinatezza che è quasi sconosciuta nel pop moderno, e qui si vede lo zampino di Harrison. Song In My Head parte acustica ma poi diventa un boogie-rock degno di una grande jam band quale gli SCI sono, dal vivo dovrebbe fare sfracelli, con tastiere e chitarre pronte a sfidarsi con le evoluzioni vocali del gruppo.

Struggling Angel porta un ulteriore cambio di atmosfere, sembra un brano degli Eagles più country, quelli di Desperado o On The Border, con tanto di armonica. A questo punto cosa dobbiamo aspettarci, i Talking Heads? Partendo dai ritmi caraibici che ricordano certe cose sempre dei Vampire Weekend o del Paul Simon più scanzonato, ma anche un pizzico di Jimmy Buffett e un giro di basso irresistibile, Can’t Wait Another Day ci porta da quelle parti, ma ci arriviamo lentamente e nella successiva Rosie, che potrebbe uscire indifferentemente da Fear of Music (I Zimbra) dei Talking Heads o da qualche ritmo afro alla Fela Kuti, con densi strati di tastiere e percussioni https://www.youtube.com/watch?v=2gXx50gy8_M . In mezzo c’è So Far From Home, un pezzo rock divertente ma più scontato, non male comunque, con i soliti tocchi country-bluegrass tipici del loro stile, ideali per le improvvisazioni dal vivo, ma organo e chitarra “viaggiano” anche nella versione in studio https://www.youtube.com/watch?v=Xl5FTMmCMrg . Stay Through, una collaborazione tra Chang e Jim Lauderdale (?), con il suo groove tra reggae e R&B mi convince meno, un po’ buttata lì, più Tom Tom Club che Talking Heads, non particolarmente memorabile anche se sempre ben suonata. Conclude la lunga Colliding, un’altra sferzata di rock ad alta densità percussiva, con tastiere, anche synth e chitarre molto trattate che aggiungono un tocco di modernità alle procedure del disco di studio, senza cedere troppo ad un suono commerciale. Nell’insieme piace, anche se non si può gridare al capolavoro, ma secondo me un bel 7 in pagella, e non in condotta, se lo merita. E il 24 giugno esce Fuego, il nuovo album di studio dei Phish!

Bruno Conti

Un Disco Bello E Meritorio! Neal McCoy – Pride: A Tribute To Charley Pride

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Neal McCoy – Pride: A Tribute To Charley Pride – Smith Entertainment CD

Charley Pride, nonostante abbia venduto in carriera tra album, singoli ed antologie più di settanta milioni di dischi, è oggi una figura piuttosto dimenticata, oltre che molto poco conosciuto al di fuori dell’America. Pride (ancora vivo ed attivo, il suo ultimo album, Choices, è di due anni fa) è sicuramente stato il più popolare nella ristretta cerchia di country singers di colore, e ha avuto il suo periodo di massimo splendore a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, mettendo in fila una serie impressionante di numeri uno nelle classifiche country dei 45 giri (ben ventotto dal 1969 al 1983).

Pride non era uno scrittore, cantava perlopiù brani di altri, ma tra i suoi successi ci sono vari classici del songbook americano, alcuni dei quali ritroviamo in questo Pride, ad opera del countryman di origine irlandese-filippina Neal McCoy. McCoy (nato McGaughey) è un musicista sulla scena da più di vent’anni, con già una dozzina di dischi alle spalle, che non ha mai conosciuto il successo da superstar (solo un paio di singoli al numero uno all’inizio degli anni novanta, ma il suo album meglio piazzato è arrivato “soltanto” al settimo posto), ma si è ritagliato comunque il suo spazio nel panorama country americano.

Pride è dunque il suo atto d’amore verso Charley Pride, e Neal dimostra il grande rispetto per l’artista afroamericano consegnandoci un ottimo tributo, un disco di classico country suonato e cantato come Dio comanda, senza concessioni al commerciale e con qualche ospite di vaglia a cantare con lui.

E le canzoni, inutile dirlo, sono molto belle.

Apre la notissima Is Anybody Goin’ To San Antone (conosciuta anche per le versioni di Doug Sahm da solo e con i Texas Tornados, ma Pride l’ha incisa prima di Doug): McCoy le toglie il sapore tex-mex ma le aggiunge un ritmo rock’n’roll, dandole nuova linfa e mettendo subito il disco sui binari giusti. It’s Just Me è una veloce country song alla quale la fisarmonica dà un sapore cajun, un brano molto gradevole impreziosito tra l’altro dal duetto con Raul Malo, che riesce a far suo il brano al punto da farlo sembrare opera dei Mavericks. Kiss An Angel Good Mornin’ vede Neal dividere il microfono con Darius Rucker, l’ex leader degli Hootie & The Blowfish ormai convertitosi al country: il brano è uno dei più belli del repertorio di Pride, e questa scintillante versione gli rende giustizia.

Kaw-Liga di Hank Williams la conosciamo tutti (Pride ha spesso inciso brani del grande Hank), una grande canzone qui resa con un arrangiamento quasi southern; You’re So Good When You’re Bad è un’elegante slow ballad, molto sofisticata e dal sapore soul: grande classe, non me l’aspettavo da McCoy. La pimpante It’s Gonna Take A Little Bit Longer sembra invece un classico brano alla Willie Nelson, grazie anche alla presenza dell’inconfondibile armonica di Mickey Raphael; Trace Adkins affianca Neal col suo vocione per una bella resa della toccante Roll On Mississippi, cantata dai due con il cuore in mano (e quindi, come direbbe Bergonzoni, con i polsini insanguinati). Just Between You And Me (di Jack Clement) è un godibilissimo honky tonk che più classico non si può; Mountain Of Love l’hanno fatta un po’ tutti (ricordo una bella versione di Johnny Rivers), e Neal la rifà in maniera grintosa, suonata e cantata da manuale.

L’album si chiude con la languida Someone Loves You Honey, forse un po’ troppo leccata, e con la viceversa solare e godibilissima You’re My Jamaica, tra country e Caraibi, un brano che anche Jimmy Buffett potrebbe fare suo senza difficoltà.

Bravo Neal: un bel disco, che ha anche il merito di farci riscoprire un artista di cui ci si ricorda di rado (per non dire mai).

Marco Verdi

Novità Di Agosto Parte IIb. Jimmy Buffett, Laura Veirs, Ricky Skaggs & Bruce Hornsby, Blue October, The Big E Tribute To Buddy Emmons, Santana & McLaughlin Live At Montreux

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Seconda parte delle novità in uscita domani 20 agosto.

Pur essendo Jimmy Buffett da sempre legato allo stereotipo della musica solare, estiva, marinara perfino, era dall’estate del 2004, dai tempi di Licence To Chill uscito nel mese di luglio, con l’eccezione, forse di qualche disco dal vivo, che non pubblicava un disco nel pieno della stagione estiva. Questo nuovo Songs From St. Somewhere viene distribuito come è consuetudine da parecchi anni dall’etichetta dello stesso Buffett, la Mailboat Records (e questo non ha impedito peraltro al Live del 2010 Encores di andare nella Top Ten di Billboard. Accompagnato come al solito dai tipi della Coral Reefer Band, questo è il 29° disco di studio in quasi 45 anni di onorata carriera discografica e con i Live e le antologie probabilmente si superano i 40, ma il buon Jimmy che quest’anno compie i 67 anni (nato di tutti i posti degli States, non in Florida o California come si potrebbe pensare, ma a Pascagoula, Mississippi) contiene a deliziare i suoi ammiratori con quella miscela di country, rock, musica caraibica e belle ballate che da sempre lo contraddistingue. Non piace a tutti e i vecchi album degli anni ’70, secondo chi scrive, erano di un’altra categoria, in ogni caso in questo Songs From St. Somewhere presenta anche un duetto con Toby Keith, Too Drunk To Karaoke, una versione in spagnolo di I Want Back To Cartagena cantata in coppia con la cantante latina Fannie Lu (che non so chi diavolo sia, magari è consociutissima e bravissima!) e canzoni con titoli come Somethin’ ‘Bout a Boat, Einstein Was A Surfer, Oldest Surfer On The Beach che la dicono lunga sui passatempi preferiti di Buffett che però ci porta anche in Rue De La Guitare e il disco contiene anche un brano come Soulfully che è stato paragonato a quelli di Leonard Cohen. Sto sentendo, bel disco e bella vita! Tra una tournée e l’altra. Parrotheads all’erta.

Laura Veirs è una bravissima cantautrice basata in quel di Portland, Oregon, all’estremo lembo nord-ovest degli Stati Uniti, una delle nuove mecche della musica americana, patria di Decemberists, Shins, Dandy Warhols, M Ward, Modest Mouse e in passato anche di Ellliott Smith e di Paul Revere, nonché di Tucker Martine, che oltre ad essere un ottimo produttore (oltre ai citati Decemberists, Neko Case, Beth Orton, Laura Gibson, Jesse Sykes, Erin McKeown e moltissimi altri, con una preferenza, ma non solo, per le voci femminili) è anche il marito della Veirs, ed insieme sfornano figli, il secondo nato a maggio di quest’anno. Nel nuovo disco, Warp and Weft, che esce il 20 agosto negli USA per la Raven Marching Band Records e la settimana prossima in Europa per la Bella Union, ed è il decimo della sua carriera, dopo Tumble Bee, dedicato alle canzoni per bambini, molto piacevole comunque, appaiono componenti vari dei My Morning Jacket (altri clienti del marito), il batterista Brian Blade, Rob Burger del Tin Hat Trio a tastiere e fisarmonica, Nate Query dei Decemberists, il violinista Jeremy Kittel, Karl Blau a basso e chitarra e, dulcis in fundo, Kd Lang e Neko Case (tra un paio di settimane esce anche il suo disco nuovo, dal titolo chilometrico).

Ricky Skaggs e Bruce Hornsby avevano già fatto un disco omonimo nel 2007 con la crème de la crème della musica country/bluegrass americana e ora ci riprovano con questo Cluck Ol’ Hen che esce per l’etichetta personale di famiglia di Ricky, la Skaggs Family Record. Ovviamente è indirizzato a chi ama il genere.

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Un gruppo, un tributo e un DVD della inesauribile serie di Live at Montreux per completare la lista delle uscite “interessanti” (per il Blog) della settimana.

I Blue October sono un gruppo, non conosciutissimo, che viene dal Texas, ma non fa blues, southern o country, ma della buona alternative music. Sway se ho fatto bene i conti, dovrebbe essere il decimo album della loro discografia (penso compresi live, Ep e un disco per la Motown), viene pubblicato dalla Down Records/Up/Up/Down Records, un nome complicatissimo per una etichetta. L’ispirazione oltre che dall’indie e dall’alternative rock viene anche dai Cure e dalla musica inglese ex new wave anni ’80 con chitarre e tastiere in evidenza, qualche ballata e anche reminiscenze dei vecchi Cars o di Peter Gabriel mi sembra traspaiono dal disco. Niente di trascendentale ma piacevole.

Buddy Emmons è stato (si è ritirato) uno dei più grandi pedal steel guitarisr della storia della musica country americana e questo, The Big E: A Salute To Steel Guitarist Buddy Emmons, è un tributo di alcuni dei suoi colleghi chitarristi, Paul Franklin, Steve Fishell, Dan Dugmore, Jay Dee Maness, Mike Johnson, Duane Eddy e molti altri alla sua lunga storia musicale. Ma…nel disco ci sono altrifior di ospiti: da Vince Gill alla accoppiata Rodney Crowell/Emmylou Harris, Willie Nelson, John Anderson, Greg Leisz, Albert Lee, Raul Malo, tanto per citare i più noti e non fare l’elenco delle Pagine Gialle. Anche questo è un disco per “specialisti” ma si ascolta con piacere, distribuzione Warner Music in America,

La serie Live At Montreux si arricchisce di un nuovo DVD (o Blu-Ray), quello che contiene la reunion tra Carlos Santana e John McLaughlin, si intitola Invitation To Illumination Live 2011 e segna la prima volta insieme sul palco per i due musicisti a 40 anni dall’uscita del classico Love, Devotion & Surrender. Esce per la Eagle Rock e mi piacerebbe ascoltare i due, nel brano Montreux Boogie, citare all’interno dello, La Grange degli ZZ Top. Giuro!

Anche per oggi è tutto, alla prossima.

Bruno Conti

La Buona Vecchia Songwriters’ Music – Mike Cross – Crossin’ Carolina

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Mike Cross – Crossin’ Carolina – MiMa-MuBo CD

Mike Cross è in giro da quasi quarant’anni (il suo primo disco, Child Prodigy, è del 1976), periodo nel quale ha inciso una quindicina di album, ma non ha mai conosciuto la benché minima ombra di successo. Per lui infatti, la definizione di cult artist calza a pennello: ottimo cantautore, eccellente chitarrista, con una vena che spazia dal country al blues al folk, si è conquistato una bella reputazione con le sue esibizioni dal vivo, creandosi un seguito di pochi ma fedeli ammiratori. http://www.mikecross.com/

Ha inciso per anni per la Sugar Hill, ma negli ultimi tempi sembrava essere sparito dalla circolazione (almeno discograficamente, dato che non ha mai smesso di esibirsi): Crossin’ Carolina, il suo nuovo album, esce un po’ a sorpresa, a ben tredici anni dalla sua ultima fatica, At Large In The World. Ma Mike non ha perso la sua vena: Crossin’ Carolina è un bel disco, suonato e cantato con estrema finezza, nel quale Cross ci dimostra che non ha perso la voglia di scrivere belle canzoni, né di suonarle con il suo piglio raffinato e gentile. Chitarrista sopraffino, predilige le atmosfere acustiche (anche se non disdegna qua e là qualche bella svisata elettrica), ed i suoi brani, tutti autografi tranne uno (Train 45, un traditional), si lasciano ascoltare con estremo piacere, in quanto fondono in maniera armonica diversi stili (come già detto, folk, country, blues e anche bluegrass, il tutto proposto con estrema classe).

Musica d’altri tempi, non è una sorpresa che non venda molto. L’album si apre benissimo con la title track, un irresistibile rock’n’roll di impronta elettroacustica, con Mike molto bravo alla resonator, gran ritmo e feeling in dosi massicce. In Streamside sono solo in tre (Mike, un bassista ed un batterista), ma il suono riempie la stanza come se fossero in dieci, una ballata acustica e gentile, cantata dal nostro con grande finezza; Hawkeye Sam è una folk song spedita nel ritmo ma suonata esclusivamente con strumenti acustici: Cross canta una melodia molto gradevole, che ha nei cromosomi qualcosa del Paul Simon più classico, quello senza contaminazioni. Planting By Moonlight è una gran bella canzone: sempre di base acustica, ha un motivo di prim’ordine vagamente anni sessanta, che fa emergere le qualità di Mike come songwriter. Black Cat Magic è puro country-blues, tempo veloce (quasi da bluegrass) con Mike, questa volta all’elettrica, che lascia scorrere le dita libere regalandoci momenti di puro piacere; Song For April è invece una classica ballata, molto bella nel suo incedere, che con un paio di strumenti in più ed un tamburo di latta, anche Jimmy Buffett potrebbe fare sua.

Huddie’s 12-String Blues è un godibilissimo blues acustico (dedicato a Leadbelly), con un azzeccato intervento all’elettrica di tale Patrick Cross (parenti?), mentre Runnin’ For The Rest Of My Life è dominata da una slide cooderiana, e la breve ed elettrica Guillotine Blues è, come da titolo, un blues affilato, peccato che duri poco più di due minuti. L’album si chiude con la già citata Train 45, un bluegrass vero e proprio che se non fosse cantato avrei potuto attribuire anche a John Fahey, e, come bonus, con una versione completamente acustica di Huddie’s 12-String Blues. Un gradito ritorno, un disco di gran classe per un musicista poco noto, e che probabilmente stava per essere dimenticato anche dai suoi estimatori.

Marco Verdi

Nonostante Tutte Le Difficoltà… Marshall Chapman – Big Lonesome

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Marshall Chapman – Big Lonesome – Tallgirl Records

Quando questa “ragazzona” (Tallgirl è il nome della sua etichetta ma si riferisce anche alla sua altezza, 6 ft 1 inch, circa 1 m e 85) inizia la sua carriera musicale intorno alla prima metà degli anni ’70, in quel di Nashville, Tennessee (The Music City) dove si era trasferita dalla natia Spartanburg, South Carolina il CD non era ancora stato inventato e in quella città nasceva il fenomeno della “Outlaw Country music”, per intenderci Kris Kristofferson, Waylon Jennings, Billy Joe Shaver che sono fra i primi compagni di avventura di Marshall Chapman.

Ma il suo esordio avviene con una major, la Epic Records nel 1977 con Me I’m Feelin’ Free e ancora di più con l’eccellente Jaded Virgin del 1978, un album prodotto da Al Kooper (che era il T-Bone Burnett dei tempi) dove rock e country vanno a braccetto con la bellissima voce della brava Marshall e il disco entra nelle liste dei migliori dischi dell’anno e rimane a tutt’oggi uno dei migliori della sua discografia. Discografia che si arricchisce di altri due ottimi album Dirty Linen del 1987 e Inside Job del 1991 mentre la sua carriera, per qualche anno, si intreccia con quella di Jimmy Buffett con cui suona dal vivo e compone Last Mango In Paris, una delle sue canzoni più famose.

Per farla breve in oltre 35 anni di carriera Marshall Chapman ha registrato solo 12 album, compreso questo Big Lonesome, però le sue canzoni sono state interpretate da almeno una cinquantina di musicisti provenienti dai generi più disparati (nel suo sito http://www.tallgirl.com/content/ trovate la lista completa). Tra coloro che hanno cantato i suoi brani c’è anche Tim Krekel, un ottimo musicista che ha spesso lavorato ai margini del big business e con il quale questo album doveva diventare un disco di duetti. Poi la vita ha deciso di prendere un’altra strada e Krekel è morto per una violenta forma di tumore che nel giugno del 2009, dopo una breve malattia, se lo è portato via. Alcuni dei brani erano già stati registrati e formano “il cuore” del CD, poi la Chapman ci ha costruito un album intorno, con l’aiuto di alcuni musicisti di valore e del collaboratore storico di Buffett, Michael Utley, che oltre a curare la produzione ha suonato anche le tastiere.

Il risultato è il suo miglior disco dai gloriosi giorni degli esordi. Il genere è sicuramente rimasto quel country poco ortodosso che si citava agli inizi, intriso di blues e con qualche leggera spruzzata di rock e un filo di jazz, costruito intorno alla voce di Marshall Chapman, calda ed avvolgente e che non ha perso un briciolo del fascino originale: si parte con la prima collaborazione scritta con Krekel, quella Big Lonesome che dà il titolo all’album, dove una chitarra molto twangy, dobro e pedal steel pigramente si dispongono attorno alle voci dei due protagonisti. Down In Mexico è il primo brano dove le cose si fanno “serie”, una ballata dalle atmosfere sospese (alla Lucinda Williams se volete, ma la Chapman faceva già questa musica da prima) con la slide dell’ottimo Will Kimbrough in bella evidenza, come peraltro in tutto il disco. Going Away Party è un vecchio brano scritto da Cindy Walker, dalle atmosfere vagamente jazzate e old time, con la voce di Marshall che mi ha ricordato moltissimo quella della Carly Simon più ispirata mentre Falling Through The Trees è un’altra bellissima e intensa ballata, genere nel quale la nostra amica eccelle, quando i tempi rallentano e le atmosfere si fanno malinconiche, le sue capacità interpretative risaltano, aiutate in questo brano da un notevole lavoro all’organo da parte di Michael Utley e da un altro bel assolo di chitarra di Kimbrough.

Sick of Myself è una delle ultime collaborazioni tra la Chapman e Krekel, un bel duetto country con una sezione di fiati che ravviva il procedere delle operazioni e dona quella patina vagamente country got soul. Tim Revisited è un sentito omaggio alla memoria del suo amico, una dolce ballata cullata dalle note di una pedal steel (Jim Hoke) che rievoca tanti anni di musica insieme e vuole essere un viatico per il futuro. I Can Stop Thinking About You è un altro brano che esalta la voce vissuta della Chapman seguita da una Mississippi man In Mexico che percorre territori decisamente country-Blues con grande vigore e passione. I’m So Lonesome I Could Cry è una bellissima cover del celeberrimo brano di Hank Williams, eseguita con rigore e partecipazione. Riding with Willie, rivela già dal titolo le sue intenzioni ma poi diventa efficace nella esecuzione, uno dei brani migliori di questo album. Ma il pezzo migliore è proprio la conclusiva I Love Everybody, l’ultima collaborazione con Tim Krekel, un travolgente brano registrato dal vivo dove country e rock si esaltano ancora una volta in un continuo crescendo che esplode in una inarrestabile coda strumentale. Ottima musica!

Bruno Conti

P.S. Se vi chiedevate dove fosse finito ieri il Blog, il titolo di questo Post fa riferimento anche alle difficoltà tecniche. Pare ci sia stato un attacco degli hackers!