Lo Springsteen Della Domenica: Un Gran Concerto Per Tre Quarti, Con Un Finale “Normale”. Bruce Springsteen & The E Street Band – Madison Square Garden, New York, 6/27/2000

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Bruce Springsteen & The E Street Band – Madison Square Garden, New York, 6/27/2000 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

Partiamo dal presupposto che l’aggettivo “normale” associato ad un concerto di Bruce Springsteen & The E Street Band sottintende comunque un livello inarrivabile per circa il 90% dei gruppi rock al mondo, ma in ogni caso non sarebbe corretto spacciare per leggendario ogni singolo show tenuto dal rocker del New Jersey e dal “suo” gruppo, anche se penso che nessuno dei suoi fans se ne sia mai tornato a casa insoddisfatto. Il famoso Reunion Tour tenuto dal Boss nel biennio 1999-2000, che lo vedeva ricongiungersi con i suoi “blood brothers” dopo undici anni, terminò nell’estate del duemila con ben dieci serate consecutive al Madison Square Garden di New York, delle quali quella finale del primo luglio è già stata pubblicata tra le uscite mensili degli archivi live del nostro (ed in parte anche nel doppio CD del 2001 Live In New York City).

Oggi mi occupo del penultimo episodio della serie, Madison Square Garden, New York, 6/27/2000, che invece documenta l’ottava serata, a detta di molti la migliore dopo appunto quella conclusiva, e con nove canzoni diverse in scaletta. Ebbene, come ho accennato nel titolo del post per tre quarti lo show è una bomba, con il Boss ed i suoi compari in perfetta simbiosi ed in totale sintonia col pubblico: nei bis però, quando cioè di solito Bruce spende le ultime briciole di energia rimaste in corpo, sembra che i nostri inseriscano all’improvviso il pilota automatico, complice forse una parte finale di setlist che riserva poche sorprese. E comunque il giudizio complessivo rimane ampiamente positivo, grazie soprattutto a più di un momento esaltante nella parte di spettacolo prima dei bis. L’avvio è formidabile, con la rara Code Of Silence, una grande rock song suonata molto di rado, seguita dalla sempre irresistibile The Ties That Bind e da una potentissima Adam Raised A Cain, con Bruce che inizia a farci sentire la voce della sua sei corde. Un’energica Two Hearts, tradizionalmente un duetto con Little Steven, precede l’amatissima Trapped di Jimmy Cliff, vero e proprio “crowd-pleaser” con ritornello da cantare a squarciagola, ed una struggente Factory, dotata di un inedito arrangiamento country.

Dopo l’allora nuova American Skin (41 Shots), ispirata ad un tragico caso di abuso di potere da parte della polizia verso un uomo disarmato (ma musicalmente non eccelsa), lo show prosegue con ottime riletture di classici alternati a pezzi più recenti: vediamo quindi susseguirsi versioni super-coinvolgenti di The Promised Land, Badlands e Out In The Street, una Youngstown molto più rock e tagliente che in origine ed una scatenata Murder Incorporated. Tenth Avenue Freeze-Out, con i suoi 18 minuti di durata e varie improvvisazioni al suo interno (It’s Alright di Curtis Mayfield, Take Me To The River di Al Green, Red Headed Woman di Bruce e Rumble Doll cantata da Patti Scialfa), è forse il momento centrale della serata https://www.youtube.com/watch?v=r1twvwbB_cU , ma poi abbiamo un trittico di rarità (la splendida e trascinante Loose Ends, la bellissima soulful ballad Back In Your Arms e l’antica Mary Queen Of Arkansas) e la strepitosa Backsteets, a mio giudizio la migliore ballata della “golden age” del Boss insieme a Jungleland e The River.

Da qui in poi come dicevo il concerto da eccellente diventa “solo” buono: Light Of Day l’ho sempre vista come un pretesto per mostrare i muscoli (tra l’altro per quasi un quarto d’ora) ma non una gran canzone, Hungry Heart e Born To Run sono fra i pochi pezzi che Springsteen esegue sempre allo stesso modo, mentre sia la vecchia e solare Blinded By The Light che l’inimitabile Thunder Road fanno salire nuovamente la temperatura. Finale con If I Should Fall Behind, che in quel tour serviva come showcase per i vari membri “cantanti” della band che avevano una strofa a testa (quindi Bruce, Patti, Little Steven, Nils Lofgren e Clarence Clemons) e con l’allora inedita Land Of Hope And Dreams, un brano che non mi ha mai fatto impazzire ed anche discretamente tirato per le lunghe. Per la prossima uscita ci sposteremo sulla costa ovest e ci imbarcheremo sul “Tunnel Of Love Express”.

Marco Verdi

Lo Springsteen Della Domenica: Un’Altra Roboante Serata…A Pochi Passi Da Casa! Bruce Springsteen & The E Street Band – Brendan Byrne Arena, August 6, 1984

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Bruce Springsteen & The E Street Band – Brendan Byrne Arena, August 6, 1984 –live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

Il Bruce Springsteen del periodo di Born In The U.S.A. non sarà forse la migliore versione del grande rocker del New Jersey ma è quella a cui sono personalmente più legato, in quanto mi ricorda il momento della mia adolescenza durante il quale ho scoperto la musica “adulta”, ed il primo disco rock che ho comprato (anzi, musicassetta) è stato proprio l’album del Boss citato poc’anzi. Detto questo, sinceramente non capisco perché i curatori delle uscite mensili degli archivi live del nostro insistano con i concerti pur splendidi del 1984 alla Brendan Byrne Arena di East Rutherford, in New Jersey, una residency di ben dieci serate consecutive che in questa serie ha già visto pubblicate la prima del 5 agosto e l’ultima del 20, mentre per esempio abbiamo avuto solo un concerto sempre americano del 1985 (peraltro da cinque stelle, al Los Angeles Coliseum) e nessuno dal “leg” europeo del tour, per esempio il mitico show del 21 giugno a San Siro (non è per campanilismo, ma perché pare che sia stato davvero uno dei migliori in assoluto, io non posso né confermare né smentire dato che non c’ero).

A conclusione di quanto detto sopra, ecco pubblicato ufficialmente il terzo concerto svoltosi nella location poco distante da casa del Boss, ed in particolare quello del 6 giugno (quindi la seconda delle dieci date), una serata con otto cambi in scaletta rispetto alla precedente, e che a detta dei fans è stata una delle migliori performance del periodo, cosa che mi sento di avvalorare dopo aver ascoltato il triplo CD. Uno show magico, coinvolgente e adrenalinico, con un Bruce in forma vocale strepitosa ed una band che gira a meraviglia (ma questo capita sempre), tra l’altro con un suono forte, pulito e mixato alla perfezione, meglio ancora che nelle uscite riguardanti gli spettacoli del 5 e del 20. Da Born In The U.S.A. i nostri suonano “solo” sei pezzi su dodici (una potente versione della title track posta in apertura, tre riprese festaiole e caciarone di Glory Days, Dancing In The Dark e Bobby Jean, la toccante My Hometown che non può mancare in New Jersey, e la rilettura acustica di No Surrender tipica di quel tour), lasciando spazio a classici del passato e diverse chicche.

Tra gli evergreen non mancano pezzi che ognuno si aspetterebbe di ascoltare, tutti riproposti in maniera decisamente coinvolgente: Out In The Street, Spirit In The Night, Prove It All Night (versione poderosa), The Promised Land, Because The Night, Badlands, Thunder Road, il consueto singalong di Hungry Heart, una Cadillac Ranch che fa ballare tutta l’arena, Tenth Avenue Freeze-Out, Born To Run ed una travolgente Rosalita di sedici minuti. Una delle chicche della serata è l’intermezzo dedicato a Nebraska, con l’esecuzione una in fila all’altra di Atlantic City, di Open All Night che Bruce riesce a rendere trascinante nonostante sia da solo sul palco e della stessa Nebraska (e, più avanti in scaletta, anche di Used Cars). Non manca un’ottima rilettura del classico di Jimmy Cliff Trapped (che già all’epoca era più nota nella versione del Boss, e questa è una delle versioni migliori che abbia mai sentito) e dei due “crowd-pleasers” Fire e Pink Cadillac, mentre lo straordinario pianismo di Roy Bittan viene fuori alla grande nella struggente Racing In The Street e soprattutto in una spettacolare Jungleland di dodici minuti, suonata nei bis.

A proposito di bis in questo show troviamo due rarità, una che riguarda le abituali scalette del tour (I’m A Rocker, che però forse era l’unico punto debole di un album perfetto come The River) ed una assoluta, vale a dire una sanguigna e dirompente ripresa di Street Fighting Man dei Rolling Stones, che sostituisce Travellin’ Band dei Creedence eseguita la sera prima. Chiusura all’insegna della festa totale, con un mix debordante (altri undici minuti) tra Twist And Shout ed il classico dei Contours Do You Love Me. Serata splendida quindi, e pure la prossima uscita promette bene, con uno show del 1978 non famoso come quelli di Cleveland e Passaic ma, pare, altrettanto fragoroso.

Marco Verdi

Lo Springsteen Della Domenica: L’Aria Di Casa Fa Sempre Bene! Bruce Springsteen & The E Street Band – Brendan Byrne Arena 1981

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Bruce Springsteen & The E Street Band – Brendan Byrne Arena 1981 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

Mi rendo conto che non è facile avere a che fare ogni mese con un album dal vivo di Bruce Springsteen e dover trovare nuovi aggettivi per descriverlo, dato che stiamo parlando del miglior performer di musica rock sulla faccia della terra e poi perché chi cura i suoi archivi live cerca sempre di scegliere per il meglio. A fianco quindi di concerti universalmente riconosciuti storici come Roxy 1975 oppure Agora Ballroom e Passaic 1978 spesso vediamo spuntare serate magari non così famose ma ugualmente spettacolari: è il caso per esempio della penultima uscita, Gothenburg 2012, show al quale nella recensione avevo attribuito un ipotetico punteggio di cinque stelle. Ebbene, a conferma che tutto è relativo, se al concerto in terra svedese di otto anni fa ho dato il massimo, per la performance di cui mi accingo a scrivere di stelle dovrei darne sei o sette.

Stiamo parlando infatti di una serata della tournée di The River del 1981 (il 9 luglio) alla Brendan Byrne Arena di East Rutherford in New Jersey, quindi il miglior tour di sempre del Boss (*NDB Confermo, io ero presente alla data all’Hallenstadion di Zurigo dell’11 aprile) assieme a quello del 1978, in una location “casalinga” nella quale il nostro è sempre stato portato a dare qualcosa di più. Il concerto, poco meno di tre ore, è quanto di più vicino ci sia alla perfezione, con il nostro e la sua E Street Band che riescono a mantenere la performance su livelli di assoluta eccellenza dalla prima all’ultima canzone ed una scaletta decisamente spostata sul lato rock’n’roll, anche se quando è il turno delle ballate i brividi e la pelle d’oca si sprecano. Già l’inizio, con una delle migliori Thunder Road mai sentite, è commovente (ci si può commuovere fin dalla prima canzone? In un concerto di Springsteen sì), ma poi abbiamo un uno-due al fulmicotone con Prove It All Night (grande assolo di chitarra) e The Ties That Bind, seguite dalla sempre splendida Darkness On The Edge Of Town. Dopo una versione quasi a cappella di Follow That Dream di Elvis ed una struggente Independence Day con tanto di dedica da parte di Bruce a suo padre, abbiamo due scintillanti Two Hearts e The Promised Land seguite da una folkeggiante e lenta ripresa dell’inno americano non ufficiale This Land Is Your Land, preceduto da un’invettiva del nostro verso un idiota del pubblico che ha fatto scoppiare un petardo (“Se lo individuate, buttatelo fuori a calci”) e dal capolavoro The River.

Dopo una maestosa Trapped di Jimmy Cliff ecco il momento più rock’n’roll della serata, con una sequenza da lasciare senza fiato che vede una dopo l’altra Out In The Street, Badlands, You Can Look (But You Better Not Touch), Cadillac Ranch e Sherry Darling. Dopo il consueto singalong di Hungry Heart Bruce dà il colpo di grazia al pubblico, invitando sul palco Gary U.S. Bonds e cantando con lui la travolgente Jole Blon e lasciandogli il microfono per una scoppiettante This Little Girl (brano scritto dal Boss). Ancora due toccanti ballate (l’inedita Johnny Bye-Bye e Racing In The Street) subito doppiate da due esplosive riletture di Ramrod e Rosalita; i bis, oltre ad una immancabile Born To Run, ci regalano due favolose versioni di Jersey Girl di Tom Waits (che il nostro non manca mai di eseguire quando si esibisce nel suo stato di nascita) e di Jungleland, che vede la solita prestazione strepitosa di Roy Bittan. Il finale, con un eccezionale Detroit Medley di un quarto d’ora, riesce a stendere i pochi spettatori ancora in piedi.

Altro concerto imperdibile quindi (cominciano ad essere tanti): il prossimo episodio dovrebbe farci tirare un po’ il fiato, in quanto vedrà Bruce sul palco come protagonista solitario in una serata svedese del 2005.

Marco Verdi

Lo Springsteen Della Domenica: E’ Per Serate Come Questa Che Lo Chiamano “The Boss”! Bruce Springsteen & The E Street Band – Memorial Coliseum, Los Angeles 1985

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Bruce Springsteen & The E Street Band – Memorial Coliseum, Los Angeles Sept. 27 1985 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

Se dovessimo stilare una classifica dei concerti grazie ai quali si è creata la leggenda di Bruce Springsteen come performer, un ipotetico ordine cronologico comprenderebbe gli show all’Hammersmith Odeon di Londra nel 1975, quelli all’Agora Ballroom di Cleveland, al Capitol Theatre di Passaic ed al Winterland di San Francisco nel 1978, il Nassau Coliseum di New York nel 1980 ed i quattro spettacoli conclusivi del tour di Born In The U.S.A., tenutisi dal 27 Settembre al 2 Ottobre 1985 al Memorial Coliseum di Los Angeles. In quel periodo Bruce era nel momento di maggior popolarità della sua carriera, l’album Born In The U.S.A. lo aveva fatto conoscere in ogni lato del globo ed i due anni di tour a supporto dell’album avevano alimentato al massimo la leggenda del nostro di straordinario performer, e la E Street Band era considerata da più parti come la migliore band al mondo. Si era nel pieno dei Big Eighties, un periodo di ottimismo e prosperità, una sorta di nuova “Golden Age”, e qualcuno molto in alto (leggi Casa Bianca) aveva tentato senza successo di far salire il Boss sul carro dell’edonismo tipico di quell’epoca.

Bruce dal canto suo continuava a macinare concerti su concerti, e quel tour in particolare aveva regalato momenti indimenticabili (basti ricordare il suo primo show in Italia, a San Siro, ancora oggi considerato irripetibile), e le già citate quattro serate conclusive avevano contribuito a far crescere il suo mito in modo esponenziale. Il famoso cofanetto uscito l’anno seguente, Live 1975-85, pescava a piene mani dal terzo di quegli spettacoli (quello del 30 Settembre), ma questa nuova uscita della serie live del Boss si occupa del primo show, svoltosi il 27. Ed il triplo CD (o download, se preferite) è un’esperienza assolutamente strepitosa, una libidine unica della durata di due ore e venti minuti, con Bruce ed i suoi che sono una vera e propria macchina da guerra in formato rock. Inutile dire che tutti sono in forma impressionante soprattutto se si considera che si era a fine tour, e la scaletta preme al massimo sul pedale del rock’n’roll, dandoci senza dubbio uno dei migliori episodi della serie, per di più con un’incisione davvero spettacolare. L’album Born In The U.S.A. è prevedibilmente suonato quasi per intero (10 pezzi su 12, mancano soltanto Darlington County e No Surrender), con versioni decisamente trascinanti della title track, di Working On The Highway, Glory Days e I’m Goin’ Down, oltre ad una toccante My Hometown che è anche meglio di quella in studio.

Il resto del concerto è una sorta di Greatest Hits dell’epoca, ma con riletture impetuose, muscolari e roboanti di alcuni dei momenti più celebrati del songbook springsteeniano, come Badlands, Out In The Streets, Atlantic City elettrica, The Promised Land, Because The Night e Born To Run. Se dovessi proprio trovare un difetto, direi che la scaletta non scava più di tanto nel profondo del repertorio del Boss (solo quattro brani degli anni settanta, cinque se contiamo anche Because The Night), ma l’intensità con la quale sono eseguite le canzoni presenti compensa alla grande eventuali mancanze. Le ballate non sono molte, solo The River e Thunder Road (oltre alla già citata My Hometown), ma sono proposte in maniera sublime, e poi ci sono anche alcune cover come una splendida ed emozionante Trapped di Jimmy Cliff, l’inno americano non ufficiale This Land Is Your Land (Woody Guthrie), dal grande pathos, e l’anteprima mondiale della versione del Boss della potente War di Edwin Starr (quella uscita poi su singolo è di tre sere dopo). Ma soprattutto c’è anche tantissimo rock’n’roll, con brani come Seeds, una Cadillac Ranch più trascinante che mai, una Ramrod da sballo ed un finale sensazionale con un medley incredibile fra Twist And Shout e Do You Love Me (il classico dei Contours) della durata di 18 minuti, due rarità che all’epoca erano uscite come b-sides (lo scatenato rock’n’roll Stand On It. che fa ballare anche il servizio d’ordine, ed una scintillante Janey Don’t You Lose Heart, che non è un capolavoro ma qui sembra bellissima) e, come conclusione, una travolgente Travelin’ Band dei Creedence.

Un triplo CD senza un attimo di respiro, un concerto da leggenda, assolutamente imperdibile.

Marco Verdi

Non Mancano I Dischi Dal Vivo Né Degli Uni Né Dell’Altro, Ma Questi Due Sono Bellissimi. The Who – Live At The Isle Of Wight 2004 Festival/Paul Simon – The Concert In Hyde Park

who live at the isle of wight 2004

The Who – Live At The Isle Of Wight 2004 Festival – Eagle Rock DVD – BluRay – 2CD/DVD – 2CD/BluRay

Paul Simon – The Concert In Hyde Park – Legacy/Sony 2CD – 2CD/DVD – 2CD/BluRay

Oggi ci occupiamo di due pubblicazioni dal vivo che hanno in comune il fatto di essere entrambe molto belle, nonché di essere state entrambe registrate qualche anno fa: gli artisti in questione non sono certo privi nelle loro discografie di testimonianze live, sia in audio che in video, ma nonostante ciò sarebbe un peccato ignorare queste due uscite.     Gli Who, una delle più longeve band britanniche, hanno nella fattispecie pubblicato negli anni più album dal vivo che in studio, ma questa performance registrata nel 2004 durante il mitico Isle Of Wight Festival (che aveva riaperto i battenti due anni prima) è da considerarsi tra le più importanti, non fosse altro per il fatto che vedeva i nostri tornare sul luogo del delitto a 34 anni dalla leggendaria serata del 1970 (anch’essa disponibile ufficialmente dal 1996). Il gruppo era alla prima tournée britannica dopo la morte dello storico bassista John Entwistle, e quindi i nostri erano già ridotti a duo, naturalmente composto dal leader e chitarrista Pete Townshend e dalla potente ugola di Roger Daltrey, mentre il resto della band vedeva Pino Palladino al basso, Simon Townshend (fratello minore di Pete) alla chitarra ritmica, Zak Starkey (figlio di Ringo Starr) alla batteria e John Bundrick alle tastiere, formazione in sella ancora oggi, Bundrick escluso. Live At The Isle Of Wight 2004 Festival proposto, come è consuetudine per la Eagle Rock in tutte le combinazioni audio/video possibili, vede dunque gli Who, in forma smagliante, deliziare il numeroso pubblico con un’esibizione potente, roccata e chitarristica come nel loro DNA: sia Daltrey che Townshend sono in grande spolvero, e la band suona con la forza di un macigno, il che non significa mancanza di tecnica; e poi ci sono le canzoni, veri e propri inni entrati a far parte della storia del rock, una scaletta forse con poche sorprese (e poco differente da altri dischi dal vivo del gruppo) ma con talmente tanti capolavori che è sempre un piacere riascoltarli.

Il suono non è forse spettacolare come nel recente Live In Hyde Park, ma è comunque ottimo, e la serata parte subito alla grande con un trittico a tutto rock’n’roll formato da I Can’t Explain, Substitute ed Anyway, Anyhow, Anywhere, e quasi subito dopo una, come al solito, epica Behind Blue Eyes (in mezzo, Who Are You, che non mi è mai piaciuta molto ma è l’unica, mentre purtroppo dalla scaletta manca The Kids Are Alright, una delle mie preferite); l’inarrivabile Baba O’Riley, per chi scrive la più grande canzone rock di sempre dopo Stairway To Heaven, è stranamente al settimo posto nella setlist invece che nei bis, mentre c’è anche qualche chicca come The Punk And The Godfather (da Quadrophenia), Drowned e Naked Eye con solo le chitarre acustiche dei due leader (e nella prima Pete alla voce solista) e due canzoni all’epoca nuove di zecca, uscite come bonus tracks dell’antologia Then And Now: la magnifica Real Good Looking Boy, puro Who sound al suo meglio, e la potente ma meno incisiva Old Red Wine. Altri highlights sono la strepitosa You Better You Bet, i superclassici My Generation (più corta del solito) e Won’t Get Fooled Again ed un finale a tutto Tommy con Pinball Wizard, Amazing Journey, Spark, See Me Feel Me e Listening To You, con Magic Bus come bis conclusivo.

paul simon concert in hyde park

Paul Simon è noto per essere uno dei massimi songwriters di tutti i tempi, ma non certo per il fatto di essere un animale da palcoscenico: di carattere freddo, spesso scostante al limite dello snobismo, non sempre sul palco il newyorkese è garanzia di qualità (io l’ho visto tre volte, sempre a Milano, e se in due occasioni mi aveva entusiasmato ed emozionato, la terza ero rimasto decisamente deluso), ma quando sente aria di grande evento (leggi concerto con folla oceanica, riprese video e futura pubblicazione ufficiale) offre sempre delle performance strepitose. È questo il caso di The Concert In Hyde Park, registrato nel noto polmone verde di Londra nel corso dell’Hard Rock Calling del 2012, una serata magica sotto molti aspetti, un po’ per la suggestiva cornice di pubblico, un po’ per l’ottima forma del leader, ma soprattutto perché nella seconda parte del concerto Simon si è presentato con la band di Graceland al completo, per la prima volta dal tour del 1987, e ha riproposto, anche se con le canzoni in ordine sparso, quasi tutto il famoso album di 26 anni prima (saltando solo, non so bene perché, All Around The World Or The Myth Of Fingerprints). Anche qui, come nel caso degli Who, le canzoni sono una più bella dell’altra, e se aggiungiamo un Simon in serata di grazia il concerto fa presto a diventare imperdibile: Paul ha sempre avuto il pregio di circondarsi di musicisti formidabili, e questa sera non fa certo eccezione, sia per quanto riguarda la sua abituale band che quella “africana”, entrambe guidate dall’eccellente chitarrista Vincent Nguini, e con ospiti come il noto cantautore reggae Jimmy Cliff, il grandissimo gruppo vocale Ladysmith Black Mambazo guidato dal loro leader Joseph Shabalala ed il famoso trombettista sudafricano Hugh Masekela.

La prima parte del concerto è più classica, ma sempre musicalmente ricca e piena di spunti ritmici e melodici mai banali, con classici come la vivace Kodachrome, che apre la serata, il gustoso gospel di Gone At Last, la lenta Dazzling Blue (unica concessione all’allora nuovo So Beautiful Or So What), la sempre intensa e raffinata Hearts And Bones (in medley con Mystery Train di Junior Parker e con lo strumentale Wheels di Chet Atkins), le irresistibili That Was Your Mother, un travolgente cajun ed antipasto di Graceland, e Me And Julio Down By The Schoolyard, per chiudere con la fluida Slip Slidin’ Away, puro Simon classico, e la ritmatissima e coinvolgente The Obvious Child. In questa prima metà c’è anche il mini set di Jimmy Cliff, con le famosissime The Harder They Come e Many Rivers To Cross solo nella parte video (che non ho ancora visto), oltre alla meno nota Vietnam e la solare (e splendida) Mother And Child Reunion in duetto con Simon. La seconda parte, come ho già detto, è incentrata su Graceland, ed è un immenso piacere ascoltare in una veste sonora così scintillante classici come le strepitose Homeless (tutta a cappella) e Diamonds On The Soles Of Her Shoes, la fluida title track, il capolavoro The Boy In The Bubble, le meno note Crazy Love, Vol. II, Gumboots e Under African Skies, e le travolgenti I Know What I Know e, soprattutto, You Can Call Me Al, vera esplosione di ritmo e suoni. Nei bis, finalmente, anche un po’ di spazio per il repertorio targato Simon & Garfunkel, con una sempre emozionante The Sound Of Silence acustica ed una stupenda The Boxer full band con l’intervento al dobro di Jerry Douglas. Richiamato a gran voce sul palco, Simon si congeda con la vivace Late In The Evening e la classica e raffinata Still Crazy After All These Years. Due live albums da non perdere quindi, specie il secondo.

Marco Verdi

Devo Averle Già Sentite Da Qualche Parte Queste Canzoni! Dear Jerry: Celebrating The Music Of Jerry Garcia

dear jerry celebrating the music of jerry garcia 2 cd

VV.AA. – Dear Jerry: Celebrating The Music Of Jerry Garcia – Rounder 2CD – 2CD/DVD

Da dopo la morte di Jerry Garcia avvenuta nel 1995, il mercato è stato letteralmente invaso di prodotti che avevano in qualche modo a che fare con i Grateful Dead, ma nessun periodo è minimamente comparabile all’ultimo anno. Da Ottobre 2015 sono infatti usciti, nell’ordine: il megabox di 80 CD 30 Trips Around The Sun (e la sua versione ridotta in quattro CD), i vari formati dei concerti di addio Fare Thee Well, il sontuoso tributo quintuplo Day Of The Dead curato dai National, il triplo della Rhino Red Rocks 1978 (ed il superbox con tutti i concerti del periodo), due volumi ravvicinatissimi della serie Garcia Live ed il nuovo album solista di Bob Weir, Blue Mountain http://discoclub.myblog.it/2016/10/07/finalmente-arrivato-anche-il-momento-che-disco-bob-weir-blue-mountain/ . E non ho citato i nuovi episodi dei Dave’s Picks. Ma i nostri, che la paura di inflazionare il mercato direi che non l’hanno mai avuta, si saranno detti: “Ci siamo dimenticati un bel concerto tributo!”. Detto fatto, ecco qui questo doppio CD (esiste anche con DVD allegato) intitolato Dear Jerry, che documenta l’esito di una serata organizzata da Bob Weir il 14 Maggio dello scorso anno (al Merriweather Post Pavilion di Columbia, Maryland), durante la quale i quattro Dead superstiti (oltre a Weir, Phil Lesh, Bill Kreutzmann e Mickey Hart) si sono alternati sul palco con una bella serie di ospiti. Come però suggerisce il titolo, non è un tributo ai Dead, ma in particolare alle canzoni di Garcia, incluse alcune da lui incise come solista e qualche cover di brani che Jerry usava suonare dal vivo nelle varie configurazioni della Jerry Garcia Band (che è sorprendentemente assente, dato che ancora esiste e si esibisce come JGB, avrebbe potuto partecipare suonando per esempio un brano di Bob Dylan, autore più volte ripreso da Jerry e dai Dead). Certo, un altro lavoro dove si prendono in esame canzoni che nell’ultimo anno sono state strasentite potrebbe far alzare più di un sopracciglio, ma sarebbe un errore ignorarlo, in quanto siamo di fronte ad una performance splendida, con una serie di gruppi e solisti in grande forma, una house band stellare (che comprende gente del calibro di Don Was, che è anche direttore musicale e produttore, Sam Bush, Matt Rollings, Buddy Miller, Audley Freed, ex chitarrista dei Black Crowes, e le McCrary Sisters ai cori), una resa sonora strepitosa e, ma era scontato, una serie di grandi canzoni.  In poche parole, uno dei migliori prodotti Dead-related usciti nell’ultimo periodo, superiore per esempio, e di gran lunga, ai concerti di addio Fare Thee Well, sia come suono che come qualità della performance.

Che non si scherza lo fa subito capire Phil Lesh, che si esibisce con la sua nuova band, i Communion nel medley The Wheel/Uncle John’s Band, suono Dead al 100%, piano liquidissimo (Marco Benevento) e subito due grandi canzoni (anzi, la seconda è forse la mia preferita in assoluto del Morto Riconoscente), per quasi 17 minuti di musica sublime: tra le qualità di Lesh non c’è mai stata la voce, ma questa sera Phil canta stranamente bene, anche se è aiutato, e molto, dalle voci di sostegno del resto del gruppo. Allen Toussaint, qui in una delle sue ultime apparizioni, ci propone l’errebi di sua composizione Get Out Of My Life Woman, un pezzo che Jerry amava molto, con un bel botta e risposta vocale tra Allen e le sorelle McCrary: anche Toussaint non era mai stato un grande vocalist, ma quando appoggiava le dita sulla tastiera riusciva a zittire tutti. David Grisman è un vecchio compagno di viaggio di Jerry, ha inciso con lui diversi bellissimi dischi acustici (oltre a militarci insieme nel supergruppo Old And In The Way), e nell’occasione ci delizia con una splendida versione del traditional Shady Grove, tra folk, bluegrass ed old time music, con ottimi interventi di fisarmonica e violino, altri quattro minuti e mezzo di puro godimento A prima vista Peter Frampton in una serata come questa potrebbe starci come i cavoli a merenda, ma il nostro, alle prese con il classico di Junior Walker (I’m A) Roadrunner, se la cava alla grande: la voce e la chitarra ci sono, e la versione, decisamente potente e roccata, è godibilissima. Buddy Miller non lo scopriamo certo oggi e, alle prese con Deal, una grande canzone, fa faville, dandoci una delle prestazioni più convincenti della serata (bellissimo l’assolo di slide, ma pure Rollings fa i numeri al piano); Jorma Kaukonen va a nozze con brani come Sugaree, e nel concerto ci dà pure un saggio della sua classe con la chitarra, mentre il bravissimo Jimmy Cliff, e ve lo dice uno che non ama il reggae, ci diverte con la sua The Harder They Come insieme a Kreutzmann e Hart, un brano tra i più suonati dalla JGB e, raggiunto anche da Weir, bissa con una discreta Fire On The Mountain. Il primo CD si chiude con il nuovo gruppo di Kreutzmann, Billy And The Kids, che rileggono lo splendido medley che apriva Blues For Allah (Help On The Way/Slipknot!/Franklin’s Tower) in maniera rigorosa, ma con un’energia straordinaria e poi, con i Disco Biscuits, un altro medley stellare con Scarlet Begonias/I Know You Rider, davvero da applausi e con un formidabile assolo chitarristico di Tom Hamilton.

Il secondo dischetto inizia con la rock ballad Loser proposta dai Moe, molto bravi e rispettosi al limite del didascalico, ma il brano è talmente bello che ne esce benissimo ugualmente; eccellenti gli Oar con St. Stephen, alla quale tolgono gli elementi psichedelici e la trasformano in una pura e sontuosa rock song, potente e grintosa; i Los Lobos avevano già suonato Bertha sul tributo Deadicated del 1991 e, insieme a Weir, la replicano in maniera mirabile, grande canzone e grandissima band, mentre i Trampled By Turtles si esibiscono nell’abituale veste acustica con una fulgida Brown-Eyed Women, tra le mie preferite in assoluto dei Dead.

Shakedown Street non mi è mai piaciuta molto, e gli Yonder Mountain String Band, pur mettendocela tutta in una versione stripped-down, non riescono a farmi cambiare idea. Ma subito dopo torna Bob Weir che, in compagnia della bella Grace Potter, rilegge in maniera vibrante Friend Of The Devil, ottima versione, toccante a dir poco, pianistica e molto soulful. Eric Church a mio parere è un sopravvalutato, ma la sua Tennessee Jed, tra country, rock e southern, è ben fatta, anche se meglio, molto meglio fanno i Widespread Panic con una Morning Dew davvero intensa e fluida, impreziosita da un assolo di chitarra incredibile da parte di Jimmy Herring. Gran finale con tre dei quattro Dead (manca Lesh), per una stupenda e corale Touch Of Grey, perfetta in questa posizione visto il testo ottimistico, e tutti insieme per una commovente Ripple, splendida sotto ogni punto di vista, il modo migliore per chiudere una serata da ricordare.

In un anno in cui non sono certo mancati i dischi dal vivo di grande valore, questo Dear Jerry è sicuramente uno dei più belli.

Marco Verdi

Dagli Archivi Della Memoria. Widespread Panic – Oak Mountain 2001 Night 1

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Widespread Panic – Oak Mountain 2001 Night 1 – Widespread Records

All’incirca all’inizio degli anni ’90 (secolo scorso), scrivevo una serie di recensioni per il Busca concernenti un gruppo di band che poi negli anni a venire avremmo definito “Jam bands”, i primi dischi di gente come i Gov’t Mule, i Blues Traveler, i Widespread Panic, Col. Bruce Hampton ed altri che ora non ricordo, quando ancora non se li filava nessuno, c’erano anche i Phish e la Dave Matthews Band, che da lì a poco sarebbe stata la prima ad avere un successo commerciale clamoroso (e forse rimane l’unica a non essere di nicchia). Nicchia di dimensioni consistenti, perché già agli inizi questi gruppi muovevano nell’ambito di un movimento che si chiamava H.O.R.D.E e che se a noi italiani richiamava orde di fans, in effetti stava per “Horizons Of Rock Developing Everywhere” e riprendeva lo stile di band leggendarie come i Grateful Dead (ancora vivi e vegeti, fino alla morte di Jerry Garcia nel 1995) e gli Allman Brothers, rivitalizzati dall’ingresso in formazione di Warren Haynes, che avrebbe fondato la sua creatura, i Gov’t Mule, nel 1994.

Gruppi di “scalmanati” impegnati in dischi e concerti dove l’improvvisazione, la jam session, era uno dei requisiti essenziali. E devo dire che ancora oggi il sottoscritto preferisce un gruppo di “pirla” che si agita per dei quarti d’ora sui propri strumenti, e al limite alla fine rilancia ulteriormente, ad altri gruppetti di dementi, con cappellino e cavallo dei pantaloni all’altezza delle ginocchia, che “declamano” versi improbabili su ritmi improponibili o, nei migliori dei casi, scopiazzati, ma è un parere personale, penso condiviso dalla cosiddetta “confraternita” dei rockers che legge queste pagine. Bisogna altresì dire che anche in questo ambito ci sono delle esagerazioni: prendiamo questo triplo Oak Mountain 2001Night 1 (che come dice il titolo avrà un seguito nella Notte 2) dei Widespread Panic, quando, dopo i dieci minuti di una bella e assai dilatata versione di The Harder They Come di Jimmy Cliff, autore stimato dal gruppo, come dimostra la presenza di Many Rivers To Cross nell’ottimo Live Wood dello scorso anno, parte una Drums di oltre 25 minuti che francamente pare un tantinello eccessiva, forse, pure il fans più accanito rischia l’abbiocco!

Ma è un dettaglio, perché dischi come questo sono destinati ovviamente agli appassionati del genere e anche il giudizio critico assai favorevole è indirizzato soprattutto a chi ama questa musica e quindi la segue con passione. Difficile che band come i Widespread Panic pubblichino dei dischi, ancor più se tratti da concerti, brutti, al limite occorre, come nei buoni vini, guardare l’annata, e nel caso di questo Oak Mountain parliamo del 2001, quando il chitarrista originale della band Michael Houser era ancora nella formazione (non che il suo sostituto Jimmy Herring sia da meno) e lo stile della band, un misto del classico southern rock imparato nella natia Athens, Georgia e quello delle jam bands più classiche, era in pieno fulgore. Formazione classica sudista: due chitarre soliste, tastiere, basso, batteria ed un percussionista aggiunto, con John Bell, uno dei due chitarristi, anche voce solista dallo stile pigro e disincantato, caratteristico e unico, capace però anche di improvvise accelerazioni bluesate.

I brani si incastrano uno nell’altro quasi senza soluzione di continuità: l’iniziale Conrad, con le percussioni impazzite di Domingo Ortiz impegnate a stimolare l’ottima sezione ritmica di Dave Schools, bassista extraordinaire e Todd Nance, batterista solido e variegato, tutti e tre impegnati a costruire uno sfondo perfetto per le evoluzioni delle soliste di Houser e Bell e per le tastiere dell’ottimo “Jojo” Hermann, sorta di omologo del grande Chuck Leavell negli Allman, con continui cambi di ritmo, accelerazioni e rallentamenti tipiche del genere, il brano si tramuta magicamente nella breve One Arm Steve, cantata da Houser e si dilata di nuovo nella lunga Barstool And Dreamers, introdotta dal basso slappato di Schools e dalla slide di Houser per lasciare spazio ad una lunga improvvisazione pianistica di Hermann. Saltando di palo in frasca tra i vari brani del triplo, come non ricordare una This part of town, più quieta e malinconica o le evoluzione à la Traffic della lunga Greta, la divertente Christmas Katie o il frenetico R&R di Let It Rock di Edward Anderson (Charles Edward Anderson Berry, per gli amici Chuck), o la Santaneggiante Radio Child.  

E siamo solo al primo disco. Disco è uno dei loro classici instrumental, Blight, inserita all’interno della lunghissima e bellissima Driving Song, è una delle prime collaborazioni con lo sfortunato Vic Chessnut, Last Dance è un inconsueto ma riuscito “incontro” con il Neil Young di Times Fade Away. Nel terzo CD cover riuscitissime di Fixin’ To Die, Bukka White via Bruce Hampton, i War di Low Rider e JJ Cale di Ride me high, per concludere con una strepitosa Dream Song E’ stato un piacere parlare ancora una volta dei Widespread Panic, ogni tanto ci si incontra di nuovo. Lunga vita ai loro archivi!

Bruno Conti  

P.s Esisteva un DVD, più o meno con lo stesso titolo, pubblicato nel lontano 2001 dalla Sanctuary (etichetta non più in attività) e relativo ad un concerto del 2000, ma il repertorio è completamente diverso.

P.s II. La qualità sonora è ottima, nettamente superiore a quella dei filmati inseriti nel Post!