Eccone Un’Altro Che Non Molla Mai. Joe Grushecky – More Yesterdays Than Tomorrows

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Joe Grushechy – More Yesterdays Than Tomorrows – Schoolhouse Records – CD – Download

Ultimamente siamo costretti a recensire (in colpevole ritardo) lavori di artisti, di cui abitualmente ci occupiamo su queste pagine, e il problema principale consiste nel fatto che sono tutti dischi che sono venduti solamente sulle varie piattaforme in rete, e non sempre si riesce ad individuare la data di uscita. Nel caso specifico parliamo di Joe Grushechy, amico di lunga data e corrisposto di Springsteen (come detto in precedenti recensioni), protagonista principe di quello che è stato fin dai tempi lontani degli Iron City Houserockers definito “blue collar rock”, una miscela esplosiva tra il miglior rock stradaiolo e ballate romantiche. Così, a 10 anni di distanza dall’ultimo lavoro in studio con gli Houserockers East Carson Street (09), ma a circa sei da https://discoclub.myblog.it/2013/11/02/heartland-rock-persino-nella-valle-dell-eden-joe-grushecky-5/, e a tre dal live https://discoclub.myblog.it/2016/10/19/sangue-sudore-rabbia-passione-sul-palco-locale-mitico-joe-grushecky-the-houserockers-american-babylon-live-at-the-stone-pony/, il buon Joe raduna in studio la sua attuale line-up composta da suo figlio Johnny alle chitarre (e nel nuovo ruolo di produttore), dal batterista Joffo Simmons, il bassista Jeff Garrison,  l’altro chitarrista Danny Gochnour, Ed Manion al sassofono (presente anche nel nuovo Little Steven), Tony Morra alle percussioni e batteria, la brava Vanessa Campagna come vocalist, e sotto la consueta supervisione del produttore e polistrumentista di lunga data Rick Witkowski, per una dozzina di brani che, per chi conosce ormai da anni (come chi scrive) il “sound” di Grushecky, uno che ha sempre avuto il passo dei grandi cantautori americani, suona molto familiare.

Il disco si apre con la title track More Yesterday Than Tomorrows, un mid-tempo che trasuda rock uscito dai solchi del miglior “Springsteen style”, a cui fanno seguito il “rock-boogie” senza fronzoli di Got To Go To Work Today (dove è impossibile non muovere il piedino), e il consueto duetto con l’amico Bruce in una “politica” That’s What Makes Us Great, dove le parole sono cantate in modo appassionato dalle voci di Grushecky e Springsteen, mentre Burn Us Down è un brano lento, una di quelle ballate dolenti e romantiche, cantate con voce potente e muscolare dall’autore. Si prosegue con una intrigante One Beautiful Night, dove sembra di risentire il repertorio dei vecchi dischi dei Drifters (quelli di Under The Boardwalk e Save The Last Dance For Me), mentre Blood, Sweat And Bears vira su un rock’n’roll vibrante, per poi passare ad una melodia contagiosa come The Voice, e una A Work In Progress, dove si evidenzia ancora una volta il lato più rock e gioioso dell’artista. Le chitarre elettriche spesso in primo piano accompagnano una briosa e ritmata Rev It Up, seguita da una sincopata Hell To Pay, dove chitarre, percussioni e trombe ricordano sfacciatamente il ritmo tribale dei brani del grande Bo Diddley, andando poi a chiudere con il tradizionale “gospel” degli anni ’30 Ain’t No Grave (registrato anche da Sister Rosetta Tharpe e Johnny Cash), e una incredibile ballata acustica Don’t Mourn For Me Like That, dove si manifesta in modo tangibile il lato più sensibile di Joe Grushecky e dei suoi Houserockers.

A quarant’anni dall’esordio con gli Iron City Houserockers con Love’s So Tough (79), questo 19° album More Yesterday’s Than Tomorrows (se non ho sbagliato i conti), segna un’altra piccola tacca nella carriera del solido “rocker” di Pittsburgh, un tipo che ha superato il traguardo dei settant’anni, ma che ancora continua a fare la sua musica, un rock “sangue, sudore e polvere” che non ascolterete certamente nelle grandi arene e stadi dove si esibiscono tante celebrate “stars”, ma più probabilmente in piccoli pub e locali di periferia (dove si ascolta la musica consumando casse di birra, e pinte di bourbon e whisky), per essere ancora oggi ufficialmente riconosciuti come una delle miglior “bar band” d’America. Come detto in altre occasioni, per il sottoscritto Joe Grushecky rimane uno dei tanti segreti meglio custoditi della musica rock americana, emarginato da sempre dalla sua “associazione sindacale”, come un gruppo di talentuosi songwriters degli anni ’70 (tra i quali Willie Nile e Elliott Murphy). Per gli amanti del genere e soprattutto del “Boss”, “smanettate” in rete (magari nel suo sito) e portatevi a casa questa ennesima “pietra miliare” della sua carriera, oppure rassegnatevi al download!

Tino Montanari

Sangue e Sudore, Rabbia e Passione Sul Palco Di Un Locale “Mitico”! Joe Grushecky & The Houserockers – American Babylon Live At The Stone Pony

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Joe Grushecky & The Houserockers – American Babylon Live At The Stone Pony – Self-released

A distanza di vent’anni dall’uscita di American Babylon (95), un album bello e ben fatto, con il pregio o il difetto (dipende da come si guardano le cose) che sembrava un disco di Springsteen cantato da un altro (infatti era prodotto dal Boss), Joe Grushecky e i suoi fidati Houserockers tornano ad Asbury Park, New Jersey, nel mitico club Stone Pony, per rivisitare “la pietra miliare” della propria carriera, in due torride serate svoltasi il 23 e 24 Ottobre del 2015. Davanti ad un pubblico entusiasta e caloroso, il buon Grushecky sale sul palco con l’attuale line-up della sua band storica. composta da Art Nardini al basso, Joffo Simmons alla batteria, Joe Pelesky alle tastiere, Danny Gochnour alla chitarra e mandolino, il bravissimo Eddie Manion al sax, e il “figlio d’arte”, ma vero, Johnny Grushecky, che si alterna alle chitarre e percussioni, per una performance di brani “muscolosi” che a tratti non fanno rimpiangere la mitica E-Street Band dei tempi d’oro, dell’amico fraterno Bruce.

La serata parte con il ritmo indiavolato della splendida Dark And Bloody Ground  dove le chitarre fanno scintille, seguita da una Chain Smokin’ che sembra quasi uscita con la carta carbone da un disco del Boss, dalla ballatona Never Be Enough Time con robusta sezione ritmica, per poi cambiare subito registro con la “rollingstoniana” American Babylon, e ancora dalla dominante Labor Of Love, sorretta da una batteria “granitica” e da un bel gioco di chitarre e tastiere, e chiudere alla grande la prima parte con il rock urbano di una “tirata” What Did You Do In The War. Dopo un paio di birre (forse un po’ di più) ghiacciate, si riparte con il rock venato country di Homestead, con mandolino, armonica e chitarre acustiche in gran spolvero (questa canzone e il brano iniziale portano entrambe la firma di Bruce Springsteen), mentre con Comin’ Down Maria si viaggia dalle parti del Messico, con il bel controcanto di Reagan Richards (nel disco di studio dava la voce Patti Scialfa, moglie del Boss), a cui fa seguito il meraviglioso talkin’ blues alla Willy DeVille di Talk Show con il lancinante sax di Eddie Manion in evidenza, per poi alzare ulteriormente il ritmo con No Strings Attached, una pausa per l’arioso valzer agreste di Billy’s Waltz, e a chiudere la rivisitazione dell’album arriva il blue-collar rock poderoso di Only Lovers Left Alive, dove gli Houserockers (un tempo Iron City Houserockers), dimostrano di essere ancora oggi una delle migliori “boogie-bar band” d’America.

Classico “working class hero” di vecchio stampo, Joe Grushecky è nato e cresciuto all’ombra di Bob Seger e Bruce Springsteen, ha sempre fatto dischi di buona fattura (anche se con alti e bassi) con canzoni urbane dal forte tessuto elettrico, suonate e cantate con fierezza da un musicista onesto che non si è mai venduto, e animato da uno spirito “operaio” ha cantato la stessa America del Boss, supplendo alla mancanza del genio di Bruce, con un rock realistico e vissuto, che si rivolgeva in particolare ad un seguito di “zoccolo duro” che usciva dalle fabbriche di Pittsburgh.

Come in ogni esibizione dal vivo, quando salgono sul palco Joe Grushecky e i suoi Houserockers danno il meglio di loro stessi, e anche questo American Babylon Live At The Stone Pony ne è l’ennesima conferma, con una manciata di belle canzoni, suonate in perfetto rock stradaiolo, album che piacerà a chi segue da tempo Grushecky, ai fans di Springsteen, e non solo a quelli. Imperdibile per rientra in queste categorie!

NDT: Purtroppo il CD non è di facile reperibilità, ma se vi “smazzate” sulle piattaforme in rete o sul suo sito, è possibile venirne in possesso.

Tino Montanari

“Heartland Rock” Persino Nella Valle Dell’Eden! Joe Grushecky – Somewhere East Of Eden

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Joe Grushecky – Somewhere East Of Eden – Schoolhouse Records/Warner Music 2013

Con una carriera musicale iniziata alla fine degli anni ’70, con il suo gruppo iniziale gli Iron City Houserockers (poi in seguito mutato solo in The Houserockers), Joe Grushecky (grande amico del Boss), per oltre tre decenni, è stato un degno alfiere (a fianco di John Mellencamp, Bob Seger, Tom Petty e naturalmente Springsteen), di quel genere etichettato come “Heartland Rock”, poi in seguito collocato anche come “Blue Collar Rock”. Questo diciassettesimo album solista del rocker di Pittsburgh, finanziato dai fans e che arriva dopo lo splendido live We’re Not Dead Yet (ne avevo parlato su queste pagine virtuali circa due anni fa discepoli-preferiti-di-springsteen-joe-grushecky-we-re-not-d.html), prende il titolo dal romanzo di John Steinbeck East Of Eden, lo trasporta ai giorni nostri e confeziona dodici canzoni sincere e genuine, coerenti con la sua carriera di “working class hero”, sempre a difesa degli emarginati e dei più deboli.

Lasciati a casa (in parte) i fedeli Houserockers, presenti solo Joe Pelesky alle tastiere e il batterista storico Joffo Simmons, Joe si avvale di musicisti di valore, a partire dal co-produttore Rick Witkowski alle chitarre e percussioni, Jeff Garrison al basso, Nat Kerr al piano, Rick Geragi alle percussioni, il figlio Johnny Grushecky al basso, con Bonnie Bishop e Vanessa Compagna alle armonie vocali, per dare vita (a sessant’anni suonati) ad un nuovo capitolo della sua copiosa discografia.

La partenza è fulminante con l’iniziale boogie-rock di I Can Hear The Devil Knocking e la ballata “blue collar” di Who Cares About Those Kids, con le chitarre elettriche in primo piano (specialità della casa), seguita dal tradizionale John The Revelator (brano reso popolare da Blind Willie Johnson nel lontano 1930), cantato da Joe in versione “a cappella” in forma gospel, mentre la title track Somewhere East Of Eden, che racconta le vicende di un veterano della guerra in Iraq, richiama lo stile “mainstream” di American Babylon (tutto muscoli e chitarre). Si riparte con la splendida When Castro Came Down From The Hills, (una canzone che mi ricorda i migliori Black Sorrows di Joe Camilleri ) accompagnata dalla magica tromba di Joe Herndon, a cui fanno seguito il quasi blues di I Still Look Good (For Sixty) e la ballata elettro-acustica Magnolia, dove si risentono piacevolmente armonie vocali anni ’70 (periodo Bob Seger).

Inaspettato, arriva il momento di Save The Last Dance For Me, famosissimo brano di Doc Pomus e Mort Shuman (portato al successo dai Drifters di Ben E. King) che viene rivisitato in modo onesto e intimo da Joe, per poi cambiare ritmo con il suono “garage” di I Was Born To Rock e il funky di Prices Going Up. Si chiude con la potente Changing Of The Guard (con il valido apporto del figlio Johnny al basso) e la ninna nanna acustica The First Day Of School, eseguita solo con chitarra e voce.

Somewhere East Of Eden nella lunga carriera discografica di Grushecky, merita un posto di primo piano, dopo American Babylon (95), Coming Home (97) e il più recente A Good Life (2006), un lavoro di rock urbano ed elettrico, pulsante e romantico, cantato con la consueta passione e fierezza, con un forte senso d’appartenenza, che permette a Joe Grushecky ancora oggi, di suonare con il suo stile da “bar boogie band”, in molti club della sterminata provincia americana. Niente di nuovo sotto il cielo, ma una garanzia per chi ama il buon rock’n’roll!

Tino Montanari

Un Altro Galletto Nel “Pollaio” Del Rock! Martin Zellar And The Hardways – Roosters Crow

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Martin Zellar & The Hardways – Roosters Crow – Owen Lee Recordings Self Released 2012

Cosa accomuna Martin Zellar ex leader dei Gear Daddies (formazione di Minneapolis) con Will T. Massey, Michael McDermott (è uscito da poco un nuovo lavoro), Willie Nile, Joe Grushecky, il primo Matthew Ryan e le “meteore” Billy Falcon , Doc Lawrence e Larry Crane (il fidato chitarrista di Mellencamp)? Sono tutti “rockers” riconducibili a quello stile, figlio di Springsteen e cugino di Earle e Mellencamp, fatto di ballate elettriche stradaiole, di racconti di vita semplice e quotidiana che in buona parte abbiamo imparato ed amare grazie al “Boss”. Metà rocker e metà songwriter, il buon Martin Zellar è uno di quelli che nella seconda metà degli anni ’90, con un esordio importante Born Under (95), il seguente omonimo Martin Zellar (96) e direi anche The Many Moods of Martin Zellar (98), ha alimentato la speranza di una nuova ondata di giovani di belle speranze (quelli che ho elencato), dal sound elettrico e dal cuore romantico. A dieci anni dall’ultimo lavoro in studio Scattered (2002), Martin Zellar si rimette in gioco con i suoi fidati Hardways (che sono Dominic Ciola al basso e Scott Wenum alla batteria), con questo lavoro Roosters Crow (uscito da qualche mese), sotto l’esperta produzione di Pat Manske e con l’apporto di validi musicisti texani come Lloyd Maines al dobro e pedal-steel, Bukka Allen all’organo, Michael Ramos al piano, e le redivive Kelly Willis e Terri Hendrix alle parti vocali, il rocker di Minneapolis si è rimesso di nuovo sulla strada giusta.

Si parte subito alla grande con Took The Poison , una splendida ballata notturna, tra le più belle ascoltate quest’anno, con una melodia toccante valorizzata dal controcanto della Willis, seguita da Wore Me Down, tipico brano in mid-tempo accelerato con uso di dobro e mandolino. Si ritorna alla ballata con Running On Pure Fear, cantata ancora con la brava Kelly Willis, brano dall’andatura sognante, che si sviluppa in un crescendo quasi rabbioso, mentre Give & Take ha un ritmo più campagnolo dove entrano in gioco la fisarmonica, il mandolino e il dobro, un brano dal quale molti nomi di punta del “nuovo country”, dandogli un ascolto, potrebbero trarre qualche spunto e giovamento. Roosters Crow inizia con la batteria tambureggiante di Wenum e il basso di Nick Ciola, che dettano il tempo di una canzone tipicamente “blue collar”, che purtroppo, secondo chi vi scrive, da un po’ di tempo Joe Grushecky non sa più scrivere.

Si cambia ritmo con l’anonima I’m That Problem, mentre Some Girls è un’altra bella rock-song cantata al meglio da Martin, dove musicalmente si fa notare una bella slide, bissata da Where Did The Words Go? che si sviluppa su un tessuto sonoro guidato da pianoforte e cello. La canzone successiva, Seven Shades Of Blue, mette in risalto la bravura di Maines al dobro, mentre The Skies Are Always Gray è il cambio di rotta che non ti aspetti: chitarre in spolvero, organo in tiro con Bukka Allen sugli scudi, per un brano che solo un americano “vero” può fare, con tanto feeling, mentre la conclusiva It Works For Me è un brano country-rock, dominato dalla sezione ritmica, al quale la voce aggressiva (anche se non straordinaria) di Zellar conferisce caratteristiche urbane.

Dopo 25 anni di carriera Martin Zellar e i suoi Hardways dimostrano di essere degli “outsiders” di lusso in un panorama musicale alquanto stagnante ultimamente, dove in definitiva questo lavoro Roosters Crow (bellissima la copertina), è senza una sbavatura, suonato e cantato splendidamente, consigliato a chi ama il Boss e i derivati, per il sottoscritto la conferma che dopo anni di anonimato, Zellar, fortunatamente, ha visto di nuovo la luce.

Tino Montanari

Discepoli (Preferiti) Di Springsteen! Joe Grushecky – We’re Not Dead Yet Live

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We’re Not Dead Yet – Joe Grushecky and the Houserockers – Schoolhouse Records – 2012

Amico fraterno di Springsteen, protagonista principe di quello che è stato definito “blue collar rock”, fin dai tempi ormai lontani degli Iron City Houserockers (una delle più misconosciute e valide rock-bands  a cavallo tra fine ’70 e primi anni ‘80), Joe Grushecky ci ha abituato a dischi che mischiano il miglior  rock “stradaiolo” americano con ballate che non tradiscono il romanticismo tipico di questo genere. Due sono (per chi scrive) gli album fondamentali della sua copiosa e valida discografia e per conoscere questo “rocker” di Pittsburgh, cresciuto in mezzo alla siderurgia e , e poi diventato uomo con Bruce nel cuore: American Babylon (95), un disco dal suono fortemente chitarristico (prodotto dallo stesso Springsteen), e Coming Home (97), album più meditato e personale, con una serie di grandi ballate e canzoni dal tono romantico e “soul”. Negli oltre 30 anni di carriera, Joe si è sempre fatto accompagnare nei suoi lavori dagli Houserockers, una band fedele, strutturata come una piccola E Street Band dal suono potente, perfettamente in linea con i rumori urbani e aspri del rock della Pennsylvania.

Come ogni nuovo disco di Grushecky che si rispetti, anche questo “live” (registrato in due serate infuocate nel Settembre scorso) al New Hazlett Theater di Pittsburgh, ricalca la sua musica, fatta di forza ed energia, ritmo e potenza, un degno omaggio alla sua città natale. Scomparso Bill Toms, (ormai proiettato in una degna carriera solista), la nuova “line-up” della band è composta dai veterani Art Nardini al basso, Joffo Simmons alla batteria, e il tastierista Joe Pelesky, con l’apporto del figlio Johnny, Dan Gochnour , il produttore Rick Witkowsky , e naturalmente il buon “vecchio” Joe alle chitarre e vocals.

La prima parte inizia con East Carson Street,  e immediatamente mostra di che vaglia siano questi “dannati” Houserockers, confermata da una selvaggia versione della “springsteeniana” Another Thin  Line in stile Clash. Si picchia duro anche in American Babylon, mentre la ballata urbana dal titolo lunghissimo Don’t Forget Where You’re Coming From, mostra il lato più romantico e sensibile di Joe.

I’m Not Sleeping è un altro brano uscito dalla penna con Bruce, mentre Coming Home dimostra di essere un brano perfetto in versione “live”. La “vecchia” Rock and Real non perde un briciolo della sua bellezza, con le chitarre tirate allo spasimo, come nella seguente The Sun Is Going To Shine Again con una batteria dura ed un bel gioco di chitarre e tastiere. I Always Knew e Pumping Iron sono brani che mettono in  risalto la sua vena di “rocker” ruspante. Chiude il primo set una Hideaway di grande impatto, con una batteria che rulla alla grande, per un rock d’annata, dove sembra di sentire il primo Graham Parker.

Il concerto riprende con una indiavolata Swimming With the Sharks, una lunga cavalcata che esalta la band, mentre nella seguente Everything’s Gonna Work Out Fine sembra di essere tornati ai tempi di End  of the Century, piccolo capolavoro personale di Joe con un bel contrappunto di armonica, e assolo di chitarra. Una bella melodia e un delizioso riff di chitarra introduce Chain Smokin’ , una ballata che   sembra uscita da un disco del “Boss”, mentre Chasing Shadows  possiede una ritmica possente, tutta giocata tra chitarre e batteria. A questo punto devo chiedervi di rilassarvi, perché con Dark and Bloody Ground siamo in territorio Bruce, un brano scritto a quattro mani da Joe è sua maestà del New Jersey, una di quelle canzoni nelle quali sono presenti delle cavalcate chitarristiche, che incendiano il pubblico in sala. Meravigliosa. Senza un attimo di tregua si riparte con Have a Good Time, But Get Out Alive, e Junior’s Bar, due brani dal tosto impatto elettrico, che si rifanno alla miglior tradizione del rocker di Pittsburgh. Code of Silence è l’ultimo brano scritto con Springsteen in scaletta, cantato dal leader con voce rabbiosa, mentre A Good Life è un tipico brano rock come venivano fatti tra la fine degli anni  settanta e i primi ottanta. Chiude un Concerto splendido We’re Not Dead Yet, una bruciante rock song che rimanda al Neil Young in Tour con i Crazy Horse.

Dopo anni e anni “on the road” il tempo non ha intaccato il genuino feeling con il “rock and roll” di questo appassionato, viscerale, intenso e caparbio “rocker”, ancora capace di offrire musica di grande qualità, attraverso le sue songs fatte di fatica e sudore ( l’ideale cantore dell’America che raramente vediamo e sentiamo nella sua cruda realtà). Joe Grushecky e i suoi Houserockers non richiedono il vostro rispetto, perché tanto lo guadagnano ogni volta che salgono sul palco. Consiglio ai naviganti: ascoltate questo CD a tutto volume, possibilmente sorseggiando un buon whisky torbato.

Autoprodotto e distribuito in proprio, non di facile reperibilità.

Tino Montanari

*NDB Mi scuso con i lettori del Blog, ma come avrete notato c’è un problema tecnico con il Post odierno.

Un “Comprimario” Di Classe – Bill Toms – Memphis

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BILL TOMS – Memphis – Terraplane Records 2011

E’ il caso di dire che l’allievo ha superato il maestro. Per chi frequenta le cronache del rock americano il suo nome non è nuovo, perché per un sacco di tempo Bill Toms è  stato il chitarrista degli Houserockers di Joe Grushechy, una delle più longeve “blue collar” band americane. Bill durante i suoi 25 anni di carriera artistica come chitarrista ( iniziata nel lontano 1987 nella leggendaria band di Pittsburgh), ha esordito nel 2000 con la sua band gli Hard Rain con My Own Eyes, sfornando in seguito lavori sempre di buon livello come This Old World, Paradise Avenue, The West end Kid, Spirits Chaos and a Troubadour Soul fino all’introvabile EP One Lonesome Moment,oltre al bellissimo Live At Moondog’s, tutti ispirati ad un rock stradaiolo, figlio di personaggi del calibro di Bob Seger, John Mellencamp, il suo mentore Joe Grushechy, ma più di tutti è stato Bruce Springsteen “il Boss” la figura di maggior riferimento di Toms.

Con questo nuovo Memphis (dal titolo emblematico) prodotto da Will Kimbrough , Bill ha
trovato il tempo e l’occasione giusta per mettere insieme un piccolo repertorio personale che
oltre alle ballate, riscopre una certa tradizione Soul e Rhythm & Blues per una musica  più
“southern ”. Con una  “squadra di musicisti”, che comprende Will Kimbrough che suona
di tutto (chitarra, basso, mandolino e armonica), Tom Breiding alle chitarre acustiche, Steve
Binsberger al piano, il bravissimo Phil Brontz al sax, Tom Valentine al basso, Bernie Herr alla batteria, Mark Cholewski alle chitarre, e Marc Reisman, Rick Witkowski, David Henry alle armoniche e percussioni, per un “sound” puro heartland rock.

Si parte con il Bo Diddley sound di I Won’t go to Memphis No More con il piano di Steve in evidenza, seguita da una ballata Colleen Goodbye cantata con una voce da carta vetrata, con  il sassofono di Phil Brontz a sputare note infuocate a ricordare il mai dimenticato Clarence Clemons. Misery si dimostra un brano dal profilo volutamente dimesso, cui fa seguito una On the Road of Freedom dall’inizio prettamente blue collar rock con un’armonica che apre all’intervento del sax, per un ritornello che entra subito in circolo.

Somebody Help Me e Waiting on the Pain, sono brani che ricordano il miglior Gary U.S. Bonds.  Una chitarra acustica introduce I’m Getting Closer un’altra ballad di spessore giocata sempre con il sax di Phil , l’elemento che caratterizza indistintamente il suono degli Hard Rain. Un piano notturno introduce una “maestosa” Tear This Old House Down, interpretata con voce e cuore da Bill, brano che non sfigurerebbe su un disco del primo Tom Waits, ad esempio The heart of Saturday Night. Meravigliosa!

Si cambia decisamente ritmo con una Lord don’t Take Me Now con la ritmica e l’organo per un suono da perfetta bar-boogie band. Con Hold On si tocca il punto più alto del lavoro, una ballata desertica con un’armonica “morriconiana” cantata in modo struggente e sofferto, brano che rimanda ad un periodo felice, quando una canzone sembrava poter cambiare il mondo e Springsteen era visto come il pioniere di una nuova era musicale. Da brividi. Per non uscire dal tema dopo una canzone di tale livello segue una I’ve Made Peace Now, dove le chitarre, il piano e l’immancabile sax disegnano un delicato tessuto sonoro. Si chiude come si era iniziato, con una Let’s Make a Better World dall’incedere saltellante dove traspare chiaramente che i componenti oltre alla loro bravura, si divertono alla grande a suonare con Bill Toms.

Memphis è la buona prova di un validissimo gregario diventato capitano, che senza grandi pretese ha realizzato un disco sui bei tempi andati, che lascia aperte tutte le porte ad un rock americano, un CD magari non impedibile, ma schietto e onesto dalla prima all’ultima nota.  Consigliato !!!

Tino Montanari

Dal “Profondo” Dell’America. JD Malone & The Experts – Avalon

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JD Malone & The Experts – Avalon – CD+DVD – Its About Music 2011

 Spendere oggi con coscienza il proprio denaro nell’acquisto di costosissimi CD, è cosa ardua. La scelta è vasta, l’offerta supera senza dubbio la domanda, ed organizzare le risorse è obiettivamente difficile. Chi avrà un po’ di spregiudicato coraggio e comprerà il CD di tale JD Malone & The Experts, non rimarrà deluso. Il nostro, nato in una piccola cittadina di nome Bennington nello Stato del Vermont, è stato il fondatore e frontman di un gruppo di nome Picnic Steamroller dalla scarsa visibilità, per approdare nel Settembre 2004 a lavorare con gente come Gerry McWilliams, Pete Donnelly, ed artisti del livello di Natalie Merchant, Amos Lee e Wallflowers. Nel 2008 JD ha pubblicato il suo primo EP Dia de los muertos, seguito nel 2010 dal secondo disco solista Save My Face, che lo porta a condividere il palco con nomi altisonanti tipo Eric Andersen e Tom Gillam.

C’è un intero mondo rock in questo Avalon, un mondo che va da Bob Seger a Willie Nile,i Del Lords, passando per Joe Grushecky, un genere che ormai è ridotto a nostalgia e solo le ristampe e le “outtakes” lo tengono in vita. Accompagnato dai fidati Experts, compagni di tante bevute, con Tommy Geddes alla batteria, Avery Coffee alla chitarra, Jim Miades al basso, e il bravissimo Tom Hampton che suona di tutto, dalle chitarre, al mandolino, al dobro e pedal steel, per una musica immediata, diretta, con ritmo e potenza alla maniera dei grandi rockers, tipicamente “blue collar”.

Si parte alla grande con una stradaiola Silver From, che rimanda ai primi Bodeans, cui fa seguito Still Love you una ballata in mid-tempo in cui il fraseggio di JD, eccelle. Leave Us Alone altra ballata con una bella melodia e un delizioso riff di mandolino presente nel ritornello, preludio di un cambio di ritmo con una “rokkata” She Likes cantata in versione Blues. A questo punto devo chiedervi di rilassarvi perché è il turno di una delle perle del disco Sweet Evil Things, con la chitarra di Hampton che cuce la canzone dalla prima all’ultima nota, e su questo tessuto si sviluppa una ballata degna del miglior John Hiatt. Si ritorna alla normalità con una Just Like New, troppo simile a mio avviso a tanti brani senza particolari acuti, per smentirmi subito con una superba Avalon , una canzone piena di pathos e la voce di Malone, in gran forma che ricorda il grande David Gray.

Seguono una Ballad of Mr.Barbo che si sviluppa con un giro di basso, per una bella progressione armonica che accompagna una bella melodia, e una struggente Black Yodel con la pedal steel sugli scudi. Si arriva all’unica “cover” del disco, una coraggiosa Fortunate Son dei Creedence Clearwater Revival, eseguita con cuore e passione, come dovrebbe sempre essere per i brani “immortali”. Do what you can do, passa inosservata, mentre Emerald Lake per contro è una ballatona di altri tempi, con contrappunto della pedal steel di Tom, che consiglierei di ascoltare a qualunque animo inquieto. Capolavoro. Chiude il lavoro una lunga Emmit Meets a Demon con ritmica possente, tutta suonata tra basso e batteria in forma vagamente psichedelica, a dimostrare le bravura di quelle “canaglie” degli Experts. Il CD presenta inoltre 5 Audio Tracks eseguite dal vivo e un DVD di performance in Studio durante la registrazione del disco.

Avalon può essere senz’altro il primo passo per avvicinarsi ad un “rocker” onesto e sincero, figlio come tanti altri  della “working class hero”, in fondo la buona musica richiede qualche sacrificio e un pizzico di coraggio, anche di chi acquista i CD. Cercatelo, ne vale la pena.

Tino Montanari

Grande Rock Dalla Città del Ferro – Joe Grushecky and the Houserockers

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Joe Grushecky and The Houserockers – East Carson Street (Schoolhouse Records)

Ci sono i Berretti Verdi e i Colletti Blue: questo è grande blue collar rock, con Bruce Springsteen e Willie Nile.

Per chi non conosce, questa è una delle tante collaborazioni tra Grushecky e Springsteen.

Bruno Conti