Un Disco “Acquatico”! Lisa Hannigan – At Swim

lisa hannigan at swim

Lisa Hannigan – At Swim – PIAS/Play It Again Sam – ATO

Terzo album solista per la cantante irlandese, forse il suo migliore in assoluto, dopo i peraltro buoni Sea Sew Passenger. Nel titolo dell’album o dei brani ci sono comunque sempre alcuni rimandi all’acqua, da cui il titolo del Post, ma poi le canzoni si allargano sia tematicamente che a livello musicale in mille direzioni. La voce è sempre stata una delle carte vincenti di Lisa Hannigan, sin dai tempi in cui era la seconda voce nei primi dischi del conterraneo Damien Rice, ma nei suoi album solisti ha saputo sviluppare uno stile musicale e compositivo che se non è originale è sicuramente affascinante. In passato si erano fatti paralleli con Jesse Sykes, Vashty Bunyan, Bjork, Tori Amos, Kate Bush, Fiona Apple, Marissa Nadler e molte altre, io, dopo un attento’ascolto dei brani di questo album, oltre ai nomi appena ricordati mi sentirei di azzardare anche il folk delle Unthanks, o la musica delle Roches Kate & Anna McGarrigle, visto che spesso la Hannigan usa la voce sovraincisa con il double-tracking e quindi sembra di ascoltare diverse cantanti in azione in contemporanea, peraltro con eccellenti risultati, ed atmosfere sonore e vocali sempre differenti e complesse, quasi dark, lasciando da parte quasi totalmente anche quelle derive pop, sia pure eccentriche, presenti negli album precedenti.

Il disco, dopo il precedente Passenger prodotto da Joe Henry, vede in cabina di regia Aaron Dessner dei National. che si era offerto spontaneamente di collaborare con la Hannigan, e dopo un fruttuoso incontro preliminare in quel di Copenaghen, per scambiarsi idee e bozzetti. il tutto è stato registrato in quel di Hudson, New York. Le canzoni sono state concepite tra Dublino, Parigi, dove ha vissuto per qualche mese, e Londra, che per un breve periodo è stata la residenza di Lisa, che vi si era trasferita per superare un blocco dello scrittore (ma “writer’s block” suona meglio) che l’aveva colpita dopo la fine del lungo tour seguito al secondo album. Il trasferimento a Londra deve essere stato un mezzo shock perché le canzoni, almeno dai titoli, non suonano felicissime: Prayer For The Dying, We The Drowned (questa anche di carattere marino), Funeral Suit, mentre l’iniziale Fall porta pure la firma di Joe Henry, ed è anche uno dei brani più vicini come stile al passato, il testo si apre su un  desolato e criptico “Hold your horses, hold your tongue/ Hang the rich but spare the young.”  Con la sua solitaria acustica arpeggiata, una melodia fragile ma che si ravviva leggermente nel ritornello, la voce raddoppiata quasi sussurrata che inizia ad incantare con i suoi deliziosi svolazzi, e poco altro, una elettrica e delle tastiere sullo sfondo, il tutto con un leggero tempo di valzer che pare il ritmo predominante dell’album. Prayer For The Dying è splendida, una commovente canzone mistica, quasi religiosa, come suggerisce il titolo, una sorta di Ave Maria contemporanea, con la voce, di nuovo double-tracked, che sale e scende su una base di piano acustico, tastiere e chitarre slide trattate, una ritmica appena accennata e un’aria di sereno dolore che la pervade, veramente molto bella.

Snow, di nuovo intima e raccolta, ricorda certe cose di Bjork o Kate Bush, la voce a tratti finalmente in solitaria può rammentare anche quella della Dolores O’Riordan prima della svolta rock dei Cranberries o della Sinead O’Connor meno incasinata, con violino in evidenza e un mood irlandese che rafforza questa impressione, mentre Lo, scritta con Aaron Dessner, si appoggia su una cascata di strumenti a corda e tastiere, la solita leggera elettronica e le voci moltiplicate che possono avvicinarsi a quelle di altre cantautrici complesse come Tori Amos Sarah McLachlan, ma anche le Roches, le sottovalutate sorelle newyorkesi. Con Undertow, che grazie alla sua struttura complessa e fruibile ricorda la migliore Kate Bush, con la voce che fluttua su una melodia futuribile dove però fa capolino anche un banjo e Ora, di nuovo firmata con Dessner, che tenta un approccio più bucolico, avvicinandosi a certe splendide e acrobatiche ballate pianistiche delle sorelle McGarrigle, impressione ancora più percepita da chi scrive, nella meravigliosa Anahorish, meno di due minuti di sola voce a cappella raddoppiata e triplicata per musicare un poema del premio Nobel irlandese Seamus Heaney, da brividi.

Ma prima incontriamo le derive acquatiche e marittime della pianistica We, the drowned, dove una batteria quasi marziale sottolinea l’incedere appassionato della voce incredibile e emozionante della Hannigan, ancora una volta protagonista di quella che è comunque, volendo, anche una bella ballata tra classico e pop, raffinata ma “popolare”, con l’inizio che mi ha ricordato addirittura A Day In The Life dei Beatles (e credo sia un grande complimento). Tender, di nuovo pianistica, ma con un tocco mitteleuropeo grazie alla fisarmonica, mischia arie francesi (o canadesi, come facevano le più volte citate grandi sorelle McGarrigle) e la migliore tradizione delle cantautrici britanniche più raffinate in un tutt’uno che poi alla fine è unico ed esclusivo della musica della Hannigan, geniale artigiana creatrice, insieme a Dessner, di un sound di non facile ascolto ma che regala grandi soddisfazioni all’ascoltatore, come nella splendida ballata Funeral Suit, altra canzone gloriosa che riecheggia anche le ascensioni vocali di quella splendida cantante che è stata Mary Margaret O’Hara (chissà se vorrà ancora deliziarci prima o poi?). In conclusione l’ultimo brano scritto con Dessner, Barton, altra misteriosa e notturna composizione degna delle migliori cantautrici. Ripeto, musica non facile, ma che ascolto dopo ascolto si arricchisce di nuovi particolari e gratifica l’ascoltatore. Ovviamente se amate solo il riff e rock lasciate perdere, se i vostri gusti sono più eclettici potete provare. Esce oggi.

Bruno Conti

Non Più Solo Countryman, Ma Un Songwriter Completo! Hayes Carll – Lovers And Leavers

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Hayes Carll – Lovers And Leavers – Highway 87/Thirty Tigers CD

Con cinque dischi in quindici anni, non si può certo dire che Hayes Carll, singer-songwriter texano, sia uno che inflazioni il mercato discografico. Dopo i due album di esordio, nei quali aveva fatto già intravedere buone qualità (specie nel secondo, Little Rock), è con lo splendido Trouble In Mind del 2008 che il nostro si rivela come uno dei più dotati talenti in campo alternative country, con un disco di ottime canzoni in perfetto stile Americana, condite da testi contraddistinti da uno spiccato senso dell’ironia, un lavoro bissato tre anni dopo dall’altrettanto valido KMAG YOYO, altro CD molto country-oriented che non faceva che confermare quanto di buono Carll aveva mostrato in precedenza.

Ora, a ben cinque anni di distanza, Hayes torna tra noi con Lovers And Leavers, che segna un deciso cambiamento di registro: un lavoro molto meno country e più folk, nel quale il nostro predilige le ballate ed i pezzi più riflessivi, ma da un certo punto di vista migliora anche la qualità della sua proposta: Lovers And Leavers ci mostra infatti un autore definitivamente maturato, che ha una perfetta padronanza della materia e sa come fare un album intero di sole ballate senza annoiare neppure per un attimo. In più, Hayes ha scelto come produttore uno dei migliori sulla piazza, Joe Henry, che fa al solito un ottimo lavoro e si conferma perfetto per un certo tipo di sonorità, cucendo attorno alla voce del nostro pochi strumenti, centellinando gli interventi, e mettendo in risalto le melodie piene di fascino dei dieci brani presenti. Anche la band che accompagna Carll è frutto di una attenta selezione: oltre a Hayes stesso che suona la chitarra acustica, troviamo il fedelissimo (di Henry) Jay Bellerose alla batteria, che come di consueto fa un lavoro raffinatissimo e mai invasivo, l’ottimo Tyler Chester al piano ed organo, David Piltch al basso ed Eric Heywood alla steel; avrete notato l’assenza assoluta di chitarre elettriche, ma devo dire che durante l’ascolto del CD quasi non ci si fa caso.

Dulcis in fundo, Hayes ha scritto i pezzi di questo disco con alcuni personaggi a noi ben noti, dal famoso countryman Jim Lauderdale, ai meno conosciuti ma non meno validi Darrell Scott e Will Hoge, passando per Jack Ingram, l’ex signora Earle, Allison Moorer e, in Jealous Moon, addirittura J.D. Souther. Drive inizia soffusa, con un arpeggio chitarristico ed una leggera percussione, e la voce di Carll ad intonare una melodia molto folk, un brano puro con un bel crescendo emozionale. E la mano di Henry si sente già. Molto bella Sake Of The Song, un pezzo tra folk e blues dal motivo coinvolgente, ritmo cadenzato ed ottimi fills di piano, steel ed organo, mi ricorda curiosamente certe cose dei Kaleidoscope (un grandissimo gruppo oggi purtroppo totalmente dimenticato dove suonavano David Lindley Chris Darrow): grande canzone. Anche Good While It Lasted è dotata di un pathos notevole, pur avendo tre strumenti in croce intorno alla voce particolare del leader: è proprio da brani come questo che si comprende la crescita esponenziale del nostro come autore, e la scelta di Henry, un maestro della produzione “per sottrazione”, si rivela vincente.

You Leave Alone ha l’andatura di una country ballad, ma anche qualche vaga somiglianza con Deportee di Woody Guthrie: voce e poco altro, ma che feeling; My Friends ha un suono più pieno, con punti in comune con il country “cosmico” di Gram Parsons, il passo è sempre lento ma non ci si annoia per niente; The Love That We Need, scritta a sei mani con Ingram e la Moorer, è in effetti una delle migliori del CD, con la sua melodia splendida e grande uso del piano, una ballata sontuosa. La tenue e “sotto strumentata” Love Don’t Let Me Down precede The Magic Kid, altra folk song purissima e dal solito accompagnamento pulito e di gran classe. Il dischetto termina con Love Is So Easy, molto John Prine primo periodo (testo ironico compreso) e graditi riff di organo stile sixties, e con Jealous Moon, chiusura malinconica e poetica per un album davvero notevole.

Ottime canzoni, musicisti di valore e produzione perfetta: Hayes Carll ormai è uno dei “nostri”.

Marco Verdi

Una “Voce” E Una Leggenda Della Musica Soul ! Bettye LaVette – Worthy

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Bettye LaVette – Worthy – Cherry Red Records – Deluxe Edition CD + DVD

Chi non conosce Aretha Franklin, Etta James, Ann Peebles, Mavis Staples (le prime che mi vengono in mente)? Troppo facile. Ma chi conosce invece Bettye Lavette?. Con oltre mezzo secolo di carriera alle spalle, su Betty Haskins (vero nome all’anagrafe) si potrebbero scrivere molte pagine per descrivere questa meravigliosa cantante soul, un’artista decisamente affascinante e importante nella cultura soul, che solo nell’ultimo decennio è tornata in auge (purtroppo era rimasta in sordina per troppo tempo), dedicandosi da qualche anno in qua a rileggere le canzoni altrui. Bettye, purtroppo, ha un percorso artistico travagliato tra i primi anni ’60 e i primi ’80, cambiando varie etichette, con incisioni per Atlantic, Calla, Karen, Silver Fox, Epic e Motown, comunque riuscendo ugualmente a lasciare i segni della sua classe con brani come Let Me Down Easy, Your Turn To Cry, Souvenirs e  He Made A Woman Out Of Me, creandosi nel tempo un seguito di fans da cantante di “culto”.

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Poi, dopo il bellissimo live Let Me Down Easy (00), in contemporanea all’ottimo Souvenirs (un album del ’73 che viene ristampato con l’aggiunta di altre incisioni ritrovate nel frattempo), viene riportata alla sua migliore dimensione qualitativa, prima con A Woman Like Me (03), e al passo coi tempi, da I’ve Got My Own Hell To Raise (05) prodotto dal grande Joe Henry, con una decina di cover tutte di autrici femminili (Sinead O’Connor, Lucinda Williams, Sharon Robinson, Aimee Mann, Rosanne Cash, Joan Armatrading, Dolly Parton, Fiona Apple), con arrangiamenti particolarmente originali e una “voce” sempre in splendida forma. Dopo il ritrovato successo Bettye incide The Scene Of The Crime (07) con una band come i Drive-By Truckers alle spalle, con brani soul potenti e blues elettrici, a cui farà seguito un viaggio sonoro attraverso brani che hanno fatto la storia del rock inglese Interpretations: The British Rock Songbook (10), con canzoni di Beatles, Rolling Stones, Led Zeppelin, Pink Floyd, Who, Elton John (solo per citarne alcuni), celebrando infine i 50 anni di carriera musicale con la pubblicazione di Thankful ‘N’ Thoughful (12), una selezione di brani contemporanei, scritti da Bob Dylan, Tom Waits, Neil Young, Patty Griffin, (e la versione di Dirty Old Town dei Pogues, che da sola, vale il disco).

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Questo ultimo lavoro Worthy ripropone, dopo dieci anni, l’accoppiata vincente con Joe Henry (un vero Re Mida della produzione), perfettamente coadiuvato dal magnifico gruppo di musicisti che accompagnano da tempo il cantautore del North Carolina, composto da Jay Bellerose alla batteria e percussioni, Chris Bruce al basso, Patrick Warren alle tastiere e il chitarrista Doyle Bramball II, con il contributo al sax (baritono e tenore) di Ben Chapoteau e di Levon Henry (il figlio di Joe), con un repertorio che va a pescare fra i brani meno noti, tra gli altri, nuovamente, di Dylan, Beatles e Rolling Stones.

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Si parte con il piano che accompagna un irriconoscibile brano di Dylan, Unbelievable (pescato da Under The Red Sky), per passare ai ritmi Motown di una When I Was A Young Girl, ad un classico di Mickey Newbury come Bless Us All rifatto in chiave blues, omaggiare il produttore rivisitando la sua Stop (dall’album Scar) con una bella sezione fiati in evidenza, ed a una inaspettata cover di un brano degli Over The Rhine Undamned, suonata e cantata come fosse per i clienti di un Bar di Casablanca. Le sorprese proseguono con una poco conosciuta Complicated del duo Jagger/Richards (per chi non lo ricordasse era in Between The Buttons), una sofferta ballata di Randall Bramblett Where A Life Goes, per poi passare ad una spettacolare versione di un brano dal titolo chilometrico, Just Between You And Me And The Wall, You’re A Fool, meritoriamente ripescata dal repertorio di un grande gruppo come gli Amazing Rhythm Aces , mentre con Wait dell’accoppiata Lennon/McCartney,  Bettye riesce a trasformare una canzone dei Beatles (da Rubber Soul), in una chaive soul, cosa che non a molti è riuscita con successo. La chiusura di un lavoro magnifico è affidata alla classica soul-ballad Step Away, della semisconosciuta e brava Christine Santelli http://www.christinesantelli.com/, e alla title track Worthy presa dal repertorio più recente della Mary Gauthier, (scritta in collaborazione con un’altra brava cantautrice come Beth Nielsen Chapman).

La carriera di Bettye LaVette (per chi scrive) è una serie di piccoli eventi, il tempo per fermarsi ad ascoltare una delle più belle voci della “black music” si trova sempre, e in questo Worthy una manciata di cover (a volte anche apparentemente lontane dal suo genere), vengono riportate a nuova vita da questa quasi settantenne, che ci mette anima e corpo, sangue e passione, al punto che viene il sospetto che i vari autori che hanno scritto il materiale, abbiano scritto quelle canzoni “solo” per lei. Betty Haskins LaVette ha quindi trovato negli ultimi dieci anni, tutto il riconoscimento che le era mancato da giovane “soulsinger”, e Worthy non fa altro che testimoniare il grande valore di questa straordinaria artista, sperando che contribuisca ulteriormente a darle la notorietà internazionale che merita. Toccante !

NDT: Il DVD contiene un’ora e mezza di “performances” live, registrate a Londra al The Jazz Cafè il 15 Luglio del 2014, dove questa “arzilla” signora ripercorre il suo classico repertorio. Da vedere e sentire, questi i brani contenuti nel video:

The Word
Everything Is Broken
Your Time To Cry 
https://www.youtube.com/watch?v=GElWMUWj2_w
They Call It Love
Joy
Heart Of Gold
Don’t Let Me Be Misunderstood
Either Way We Lose
Blackbird
My Man – He’s A Loving Man
Like A Rock
Heaven (The Closest I’ll Get)
Sleep To Dream
I Do Not Want What I Haven’t Go

Tino Montanari

Novità Di Agosto, Parte III. Empty Hearts, Paul Thorn, Ruthie Foster, James Yorkston, Dr. John, Look Again To The Wind – Tribute To Johnny Cash Bitter Tears

empty hearts

Nella settimana successiva a quella in cui, per la prima volta in 37 anni di onorata carriera discografica, Tom Petty con Hypnotic Eye era salito al 1° posto delle classifiche di Billboard, e il tributo a JJ Cale di Eric Clapton era secondo (ma è stata una bella sorpresa di breve durata, questa settimana al numero uno c’è già l’Awesome Mix (?!?) della colonna sonora di Guardians of The Galaxy e al secondo, Now 51), continuiamo con l’elenco delle  novità di agosto.

Prima di tutto una sorta di supergruppo che mi era sfuggito (il CD è uscito negli States il 5 agosto): si tratta degli Empty Hearts, nome fornito per gentile concessione di Little Steven, che pare abbia una lista secreta di nomi di band mai utilizzati o comunque rari (perché in effetti mi pare ci siano dei metallari nordici, forse sevedesi, con lo stesso nome). Supergruppo è forse una parola forte, non sono musicisti particolarmente famosi, per quanto: Wally Palmar, la voce solista e chitarra ritmica viene dai Romantics, Elliot Easton, la chitarra solista, era nei Cars, Andy Babiuk, il bassista, era nei Chesterfield Kings e Clem Burke, alla batteria, viene dai Blondie. A completare la formazione, come special guest, troviamo Ian McLagan, il mitico tastierista dei Faces. E il genere, guarda un po’, mi ha ricordato, a grandi linee, proprio di quello di Tom Petty. Ampie dosi di sixties pop, mutuato dalla British Invasion, Power Pop (e rock) nel DNA di Romantics e Chesterfield Kings, armonie vocali prese dal rock anni ’70 e ’80 californiano, qualche tocco di garage punk, proveniente dalle prime esperienze di Cars e Blondie, e sempre presente nella musica di Romantics e Chesterfield Kings https://www.youtube.com/watch?v=6jaRdPgW7EI . Niente di trascendentale, ma una manciata di canzoni estremamente piacevoli, con chitarre a manetta, ritmiche fresche e pimpanti, tanta passione, sembra di essere in un disco, oltre che di Petty, di Dwight Twiley o dei Knack, ma anche dei primi Who, divertente e scanzonato, con la bella voce di Palmar spesso in evidenza e riff come piovesse. L’estate starà anche finendo, come recitava quella famosa canzone, ma secondo i maestri californiani Beach Boys ce n’è una anche senza fine, la cui colonna sonora potrebbe essere questo disco  . In I Found you again, un ballatone con uso di pedal steel, sembra di ascoltare una via di mezzo di tra il country e il Tom Petty più byrdsiano, mentre in Drop Me Off At Home sembra di essere capitati tra i solchi di Nuggets e in Meet Me ‘Round The Corner in un disco degli Animals. Come al solito niente di nuovo, ma i “cuori” non sembrano vuoti ed aridi. Etichetta 429 Records, distribuzione Universal, negli States.

paul thorn too blessed

Veniamo ai dischi in uscita domani 19 agosto. Del nuovo Paul Thorn Too Blessed To Be Stressed sono venuto a conoscenza grazie al fatto di essere iscritto alla sua mailing list: dodicesimo album della sua carriera, 10 canzoni nuove, disponibile sul suo sito in varie versioni (CD, Vinile, CD+LP+Maglietta+ammenicoli vari, CD+LP versione per fans, CD per fans con sticker, li trovate qui http://www.paulthorn.com/ , anche se il vinile uscirà a metà ottobre, nel frattempo potete dare una ascoltata). Se non conoscete l’artista californiano, e la cosa è grave, questo è quanto è stato scritto in passato su di lui nel Blog, http://discoclub.myblog.it/tag/paul-thorn/, l’ultimo avvistamento nel tributo a Jackson Browne uscito questa primavera, mentre nel 2012 era uscito un disco tutto di covers, What The Hell Is Going On, sempre sulla sua etichetta, la Perpetual Obscurity che pubblica questo nuovo. Se siete troppo pigri, due o tre link per ascoltare qualcosa del nuovo album https://www.youtube.com/watch?v=-vH8vZCwQkg  e in generale della sua musica https://www.youtube.com/watch?v=9sNb7wtlNkU, https://www.youtube.com/watch?v=rQ3O0y2iMjw!

ruthie foster promises of a brand new day

La bravissima Ruthie Foster è una delle favorite di questo Blog,  http://discoclub.myblog.it/2012/02/22/una-grande-soul-singer-ruthie-foster-let-it-burn/, ogni disco è più bello del precedente, questo Promise Of A Brand New Day (bellissimo titolo), pubblicato come di consueto dalla Blue Corn Music, mi sembra addirittura il suo migliore in assoluto https://www.youtube.com/watch?v=4056ThbbNgU . Accanto al soul classico e al blues presenti sempre nei suoi dischi c’è spazio anche per alcune ballate e brani rock che mi hanno ricordato, da quello che ho potuto ascoltare velocemente, la migliore Joan Armatrading degli anni ’70. Voce calda e suadente, potente e dolce al tempo stesso, ottima produzione a cura di Meshell Ndegeocello, che suona anche il basso nel disco, affiancata da Chris Bruce alla chitarra (anche con Sheryl Crow) e dal tastierista Jebin Bruni, pure con Aimee Mann, che suonano abitualmente con Ruthie, oltre al batterista Ivan Edwards e a due musicisti richiesti espressamente dalla Foster, Doyle Bramhall alla chitarra e Toshi Reagon, un “donnone” dalla voce incredibile, che armonizza alla grande con le altre due signore presenti e a Nayanna Holley, in alcune canzoni di questo CD. Un misto di brani nuovi scritti dalla Foster, piccoli classici del soul-rock, come Ghetto, un pezzo scritto da Bettye Crutcher/Homer Banks/Bonnie Bramlett che era su Accept No Substitute di Delaney & Bonnie, Outlaw di Eugene McDaniels, sul disco omonimo ristampato recentemente dalla Rhino, altro piccola gemma, Second Coming, un brano scritto da Willie King (con Alice Cooper, giuro!), altro nome minore, ma da esplorare del blues nero americano (qualche nome da segnalare scappa sempre, è un vizio, spero utile per chi legge). Senza dimenticarsi di It Might Not Be Right, una canzone nuova scritta dalla Foster in coppia con William Bell, uno dei grandi della Stax degli anni ’60. Insomma si “intuisce” che siamo di fronte a un gran bel disco su cui ritorneremo quanto prima sul Blog, visto che esce domani.

james yorkston the cellardyke

Oggi, ma in Inghilterra, viene pubblicato il nuovo disco di James Yorkston, uno dei nomi più fulgidi del “moderno”, non solo folk, britannico (scozzese per la precisione) dell’ultimo periodo. Il disco nuovo, The Cellardyke Recording And Wassailing Society, è il suo ottavo di studio, esce per la Domino Records https://www.youtube.com/watch?v=OfnP_1wkf0U , con la produzione di Alexis Taylor degli Hot Chip, in una commistione di alternative pop e tradizione popolare  https://www.youtube.com/watch?v=AxwSXxO7dPA (Yorkston era anche il leader degli Athletes) è il seguito di I was A Cat From A Book del 2012. Tra i musicisti che appaiono KT Tunstall, The Pictish Trail, Rob Smoughton, Fimber Bravo, e i suoi collaboratori abituali Jon Thorne e Emma Smith https://www.youtube.com/watch?v=xUpy521NTGM . Dovrebbe piacere sia a chi ama l’indie rock, sia agli appassionati di Christy Moore, del primo Donovan o dell’Incredible String Band, persino di Leonard Cohen, sentitevi Thinking About Kat. Un altro nome da appuntarvi!

dr. john ske-dat-de-dat the spirit of satch

Viceversa questo è un nome “classico” come pochi, Dr. John a.k.a Mack Rebennack che omaggia uno dei più grandi della storia della musica, nonché concitttadino di New Orleans, Louis Armstrong, con un disco Ske-Dat-De-Dat: The Spirit Of Satch https://www.youtube.com/watch?v=Ab23oyKYc4w , che non so dirvi che numero sia nella sua discografia (ho perso il conto) ma si annuncia come uno dei più interessanti, anche grazie al notevole numero di ospiti che partecipano al CD, e che esce domani negli USA (e ai primi di settembre in Europa su Proper Records) per la Concord/Universal. Da quello che ho sentito sembra veramente molto bello. d’altronde con queste canzoni e questi musicisti non è difficile immaginarlo:

1. What A Wonderful World featuring Nicholas Payton and The Blind Boys of Alabama
2. Mack The Knife featuring Terence Blanchard and Mike Ladd
3. Tight Like This featuring Arturo Sandoval and Telmary
4. I’ve Got The World On A String featuring Bonnie Raitt
5. Gut Bucket Blues featuring Nicholas Payton
6. Sometimes I Feel Like A Motherless Child featuring Anthony Hamilton
7. That’s My Home featuring Wendell Brunious and The McCrary Sisters
8. Nobody Knows The Trouble I’ve Seen featuring Ledisi and The McCrary Sisters
9. Wrap Your Troubles in Dreams featuring Terence Blanchard and The Blind Boys of Alabama
10. Dippermouth Blues featuring James 12 Andrews
11. Sweet Hunk O’Trash featuring Shemekia Copeland
12. Memories Of You featuring Arturo Sandoval
13. When You’re Smiling (The Whole World Smiles With You) featuring Dirty Dozen Brass Band

look again to the wind johnny cash bitter tears

Altro tributo, ma di artisti vari e ad un singolo disco della discografia di Johnny Cash è questo notevole Look Again To The Wind Johnny Cash’s Bitter Tears Revisited. Questo disco del 1964 aveva come titolo completo Bitter Tears: Ballads of the American Indian, un concept album sulle tribolazioni delle popolazioni native americane, quelli che in Italia chiamiamo “indiani”, per intenderci (tutte queste cose del politically correct alla lunga rompono, questo essere diversamente qualcosa puzza molto di ipocrisia e perbenismo). In ogni caso il disco originale di Johnny Cash era bellissimo https://www.youtube.com/watch?v=MCAf_Ajh_KQ  e anche questo tributo, in uscita domani negli Stati Uniti per la Sony Music Masterworks, e i primi del mese prossimo in Italia e alcuni paesi europei, direi che non è male, sempre da un veloce appunto. Forse l’unico appunto è la presenza di un solo musicista nativo indiano (facciamo pellerossa, questo però è offensivo!), Bill Miller, l’undicesimo ed ultimo ad apparire nell’album http://www.bing.com/videos/watch/video/bill-miller-talks-about-johnny-cashs-bitter-tears-ballads-of-the-american-indian/28ddczy7j?cpkey=079e68e5-86ac-4456-9685-c07bb8eb97d0%257c%257c%257c%257c , con la cover della title track, una canzone scritta da Peter La Farge,  che non era nell’album di Cash ma su quello di La Farge stesso dell’anno prima, As Long as the Grass Shall Grow: Peter La Farge Sings Of The Indians: in ogni caso un disco che presenta una serie di musicisti assai interessanti, spesso incrociati in combinazioni differenti nei diversi brani di questo CD:

  1. As Long as the Grass Shall Grow – feat. Gillian Welch & David Rawlings
  2. Apache Tears – feat. Emmylou Harris w/The Milk Carton Kids
  3. Custer – feat. Steve Earle w/The Milk Carton Kids
    http://www.bing.com/videos/watch/video/steve-earle-on-look-again-to-the-wind-johnny-cash-s-bitter-tears-revisited/28dd5jlqz?from=
  4. The Talking Leaves – feat. Nancy Blake w/ Emmylou Harris, Gillian Welch & Dave Rawlings
  5. The Ballad of Ira Hayes – feat. Kris Kristofferson w/ Gillian Welch & David Rawlings
  6. Drums – feat. Norman Blake w/ Nancy Blake, Emmylou Harris, Gillian Welch & David Rawlings
  7. Apache Tears (Reprise) – feat. Gillian Welch & Dave Rawlings
  8. White Girl – feat. The Milk Carton Kids
  9. The Vanishing Race – feat. Rhiannon Giddens
  10. As Long as the Grass Shall Grow (Reprise) – feat. Nancy Blake, Gillian Welch &  Dave Rawlings
  11. Look Again to The Wind – feat. Bill Miller 

Tra i musicisti utilizzati dal produttore, Joe Henry, perché è lui il curatore del progetto, si segnalano i “soliti” Greg Leisz (steel guitar, guitars), Keefus Ciancia (keyboards), Patrick Warren (keyboards for the L.A. sessions), Jay Bellerose (drums) and Dave Piltch (bass).

Direi che con questo siamo, più o meno, alla pari, con le uscite. Però la settimana prossima e ai primi di settembre escono altri dischi interessanti, per cui non escludo appendici a questa lista. Sempre pronti, tempo permettendo, anche a recensioni singole ed altre anticipazioni varie.

Bruno Conti

Cantautore O Produttore? Joe Henry – Invisible Hour

joe henry invisble hour

Joe Henry – Invisible Hour – Work Song/ Ear Music/Edel Records

Lo ammetto, sono un “fan” di lunga data di Joe Henry (cognato di Madonna, ha sposato la sorella Michelle, ma non è una colpa), dai tempi dell’esordio con Talk Of Heaven (86), e l’ho seguito negli anni, mentre uscivano Murder Of Crows (con Mick Taylor e Chuck Leavell) (89), lo splendido ma poco considerato Shuffletown (90) (andatevi a risentire la traccia iniziale Helena By The Avenue https://www.youtube.com/watch?v=l2nDnE4LQS8 ),  e poi ancora Short Man’s Room (92) accompagnato dai Jayhwaks, e Kindness Of The World (93), i due lavori più influenzati dal suono americana, la trilogia Trampoline (96), Fuse (99) e Scar (01); poi Joe ha firmato per la Anti Records e le cose sono cambiate, con un disco dal suono molto personale come il geniale Tiny Voices (03), e le raffinate incisioni dell’ultimo periodo con Civilians (07) con Bill Frisell e  Van Dyke Parks, Blood From The Stars (09), e infine le sfumature blues di Reverie (11). Nel contempo Joseph Lee Henry (il suo vero nome) ha imparato a fare il produttore iniziando con Bruce Cockburn (insieme a T-Bone Burnett), Teddy Thompson (figlio di Richard & Linda) , proseguendo con Solomon Burke (con cui ha vinto un grammy nel 2003), Ani DiFranco, Bonnie Raitt, Bettye Lavette, il suo amico Loudon Wainwright III e ultimamente, con uno dei miei gruppi preferiti, gli Over The Rhine, e  mille altri (anche Lisa Hannigan, che troviamo sotto, tra i collaboratori di questo album)…

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Mi viene da pensare che l’occasione di stare a contatto con musicisti di diverso genere ed estrazione musicale gli ha fatto certamente bene, lo ha stimolato ad apprendere tutte le mille sfumature che la musica offre, e ora tutto quello che ha appreso si certifica in questo nuovo Invisible Hour (che esce in questi giorni) uno dei suoi dischi migliori in assoluto, un lavoro intenso e maturo, musicalmente ineccepibile, curato sia negli arrangiamenti che nella stesura delle canzoni.  Registrato in una settimana nel suo studio di Pasadena, Joe come sempre si avvale di musicisti di grande qualità, tra i quali ricordiamo Greg Leisz e John Smith alle chitarre, David Piltch o Jennifer Condos al basso, Jay Bellerose alla batteria, il figlio Levon ai fiati, e tra gli ospiti la brava Lisa Hannigan (cantante e musicista irlandese, a sua volta, già collaboratrice di Damien Rice) e i Milk Carton Kids alle armonie vocali, e direi anche non trascurabile l’apporto del noto romanziere Colum McCann per la stesura dei testi.

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Pur non essendo un “concept album”, le canzoni di Invisible Hour girano attorno al concetto del matrimonio, come ha ricordato in alcune interviste lo stesso Henry, a partire dal trittico iniziale, con la magnifica Sparrow https://www.youtube.com/watch?v=f5nAIX1aM6w , Grave Angels https://www.youtube.com/watch?v=XSneRuPlN3I  e i nove minuti di una Sign dove è la voce di Joe a farla da padrona (tra Van Morrison e il miglior Dirk Hamilton), dialogando con il suono minimale degli strumenti https://www.youtube.com/watch?v=cRp1w8Zqr4g . Un tocco dolce di chitarra introduce la title track, Invisible Hour, composizione intensa e struggente https://www.youtube.com/watch?v=MTl25EQ9Zls , per poi passare alle trame più ricche e complesse di Swayed  e ai suoni quasi gospel di Plainspeak, con largo uso del sax da parte del figlio Levon, mentre nell’ottima Lead Me On troviamo Lisa Hannigan al controcanto.

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Lo spirito di Tom Waits aleggia nell’acustica Alice, mentre il ritmo si innalza con Every Sorrow, la canzone più “roots” dell’album, andando poi a chiudere con Water Between Us, una solida ballata melodica, introdotta dalle note del piano e accompagnata nello sviluppo da sax e clarinetto (ha tutte le qualità per entrare nel novero delle sue canzoni più belle), e nella conclusiva, lunga e intensa Slide, una di quelle composizioni che rimangono impresse nella memoria per lungo tempo.

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Anche se il suo “status” attuale di produttore supera quello dell’autore e cantante (ma non per chi scrive), Henry non rinuncia a pubblicare dischi, e dopo una lunga e importante carriera quasi trentennale https://www.youtube.com/watch?v=567GTsSgNtw , esce con questo lavoro raffinato e delicato, percorso da avvolgenti trame, acustiche e non, supportate dalla sua abituale voce calda e sinuosa, rendendo l’ascolto un esercizio di gusto e delicatezza. Per i pochi che ancora non lo conoscono, Joe Henry è un amante della musica, di quella vera, e Invisible Hour conferma la sua bravura di musicista e produttore, e quindi di essere ampiamente in grado di portare avanti entrambe le professioni. Tra i dischi dell’anno!

Tino Montanari

Cantautori E “Discepoli” A Confronto! Greg Ashley – Another Generation Of Slaves + Death Of A Ladies’ Man

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Greg Ashley – Another Generation Of Slaves – Trouble In Mind Records

Greg Ashley – Death Of A Ladies’ Man – Guitars and Bongos Records LP- Cassette – MP3

Greg Ashley viene dal profondo Texas, e stranamente il suo percorso musicale si è sviluppato inizialmente con una band garage-punk The Strate-Coats, per poi passare allo psych-rock dei The Mirrors e infine raggiungere un discreto successo con il quartetto dei Gris Gris. Terminato il percorso con il gruppo, il buon Greg pubblica intriganti album solisti, a partire dall’esordio con Medicine Fuck Dream (03) dove ritorna musicalmente agli esordi delicatamente sperimentali http://www.youtube.com/watch?v=Phyr-BbMNO0 , mentre con i seguenti Painted Garden (07) http://www.youtube.com/watch?v=fq21W2K1T6M  e Requiem Mass & Other Experiments (10) http://www.youtube.com/watch?v=AcsXVHvgDCs , i brani si sviluppano su un ritmo ipnotico mentre esplorano suoni diversi, ma con melodie ricche e dolci.

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In questo nuovo lavoro Another Generation Of  Slaves, Ashley (basso e chitarra) si avvale di un organico di musicisti d’impronta jazz, che vede Garrett Goddard e Jimi Marks alla batteria, Thatcher Boomer al clarinetto, Wallace Lafont Jr. al sassofono, John S.Morgan al vibrafono e piano, Graham Patzner al violino, Ario Peristein alla tromba, con il contorno di delicate armonie vocali che rispondano al nome di Ali Rose, Rosemary Steffie e l’asiatica Yea-Ming Chen.

Il brano iniziale East Texas Plain è una ballata brillante con pianoforte e un soffio di percussioni, che rimanda al magnifico Shuffletown di Joe Henry (se non ne siete in possesso, fatelo vostro), mentre nelle seguenti Brother Raymond e Awkward Affections imperversano clarinetti e vibrafoni.

Il pianoforte si riaffaccia nella ballata Medication #7, sussurrata dalla voce di Greg, a cui fa seguito il duetto con Ali Rose nella spensierata Bruises, mentre un clarinetto malandrino e le armonie vocali di Misery Again e poi la sensuale Patterns Of Days,  ti trasportano in un fumoso piano bar di New Orleans. Si chiude con la dolce Prisoner #1131267 (un omaggio a Cohen) con il piano di Morgan ad assecondare il canto di Greg e la bossanova quasi jazzata di December Melodies, con la tromba alla Chuck Mangione di Ario Peristein.

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Quello che non sapevo (e mi ha piacevolmente sorpreso) è il fatto che Greg Ashley fosse un insospettabile fan del grande Leonard Cohen, tanto da rifare traccia per traccia il controverso album (prodotto da Phil Spector) Death Of A Ladies’ Man (77), per pubblicarlo in edizione limitata (*NDB 1. solo download, vinile e una tiratura di 50 copie in musicassetta!), rivoltandolo come un calzino (mi viene il dubbio che l’originale non gli piacesse) http://www.youtube.com/watch?v=-AaAexKfs1g . (*NDB 2. L’usanza della copertina, donna, uomo, donna, come vedete, è abbastanza ricorrente.)

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La rivisitazione dell’album è altamente attraente http://www.youtube.com/watch?v=_DenFf6ImxY , fin dalla geniale copertina, che sostituisce le donne reali con due manichini (nella cover originale per chi non lo sapesse, la signora a destra è la moglie Suzanne Elrod), e Greg, come al solito, lo rifà alla sua maniera, rileggendo le pagine del disco con la propria sensibilità http://www.youtube.com/watch?v=NtbYi3i7gRQ , assistito da ospiti quali Kimberly Morrison, Josh Miller, Matt Montgomery, e dove spicca la tenerezza di una Paper-Thin Hotel che anche il “maestro” avrebbe potuto apprezzare.

Tino Montanari

A Prescindere Dal Genere, Gran Disco! Over The Rhine – Meet Me At The Edge Of The World

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Over The Rhine – Meet Me At The End Of The World – 2 CD – Great Speckled Bird 03/09/2013

Gli Over The Rhine sono uno dei miei gruppi preferiti delle ultime due decadi e non hanno mai sbagliato un disco dai loro esordi, avvenuti ad inizio anni ’90. Ogni album è un piccolo capolavoro della band dell’Ohio (dovrei dire duo, visto che ormai sono rimasti solo Linford Detweiler e Karin Bergquist, coppia nella musica e nella vita), forse il migliore in assoluto è Ohio del 2003 ma al sottoscritto era piacuto parecchio anche The Long Surrender del 2011 nuove-tecniche-di-sopravvivenza-over-the-rhine-the-long-surr.html, il primo disco che segnalava il nuovo corso di album autofinanziati con l’aiuto di fans e simpatizzanti, tramite le cosiddette Kickstarter Campaign. Con questo sistema il gruppo si è potuto permettere l’utilizzo di un produttore come Joe Henry (e relativi musicisti al seguito) e in due sessions avvenute tra fine marzo e i primi di aprile agli studi Garfield House di South Pasadena ha registrato questo piccolo doppio gioiello che si divide in due parti appunto: Sacred Ground nel primo CD e Blue Jean Sky nel secondo CD. Per onestà devo dire che il tutto supera di poco i 60 minuti e quindi ci sarebbe stato su un unico compact, ma al di là della non facile reperibilità, per essere prosaici, non lo fanno pagare neanche troppo. E il lato artistico compensa abbondantemente quello finanziario.

I dettagli sulla loro carriera li trovate al link sopra e anche un tentativo di definire il loro genere musicale è sempre un’impresa, direi che si parte dal folk come base, ma poi si aggiungono mille sfumature, anche in questo caso nel precedente Post ci provo. I musicisti utilizzati da Joe Henry sono all’incirca quelli del disco precedente, con Eric Heywood che sostituisce Greg Leisz alle chitarre, soprattutto pedal steel, ma anche slide ed elettrica e il grande Van Dyke Parks al posto di Keefus Cianca alla fisarmonica, Bellerose, Piltch (o la Condos, al basso) e Patrick Warren (tastiere) rimangono al loro posto. Sembrano particolari trascurabili ma i musicisti che suonano in un disco sono importanti. Se hai delle canzoni all’altezza della situazione, ovviamente. E anche questa volta gli Over The Rhine non smentiscono la loro fama di autori di piccole grande canzoni. Ne cito due per iniziare: Don’t Let The Bastards Get You Down, una ballata agrodolce e atmosferica, quasi mitchelliana, con la presenza dell’unica “ospite”  del CD, in questo caso è Aimee Mann, nel precedente, in Undamned era Lucinda Williams. L’altra è It Makes No Difference, l’unica cover del CD, una splendida rilettura del capolavoro di Robbie Robertson e della Band, con l’organo di Warren e il mandolino di Heywood (o è Mark Goldenberg? anche lui impegnato alle chitarre nel disco) a sostituire Garth Hudson e Levon Helm, il sound è molto, come potrei dire, “canadese”, con ancora la grande Joni Mitchell, o così mi pare, come punto di riferimento.

Il resto del disco non è da meno. Joe Henry, spesso e volentieri, utilizza la tecnica del double-tracking per raddoppiare la bellissima voce della Bergquist, magia nela quake erano maestri George Martin e i Beatles, non gente qualsiasi. A partire dalla struggente title-track che ricorda, a chi scrive, anche certe cose della bravissima Rosanne Cash, o il rock narcotico dei migliori Cowboy Junkies, tra steel, slide e tastiere maestose si dipana una canzone lenta ma inesorabile nella sua bellezza. Il piano e l’organo di Called Home ricordano di nuove le sonorità dei grandi canadesi (anche un pizzico del Neil Young più bucolico), sempre con la doppia voce di Karin a librarsi sul tutto, mentre una steel si fa largo con autorità. Sacred ground, con la fisarmonica di Van Dyke Parks sullo sfondo(e che si ascolta anche in molti altri brani) potrebbe riportarci alle atmosfere dolenti di una Lucinda Williams o anche di Mary Gauthier, altro spirito affine, sia per tipologia vocale che per le tematiche toccate. E pure I’d Want You ha questo spirito sognante e drammatico che potrebbe ricordare, se non per il tipo di voce, agli antipodi, almeno nel tessuto sonoro, l’incedere di certe canzoni del grande Leonard Cohen, per quell’aria malinconica ma mai doma, tipica del canadese, le tastiere, la fisa e le chitarre come al solito ricamano alla grande. Gonna let my soul catch my body è un gospel-rock mosso con una chitarra “cattiva” che cerca di farsi largo tra le pieghe del brano. All Of It Was Music potrebbe essere una sorta di manifesto del loro modus operandi, drammatico e sospeso, ricorda ancora la Gauthier ma anche le “chansons” franco-irlandesi-mitteleuropee di una Mary Coughlan (è ovvio che queste sono solo suggestioni del vostro fedele recensore) filtrate attraverso la penna della coppia dell’Ohio, fanno capolino anche un vibrafono e la solita steel malandrina. Highland Country è un’altra ballata sontuosa dallo spirito country, con il pianino di Detweiler e la sua voce di supporto al cantato suggestivo di Karen Bergquist, sottolineata dalle evoluzioni di una pedal steel magica, per cantare i panorami del loro amato Ohio. Anche Wait, come la precedente, non può non ricordare le canzoni più belle della Joni Mitchell della maturità, solenni e composite nel loro incedere. E siamo solo alla fine del primo CD.

Il secondo si apre con la lunga All Over Ohio, altro inno alla loro terra natia, Linford Detweiler per la prima volta sale al proscenio per duettare con la moglie Karin, la sua voce è piana e gentile, ma ben si accoppia con quella dolcissima della consorte, il brano cresce in modo lento e oscillante, con il consueto profluvio di chitarre e tastiere accarezzate con rispetto dai musicisti che poi lasciano il proscenio alla “doppia” Bergquist nella parte finale della canzone. A proposito di coppie, Earthbound Love Song è un sentito omaggio ad una delle grandi coppie della musica, Johnny Cash & June Carter, deliziosa e delicata come poche. Against The Grain è un’altra piccola meraviglia country-folk che scivola sulle corde di una chitarra acustica e sulla steel di Heywood. Della cover della Band abbiamo detto, Blue Jean Sky è un altro inno alla bellezza della musica e della vita, cantata con passione dalla coppia, mentre Cuyahoga è un’intramuscolo strumentale di poco più di un minuto, che meritava di essere sviluppata nei suoi tratti acidi à la Cowboy Junkies. Baby If This Is Nowhere si avventura con classe in territori Blues e Wildflower Bouquet potrebbe uscire da Ladies Of the canyon o Blue, quando i cantautori erano grandi, ed occasionalmente possono esserlo ancora (anche la giovane Laura Marling, si abbevera a questa fonte). Altro breve bozzetto, questa volta pianistico, Birds of nowhere e ci avviamo alla conclusione con Favorite Time Of Light, altra piccola meraviglia sonora con la fisarmonica di Van Dyke Parks e il mandolino di Goldenberg a guidare le danze, a conferma di tutte le delizie che si dipanano su questo Meet Me At The Edge Of The World, diciannove ottime canzoni (OK, 17 e due brevi strumentali) disco da quattro stellette che si candida fin d’ora tra i migliori dischi dell’anno 2013!

Bruno Conti

Novità Di Maggio Parte II. Annie Keating, Charlie Parr, Kim Richey, Hugh Laurie, Pistol Annies

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Proseguiamo la rubrica relativa alle novità di maggio con i dischi in uscita in 7 maggio di cui non si era ancora parlato, ma prima ancora tre titoli interessanti usciti in date antecedenti.

Annie Keating è una brava cantautrice newyorkese, giunta al quinto album, che ha un unico difetto: la non facile reperibilità dei suoi dischi. Il precedente Water Tower View, del 2011, era quantomeno distribuito in Europa dalla Continental Record Service, ma questo nuovo For Keeps, pubblicato dalla eichetta Andy Childs (?!?), si fatica veramente a trovarlo. Ma ne vale pena: la Keating, con una strana voce piana e tranquilla, mai troppo in agitazione, ma espressiva il giusto e che qualcuno ha paragonato come timbro a Melanie, ha una scrittura in morbido stile rock, che è stata avvicinata (dal Village Voice) a Lucinda Williams, John Prine, Gillian Welch, Joni Mitchell. Ora, non so se sia così brava, ma l’album è molto piacevole, elettriche e pedal steel, ed una sezione ritmica attenta ma non invadente aiutano la veste folk dei brani. Una cover di Cowgirl In The Sand di Neil Young fa la sua bella figura e quindi aggiungiamola alla lista delle voci femminili di cui vale la pena seguire i lavori. Prodotto dal canadese Jason Mercer e con il componente dei Cardinals, Jon Graboff, alla pedal steel,  tra i musicisti impiegati.

Charlie Parr fa del folk country blues, perlopiù acustico ed in solitaria, ma ogni tanto collabora con altri musicisti come i Black Twig Pickers o i Trampled By Turtles. Ha la particolarità di venire da Duluth, Minnesota, dove era nato un altro musicista molto famoso, tale Bob Dylan, e lo stile musicale, se non la voce, si può paragonare al primo Zimmerman. Ha fatto una dozzina di album, questo Barnswallow si inserisce tra i migliori della sua discografia: bella voce, ottima tecnica chitarristica, una passione profonda per la musica tradizionale americana, i risultati si toccano con mano. Musica non facile ma di grande fascino, a grandi linee, lo si potrebbe inserire in quel filone dove operano (o operavano), oltre a quelli citati, musicisti come Jack Rose, Glenn Jones e altri eredi di John Fahey, Rev. Gary Davis, Charley Patton e Woody Guthrie. Uno bravo, insomma!

Anche Kim Richey è in pista da moltissimi anni, sia come cantante che come autrice, country ma non di quello melenso e melassoso di Nashvile (anche se he scritto anche per Trisha Yearwood, che rende il favore cantando in questo album). Il disco si chiama Thorn In My Heart, è l’ottavo della sua discografia, collection del 2004 compresa ed esce per la Yep Rock. Anche in passato la Richey ha pubblicato per etichette “importanti”, partendo dalla Mercury, poi la Lost Highway, la Vanguard e la Thirty Tigers. In questo disco nuovo oltre alla Yearwood, appaiono, tra gli altri, anche Jason Isbell, Pat Sansone dei Wilco, Carl Broemel dei My Morning Jacket e Will Kimbrough. A suo imperitorio merito Kim Richey era la voce femminile in Come Pick Me Up, una delle canzoni più belle nell’esordio solista di Ryan Adams Heartbreaker. Solo che lei faceva questo stile già prima di tutti i musicisti citati per cui è stata fonte di ispirazione: pensate a Mary Chapin Carpenter, Maura O’Connell, Suzy Bogguss, Patty Loveless, quelle country ma di qualità, per intenderci.

 

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Per molti, quasi tutti, Hugh Laurie, oltre ad essere un bravo attore inglese, è il Dottor House! Ma è anche un musicista coi fiocchi, e se, tramite le sue conoscenze, riesce a fare suonare nei dischi che pubblica musicisti di gran classe e pedigree, tanto di guadagnato. Let Them Talk, uscito nel 2011, era un signor disco: prodotto da Joe Henry, con la sua band al seguito e con ospiti come Tom Jones, Irma Thomas, Dr. John e Allen Toussaint che aveva curato anche gli arrangiamenti dei fiati. Per la gioia di grandi e piccini erano uscite anche un paio di edizioni DeLuxe, una con tracce extra e un CD+DVD, qualche mese dopo che conteneva un bellissimo concerto registrato con vari degli ospiti presenti nell’album e altri, oltre a un diario on the road della registrazione.

Questo nuovo Didn’t It Rain esce sempre per la Warner Bros Uk, sempre prodotto da Joe Henry, sempre in due edizioni, una denominata “Bookpack”, doppia, con cinque brani aggiunti:

1. The St. Louis Blues
2. Junkers Blues
3. Kiss Of Fire
4. Vicksburg Blues
5. The Weed Smoker’s Dream
6. Wild Honey
7. Send Me To The ‘Lectric Chair
8. Evenin’
9. Didn’t It Rain
10. Careless Love
11. One For My Baby
12. I Hate A Man Like You
13. Changes

Queste le tracce extra:

1. Day & Night
2. Junco Partner
3. Louisiana Blues
4. Staggerlee
5. Unchain My Heart

L’edizione Deluxe costa un pacco di soldi, e per la serie, strano ma vero, non uscirà in America almeno fino a settembre. E per rimanere nell’ambito dei sempre, è “sempre” molto bello.

Le Pistol Annies sono Miranda Lambert, Angeleena Presley (non è parente) e Ashley Monroe. Neil Young ne ha parlato molto bene nella sua autobiografia, il precedente disco Hell On Heels era molto buono, questo Annie Up è anche meglio: country, rock, blues, honky tonk, un pizzico di bluegrass, tante belle voci soliste e che armonizzano, la faccia onesta della country music di Nashcille (ma Miranda Lambert è schierata in entrambi i campi)! Se le scrivono, se le cantano, ma non se le suonano. Potrebbero sorprendervi (almeno un poco). E come diceva la Marchesini del Trio, sono anche delle “belle faighe”, due su tre.

Per oggi è tutto, continua nei prossimi giorni.

Bruno Conti

Di Cover In Cover! Peter Mulvey – The Good Stuff

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Peter Mulvey – The Good Stuff – Signature Sound Records – 2012

Peter Mulvey da Milwaukee, Wisconsin, già autore di dischi promettenti nel passato, continua a fare ciò che ha sempre amato, il “busker” da subway, ricordando le ore passate nei sottopassaggi di Dublino o in quelli americani. I cantanti delle metropolitane prevalentemente eseguono “covers”, e cosi Peter (nel mio immaginario) si siede su una panchina ed esegue le canzoni predilette dei suoi “eroi” musicali, che sono un po’ anche i nostri (Leonard Cohen, Willie Nelson, Tom Waits, Joe Henry).  Mulvey, si era già cimentato in un esperimento simile con Ten Thousand Mornings (2002), registrato proprio in una stazione della metropolitana di Boston, e in quel lavoro aveva pescato da Elvis Costello, Randy Newman, Paul Simon, Bob Dylan, e anche in misura minore in Redbird (2003), con la complicità dei compagni di tour Jeffrey Foucault e Kris Delmhorst. Questo lavoro, The Good Stuff, è una raccolta più tradizionale di brani swing e ballate, dai risultati altalenanti, un disco che pur non essendo complesso, risulta non di facile lettura, specialmente nella rilettura di canzoni di autori standard come Duke Ellington e Thelonious Monk e contemporanei, come Melvern Taylor e Jolie Holland.

Peter. accompagnato da validi musicisti tra i quali il fido David Goodrich alle chitarre, Jason Smith alla batteria, Paul Kochanski al basso  e Randy Sabien al violino e piano, trasforma i pezzi dei suoi favoriti, li modella e li plasma secondo un sentimento puro e convinto, e la bella versione di Everybody Knows che inizia con una risata liberatoria, offre una scanzonata lettura del Cohen più creativo. La scelta delle canzoni da menzionare prosegue con I Don’t Know Why But I Do, un classico trascurato di Bobby Charles, con in evidenza il violino di Randy Sabien, la deliziosa Sugar , una rumba cantata in versione Paolo Conte, e la splendida Richard Pryor Addresses A Tearful Nation , pescata dal canzoniere del grande Joe Henry e precisamente dall’album Scar. Nella selezione sono presenti anche due brani strumentali, una Egg Radio di Bill Frisell in cui eccelle David Goodrich, e una dolce versione in chiave jazz, Ruby, My Dear di Thelonious Monk. Nella stessa occasione Peter Mulvey fa uscire anche un EP complementare con altri 6 brani registrati nelle stesse sessioni e con gli stessi musicisti, dal titolo di Chaser.

Peter Mulvey in questo The Good Stuff, dimostra quanto possa valere un lavoro di “covers” fatto con personalità, rispetto a composizioni non sempre di pari livello, ma si dimostra artista creativo e originale, dalle grandi possibilità, che mi auguro vengano dimostrate prossimamente con brani usciti dalla sua penna.

Tino Montanari

Un Curtis Tira L’Altro Ma Anche “Questo Non Me Lo Aspettavo”! Curtis Stigers – Let’s Go Out Tonight

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Curtis Stigers – Let’s Go Out Tonight – Concord Jazz/Universal

Lo so, il titolo l’avevo già usato, cambiando il nome, per Jonathan Edwards e Jonathan Wilson, e anche il “sottotitolo” se è per questo, ma dopo oltre 900 Post in questo Blog ogni tanto mi “scappa” di riutilizzare un titolo quando rende l’idea. E quindi, dopo l’ottimo Curtis Salgado, eccomi a parlare di questo CD di Curtis Stigers: confesso che mai e poi mai mi sarei aspettato di recensire un album di questo cantante americano. Il suo genere, nel passato, è sempe stato “l’Anticristo” della musica che mi piace, e ne ascolto di ogni tipo, ma lo smooth pop prima e jazz in seguito, dell’ex lungocrinito interprete di Boise, Idaho mi aveva sempre convinto poco. Il suo primo album omonimo era stato un notevole successo nell’America dei Kenny G, Michael Bolton e Co. e quindi lo avevano chiamato per la colonna sonora di The Bodyguard ma poi il suo stile si era man mano trasformato, lungo l’arco di una decina di album, da un “leccato” pop con venature soul in un altrettanto levigato, ma mai esaltante, jazz da crooner leggero.

E poi, al decimo disco, mi fa questo Let’s Go Out Tonight e mi spiazza completamente. Intanto la scelta del repertorio, brani di alcuni cantautori pescati tra la crema della musica rock, pop e soul e non dal classico songbok americano dei Cole Porter, Gershwin e Rodgers & Hart. Nonché un produttore come Larry Klein, che oltre ad essere stato il bassista e marito di Joni Mitchell, nel corso degli anni si è creato un CV come architetto di suoni tra i più raffinati in circolazione: artisti come Madeleine Peyroux, Holly Cole, Julia Fordham, Vienna Teng, Rebecca Pidgeon, Walter Becker, Tracy Chapman, Melody Gardot e nel passato Mary Black, Shawn Colvin, David Baerwald, oltre naturalmente a Joni Mitchell, si erano rivolti alle sue sapienti mani per creare un suono caldo ed avvolgente, ricco nei particolari e di gran classe, anticipatore, in parte, dello stile di T-Bone Burnett e, soprattutto, Joe Henry. Non per niente in questo disco suonano i musicisti abituali di Burnett e Henry: Jay Bellerose alla batteria, Dean Parks alla chitarra, Larry Goldings e Patrick Warren alle tastiere, David Piltch al basso (Klein non pratica quasi più lo strumento, peccato perché era un bassista quasi ai livelli di Jaco Pastorius) e l’eccellente John Sneider alla tromba, oltre allo stesso Stigers che in alcuni brani utilizza il suo sax con ottimi risultati.

Si diceva della scelta oculata dei brani e dei loro autori: si parte alla grande con una versione di Things Have Changed di Robert Dylan (giuro, è scritto così sul libretto, il nome d’arte è Bob, sarebbe come se Iggy Pop diventasse Iguana o Ignazio Pop, per dire), il brano chiunque l’abbia scritto è comunque bellissimo e appariva nella colonna sonora del film con Michael Douglas The Wonder Boys, un Dylan come avrebbe potuto interpretarlo Tom Waits se avesso avuto la voce di Neil Diamond, rasposa, leggermente roca e vissuta ma non esageratamente profonda come quella di Waits, diciamo quella degli anni ’70 che molti ancora oggi preferiscono (ho alzato timidamente la mano) e anche lo stile è quello, con assolo libidinoso di tromba che è la ciliegina sulla torta di questo pezzo. David Poe (altro musicista raffinato e poco conosciuto che ha avuto un disco prodotto da Burnett) è l’autore, nonché alle armonie vocali, nel brano Everyone Loves Lovers, una dolcissima slow song per innamorati dove la voce di Stigers pennella la note e l’arrangiamento di Klein ricorda quelli del Burt Bacharach dei tempi d’oro, l’interscambio tra la chitarra “trattata” di Parks, l’organo di Goldings, i fiati di Sneider e lo stesso Stigers è ai limiti della perfezione per questo tipo di canzone. Oh How It Rained è un vecchio brano soul di Eddie Floyd e Steve Cropper che qui diventa un blues sofferto e primigenio.

Goodbye di Steve Earle, è un brano che già di suo è molto bello, come quello appena citato di Dylan, in questa versione soffice diventa una canzone totalmente diversa ma altrettanto valida, e questo sarebbe il compito di coloro che chiamiamo “interpreti”, fare propria la canzone, ma ci riescono solo quelli bravi e in questo disco Stigers centra pienamente l’obiettivo: la tromba, il piano, l’organo e la ritmica delicata al servizio della voce partecipe di Stigers, bellissima. Into Tempation è un brano di Neil Finn, il leader dei Crowded House per intenderci, ma in questa versione diventa un’altra ballata notturna e fumosa. Otis Clyde è stato un autore nero-americano minore ma il suo posto nella storia se l’è meritato con Route 66 e comunque questa This Bitter Earth è strepitosa, la faceva Dinah Washington, ma la versione di Stigers è notevole, sembra un brano del Ray Charles più ispirato, sia per come è cantata, con l’inflessione vocale di “The Genius” ma anche per l’arrangiamento ricalcato sul sound degli album Modern Sounds in Country & Western, con la pedal steel di Parks ad adagiarsi insinuante sulla tromba di Sneider.

Ma a dispetto di tutti questi brani di autori grandissimi il capolavoro dell’album è una versione di quella meraviglia che si chiama Waltzing’s For Dreamers, una canzone di una bellezza disarmante scritta dal geniale Richard Thompson, e questa versione è da pelle d’oca e lacrimuccia anche se non siete sentimentali. A questo punto sarebbe impossibile fare meglio ma anche Chances Are scritta da Hayes Carll ha molte frecce al suo arco, una ballata solare ancora una volta con uso di tromba e con Stigers che canta in assoluta souplesse sillabando il testo con perfezione quasi assoluta, altra piccola perla ancora una volta con quell’effetto Diamond meets Charles. You’re Not Alone non è quella di Michael Jackson ma un brano scritto da Jeff Tweedy dei Wilco per Mavis Staples, ancora una volta con quel tipo di sound raffinato tipo la Mitchell fine anni ’70, primi ’80, quando collaborava con Klein o un Van Morrison d’annata, che non avevamo ancora nominato, ma ci sta, bello l’assolo di sax di Stigers, breve e pertinente. La title-track Let’s Go Out Tonight firmata da Paul Gerard Buchanan (perché il nostro amico è uno preciso con nomi e cognomi) è un brano tratto dal repertorio della band di Buchanan, i Blue Nile forse il gruppo che ha la maggiori similitudini sonore con il contenuto di questo album, altra ballata notturna e intimista sempre caratterizzata da quel mood malinconico impersonato dalla tromba di John Sneider.

Una bella sorpresa, non me l’aspettavo!

Bruno Conti