Non So Se Il Rock Sia Morto O Meno, Ma Di Certo Il Folk Sta Benissimo! Joe Purdy & Amber Rubarth – American Folk

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Joe Purdy & Amber Rubarth – American Folk Soundtrack – American Folk/Thirty Tigers CD

Il titolo del post è chiaramente ironico, il rock è vivo e vegeto, pur avendo vissuto giorni migliori in passato, nonostante qualcuno periodicamente si ostini a volergli fare il funerale; anche la musica folk in ogni caso non se la passa male, dato che negli ultimi anni si è notato un risveglio di interesse verso questo genere. Andando a memoria mi viene in mente il bel film dei fratelli Coen Inside Llewyn Davis del 2013 (e relativa colonna sonora), che celebrava i giorni del folk revival nel Village di New York, l’ottimo Shine A Light di due anni fa ad opera di Joe Henry e Billy Bragg, che giravano l’America in treno incidendo nelle varie stazioni diversi classici del songbook americano, ed il sontuoso tributo a Woody Guthrie Roll Columbia dello scorso anno, affidato perlopiù ad artisti semisconosciuti (senza dimenticare, a proposito di Woody, l’eccezionale cofanetto della Bear Family dedicato ai due storici concerti tributo del 1968 e 1970) http://discoclub.myblog.it/2017/12/09/torna-finalmente-il-padre-di-tutti-i-tributi-vv-aa-woody-guthrie-the-tribute-concerts/ .

Oggi invece vi voglio parlare del progetto American Folk (già il titolo è tutto un programma), un film indipendente scritto e diretto da David Heinz e che vede protagonisti i due songwriters Joe Purdy (già abbastanza noto, giovane ma con una bella serie di dischi alle spalle http://discoclub.myblog.it/2014/06/24/cantautore-nicchia-joe-purdy-eagle-rock-fire/ ) ed Amber Rubarth (che, sono sincero, non conoscevo): American Folk non è un documentario, ma un vero film recitato ed ambientato nel Settembre del 2001, e precisamente nel periodo degli attentati avvenuti il giorno 11, un lungometraggio che narra la storia di Elliott e Joni (Joe e Amber), due cantanti folk che, in viaggio aereo per New York da Los Angeles, vengono fatti atterrare poco dopo la partenza per questioni di sicurezza. I due si conoscono per caso e decidono, aiutati da un amico di lei, di proseguire il viaggio in auto, scoprendo via via di avere parecchie affinità. Un road movie che è anche un pretesto per omaggiare la musica folk popolare americana, attraverso l’interpretazione da parte dei due di una bella serie di classici, con l’aggiunta di quattro canzoni scritte per l’occasione. Ed il disco che fa da colonna sonora, intitolato anch’esso American Folk, è davvero bellissimo, un album di folk music interpretata in purezza, ma con grande rispetto ed un trasporto notevole, un lavoro che si ascolta con immenso piacere anche slegato dalle immagini di film. I due artisti si amalgamano alla perfezione, a volte cantano da soli altre in duetto, spesso si accompagnano con le sole chitarre (Amber anche al piano), e solo occasionalmente intervengono Matt DelVecchio al basso ed Adam Levy alla chitarra aggiunta.

E poi ci sono le canzoni, veri e propri evergreen della musica popolare americana (ma non solo), interpretate, ripeto, in maniera perfetta: qualcuno potrebbe dire che se sei bravo e hai a disposizione delle grandi canzoni non è difficile fare un bel disco, e forse è vero, ma alla fine quello che conta è che qui si passano tre quarti d’ora estremamente piacevoli. Non tutto è appannaggio di Joe ed Amber, ci sono anche due brani del passato che però si integrano benissimo, tanto da sembrare nuovi di zecca: la lenta e vibrante Some Humans Ain’t Human di John Prine, che pur essendo tratta da Fair And Square (l’ultimo album di canzoni originali del cantautore dell’Illinois, targato 2005) ha il sapore dei suoi primi dischi, ed una splendida fisarmonica sullo sfondo, ed una magistrale ripresa di Freight Train di Elizabeth Cotten ad opera di Jerry Garcia e David Grisman, presa dal loro disco del 1993 Not For Kids Only. Ma la parte centrale di American Folk è riservata ad alcuni tra i più noti traditionals del songbook americano, ripresi in maniera filologica ma non scolastica, in quanto sia Joe (che ha una voce perfetta, tra Prine e Dylan) che Amber ci mettono davvero l’anima, ed il feeling si può quasi toccare con mano: unico difetto, diversi pezzi sono appena accennati, ed altri finiscono dopo poco più di un minuto, ma alla fine va bene anche così, talmente unitario è il progetto.

Emblematica è la versione di Red River Valley, classico esempio di come si possa emozionare con solo due voci ed una chitarra, ma poi abbiamo anche una splendida Blackjack Davey, cantata all’unisono, l’altrettanto bella Swing Low, Sweet Chariot, dove c’è solo Amber (ed è troppo breve), due strumentali basati sulle melodie di Pretty Saro (per solo dobro) e della notissima Oh! Susanna, una vivace e spedita Hello Stranger (un classico della Carter Family), con il tamburello a scandire il ritmo, e due eccellenti riletture di Oh Shenandoah e Lonesome Valley, che purtroppo durano tra tutte e due poco più di un paio di minuti; c’è anche una cover di un pezzo contemporaneo, e cioè Moonlight, dello sfortunato songwriter Blaze Foley, che ha comunque una struttura folk che si incastra alla perfezione nel disco. Infine, i quattro brani originali: This Old Guitar, accennata all’inizio dal solo Joe e poi ripresa a due voci nel finale, un brano lento e meditato, dove anche le pause hanno la loro importanza, la scintillante Someone Singing With Me, puro folk, una grande canzone senza se e senza ma, con il piano ad impreziosire ulteriormente il suono, la gentile e limpida New York di Amber, che sembra uscita dal songbook di un qualsiasi artista del folk revival, e la conclusiva Townes, un sentito omaggio al grande Townes Van Zandt, dotata di una melodia cristallina e di un bellissimo ritornello.

Il 2018 si è aperto all’insegna del folk: dopo lo splendido Blood In The USA di Thom Chacon, ecco l’altrettanto valido American Folk. Entrambi da non perdere.

Marco Verdi

Un Cantautore “Di Nicchia”! Joe Purdy – Eagle Rock Fire

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Joe Purdy – Eagle Rock Fire – MC Records

Ogni tanto succede di venire a contatto con personaggi che hanno poca visibilità, si fanno delle ricerche e si scopre che sono in giro da molto tempo, e, cosa più importante sanno scrivere grandi canzoni: Joe Purdy (per chi scrive) è uno di questi. Originario dell’Arkansas, prima di diventare cantautore a tempo pieno, ha fatto ogni genere di mestiere, poi la sua vita è cambiata, nel 2004, quando il serial di successo Lost ha utilizzato una sua canzone Wash Away , rivelandolo agli occhi di tutti come autore già completo anche se in continua crescita. Quattordici dischi in altrettanti anni, tutti lavori autogestiti che potete trovare direttamente sul suo sito http://joepurdy.com/ , a partire dall’omonimo Joe Purdy (01),e proseguendo negli anni con Sessions From Motor Ave (02), Stompin’ Grounds (03), Julie Blue (04), Only Four Seasons (06), You Can Tell Georgia (06), Paris In The Morning (06), Canyon Joe (07), Take My Blanket And Go (07), Last Clock On The Wall (09), 4th Of July (10), This American (10), sino ad arrivare a questo Eagle Rock Fire, registrato in soli cinque giorni (usando apparecchiature analogiche), con l’aiuto solamente di Chris John Hillman alla pedal-steel e mandolino, il fidato Matt DelVecchio al basso e lo stesso Joe alla chitarra e batteria, il tutto ovviamente rilasciato dalla sua etichetta Mudtown Crier Records.

Le canzoni di questo album raccontano la vita di un ragazzo di paese che va a vivere in una grande città, com’è forse intuibile dalla seconda traccia L.A. Livin’ con la pedal-steel di Hillman (Billy Bragg) in evidenza https://www.youtube.com/watch?v=DeJg71sgsrM , mentre il brano iniziale Eagle Rock Fire, è quasi declamato con una voce baritonale vagamente alla Johnny Cash https://www.youtube.com/watch?v=C9N3pZlQo3E , peraltro tutto il lavoro si snoda tra brani minimali sorretti quasi solo da chitarre acustiche come in That Diamond Ring, Meet Me In N.Y. e This American, a cui si aggiunge il sinuoso suono della pedal-steel e dell’armonica in brani come Waiting For Loretta Too Long , Good Gal Away, e altre storie lente ed avvolgenti, raccontate su una base musicale suggestiva, come in I’m Sorry You’re Blue e Wildflowers, un totale di quasi quaranta minuti evidenziati da Joe Purdy e dalla sua splendida voce.

Purdy, pur con mezzi scarsi, ha sempre fatto dell’ottima musica, un songwriter di categoria superiore dove il cuore è sicuramente elemento fondamentale, con tutte le canzoni che sanno trasmettere spesso delle forti emozioni; una sorta di poeta minore che tratta il country-folk con quello “spleen” malinconico che è tanto di moda (con barba d’ordinanza alla Bonnie Prince Billy o Ray LaMontagne). Al di sopra di queste considerazioni si ritorna al quesito iniziale: come mai un autore di talento, dotato di una voce unica e particolare, con tanta passione e voglia di raccontare, non ha ancora conseguito il successo che si merita? Mistero! Alla prossima Joe.

Tino Montanari