La Chitarra E’ Il Suo “Amuleto” Portafortuna! Chris Duarte – Lucky 13

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Chris Duarte Group – Lucky 13 – Blues Bureau/Shrapnel Records

Ormai credo non occorra ribadire per l’ennesima volta chi sia Chris Duarte, e che genere faccia! Detto mille volte (più o meno) su queste pagine virtuali, due l’anno scorso: nel 2013 infatti Duarte ha pubblicato sia un disco nuovo in studio che un doppio Live http://discoclub.myblog.it/2013/09/13/nuovi-guitar-heroes-chris-duarte-group-live-5685960/ . Diciamolo ancora una volta: power guitar trio o se preferite Texas blues-rock. Con la sua immancabile Fender Stratocaster acquistata quando era un ragazzino il buon Chris cerca sempre di infiammare gli appassionati dei grandi chitarristi https://www.youtube.com/watch?v=BzNMlyxpD8Q  e anche se non ha mai tenuto fede completamente alle previsioni che lo volevano come l’erede designato di Stevie Ray Vaughan, sempre in quei dintorni musicali si è mosso, tra blues, rock and roll, piccoli tocchi di jazz, ma negli ultimi anni, grazie al sodalizio con Mike Varney, proprietario e factotum della Shrapnel records, co-produttore anche di questo album, si è spostato, di tanto in tanto, verso un suono più heavy, quasi confinante con il metal o con le “esagerazioni” della scuola Satriani-Vai-Van Halen. Quindi quello che bisogna capire di ogni album di Duarte non è tanto il genere (che è un derivato) quanto la qualità del disco in oggetto https://www.youtube.com/watch?v=quzHYx2e7WQ .

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Questo Lucky 13 (sarà mica il suo tredicesimo album?) lo vede affiancato da una nuova, ennesima, sezione ritmica, John McKnight alla batteria e Kevin Vecchione al basso, e alle prese con quattordici brani che portano tutti la sua firma, quindi niente cover per l’occasione. Pertanto la domanda inevitabile è, un buon disco? A giudicare dalla partenza direi sicuramente di sì: You Know You’re Wrong è subito un poderoso rock-blues, a cavallo tra Hendrix e SRV, le due principali influenze di Chris, una solida ritmica, un cantato più convincente del solito e poi partono le evoluzioni della solista, tirate ma molto ben delineate anche a livello sonoro, insomma quello di meglio che ci si aspetta da questi tipi di dischi, tanta chitarra ma suonata con costrutto, la tecnica non è certo quella che fa difetto a questo signore, magari ogni tanto le idee diventano confuse. Questa volta pare che ci siamo, è uno dei dischi “giusti”, Angry Man è puro Texas blues-rock con la chitarra e la sezione ritmica che ci danno dentro di gusto, persino con le dovute sfumature R&R presenti negli episodi migliori della sua discografia, anche Crazy For Your Love è uno di quegli “strascicati” blues texani che erano tra le perle dell’opera di Vaughan https://www.youtube.com/watch?v=IJDw183eJEg , con Duarte che va a pescare anche un cantato alla Joe Walsh, o questa è l’impressione di chi scrive, mentre Who Loves You, con la ritmica che swinga di brutto, ha addirittura una patina sonora vecchio stile. Ottima anche Here I Come, sempre eccellente blues-rock old fashioned, ma ad alta gradazione chitarristica.

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Addirittura la lunga Let It Go è il classico slow blues tiratissimo che non può mancare in questo tipo di dischi, un brano di quelli da “faccine”, avete presente quando i solisti vanno a pescare fino in fondo alle loro budella l’ispirazione e la tensione per rilasciare degli assolo di devastante intensità e quindi il viso del chitarrista si contorce in espressioni facciali che fanno temere episodi fisici irreversibili, e questo mi pare il caso, anche se non posso verificare. E fin qui tutto bene, anzi benone, quasi 35 minuti di ottima musica, pure Man Up non è male, un rockettino di quelli leggeri ma piacevoli, proprio alla Joe Walsh vecchia maniera. Ma poi il tamarro che è in Duarte (e probabilmente in Varney) esplode, voci distorte e filtrate, chitarre esagerate, ritmica fracassona, per una Not Chasing It dove l’idea di un Hendrix futurista si scontra con la pochezza di idee, ma sempre meglio di Weak Wheels che sembra Jimi fatto, dai Red Hot Chili Peppers, non benissimo https://www.youtube.com/watch?v=ktKO94ED6mc. Ain’t Gonna Hurt No More, per fortuna ci riporta al classico, confortevole rock-blues, molto derivativo, va bene, ma almeno suonato con passione e perizia, anche se non si tratta di un brano memorabile, lavoro della solista alla parte https://www.youtube.com/watch?v=ktKO94ED6mc . Poi c’è una mini-suite Meus Via Vita Suite divisa in tre parti: una sognante e leggermente psichedelica Let’s Go For A Ride, dal suono molto West-coastiano, Minefield Of My Mine, che vira verso l’Hendrix più sperimentale, una cavalcata strumentale ricca di invenzioni chitarristiche e infine Setting Sun, dove l’organo di Art Groom, accentua la vena acida di questo lungo brano, che peraltro è tra le cose migliori mai trovate nella discografia di Duarte, che ci lascia per concludere, con un altro strumentale, Jump The Trane, un boogie rock’n’roll che ci permette di sperimentare nuovamente la grande tecnica di questo virtuoso dello chitarra elettrica. Quindi questa volta molte più luci che ombre, a parte quella sbandata nella parte centrale, uno dei dischi migliori della sua discografia.

Bruno Conti

Una Serata Con Luci Ed Ombre! Eagles Live a Lucca – Piazza Napoleone – 2 Luglio 2014

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*NDB. Dopo una “pausa di riflessione” (direi lavoro), torna sul Blog l’amico Marco Verdi, oggi con un reportage sul concerto degli Eagles a Lucca, domani con l’anteprima del nuovo Live di John Mellencamp. Per ora, la parola all’inviato.

Eagles Live a Lucca – Piazza Napoleone – 2 Luglio 2014

A causa della mancanza di tempo non ho potuto scrivere un reportage sul concerto a Roma dei Rolling Stones, una serata fantastica che però il caldo esagerato e la scomodità al limite dell’invivibile di quel gigantesco prato spelacchiato che è ormai il Circo Massimo (mi perdonino gli storici e gli esperti d’arte, un conto sono i Fori Imperiali che vi si affacciano, una meraviglia che toglie il fiato anche alla decima visita, un conto è il catino dove un tempo correvano le bighe) mi hanno impedito di godermi fino in fondo, in quanto ero già stanco ancora prima dell’inizio.

Ieri invece, con ben altre condizioni (clima caldo ma ventilato, molto piacevole, e posti a sedere), mi sono recato in quel di Lucca, trasferta che per me sta diventando una bella abitudine (Tom Petty due anni fa http://discoclub.myblog.it/tag/lucca/ , Neil Young l’anno scorso) per assistere al concerto degli Eagles, che ha aperto il consueto Summer Festival e nello stesso tempo ha chiuso la tournée europea dello storico gruppo americano.

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E’ la quarta volta che assisto ad un live delle Aquile, ma mentre nei precedenti casi il concerto era una sorta di greatest hits ambulante (anche se a Milano nel 2009 diedero molto spazio all’allora nuovo CD, Long Road Out Of Eden), questa sera già pregusto qualcosa di diverso, in quanto lo show che i quattro portano in giro da un anno prende spunto dal loro ultimo DVD, History Of The Eagles, per ripercorrere le tappe salienti della loro carriera in ordine quasi cronologico, suonando anche brani meno noti quali https://www.youtube.com/watch?v=HFl4H55Qe0w Saturday Night (che di solito apre la serata), Train Leaves Here This Morning e Doolin-Dalton https://www.youtube.com/watch?v=8SslxLGjP3E : addirittura nel leg americano del tour (in Europa no), durante la prima parte, con loro sul palco c’era anche Bernie Leadon, membro fondatore del gruppo nel lontano 1971 https://www.youtube.com/watch?v=cF_q8nNnECM e poi sostituito da Don Felder.

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L’attesa è dunque alta: i quattro salgono sul palco, anticipati dalla loro touring band (che ha come membro di punta l’eccelso chitarrista Steuart Smith, che ha in pratica rimpiazzato Felder) con un ritardo accettabile di venti minuti e già iniziano con la prima sorpresa: How Long, primo singolo del loro comeback album del 2007, non solo non ha mai aperto i concerti recenti, ma non era neppure in scaletta.

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Già al secondo brano inizio però a sentire puzza di bruciato: Take It To The Limit, grandissima canzone per carità, ma di solito era messa in chiusura della prima parte, in quanto adatta a portare il climax ad alti livelli, mentre sparata subito come seconda perde molto del suo potere.

Man mano che si susseguono le canzoni, sul cui livello di resa sia chiaro non ho nulla da dire, mi rendo conto che ciò che temevo si sta avverando: i quattro stanno suonando una scaletta ridotta, stravolgendo completamente il senso cronologico originale, e per di più dando spazio a brani non proprio eccelsi (Those Shoes) o alla brutta Dirty Laundry, appartenente al repertorio solista di Don Henley ed anch’essa riesumata solo per questa serata.

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Anche se l’ottanta per cento del pubblico presente non sa della scaletta originaria e si gode la serata, io mi chiedo il perché di tale scelta: alla fine saranno ben dieci i brani esclusi (dodici se contiamo che due sono stati suonati solo a Lucca, e quindi usati come parziale rimpiazzo), per un concerto di “solo” diciassette brani per poco più di un’ora e mezza di (grande) musica (e qui il disappunto tra la gente cresce, quando si cominciava a prenderci gusto il concerto è finito).

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Al momento non ho trovato su internet una spiegazione a questo, e mi sono divertito a formularne una, inventandomi un dialogo surreale tra il promoter/organizzatore italiano e gli Eagles stessi:

“Promoter” (con sigaro tra i denti): Allora, cosa suonate stasera?

Glenn Frey (da sempre il portavoce del gruppo): Ecco qua la scaletta: è una sorta di storia cronologica dalle nostre origini fino a…

P (strappando di mano a Frey il foglietto ed iniziando a depennare titoli con il pennarello nero): Che cosa? Ma a chi (bip) volete che interessino le vostre origini? Il pubblico italiano vuole sentire solo i grandi successi!

GF (balbettando): Ma, veramente, il pubblico americano e quello europeo hanno apprezzato, ci sono anche canzoni meno famose…

P (alzando la voce): Queste sono solo (bip)!!! Secondo voi la gente paga per sentire canzoni che non conosce? Adesso la scaletta ve la faccio io…e mi raccomando, date spazio al chitarrista biondo, quello che fa lo scemo sul palco, perché gli Italiani vogliono anche ridere, non solo sentire della musica!”

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Scherzi a parte, questo spiegherebbe anche lo spazio eccessivo dato a Joe Walsh (che comunque è sembrato quello in forma migliore, e questo è un evento), gran chitarrista, abile showman ma come songwriter non proprio un fuoriclasse: quattro brani su ventisette sono una percentuale giusta, ma su diciassette siamo chiaramente sbilanciati.

Questa comunque la scaletta nel dettaglio:

How Long
Take It to the Limit
Tequila Sunrise
I Can’t Tell You Why
Lyin’ Eyes
Heartache Tonight
Those Shoes
In the City
One of These Nights
https://www.youtube.com/watch?v=eruyymqmyqA

Life’s Been Good
Dirty Laundry
Funk #49
Life in the Fast Lane

Hotel California
Take It Easy
Rocky Mountain Way
Desperado

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E’ chiaro che, essendo grandi professionisti, quello che hanno fatto lo hanno fatto egregiamente, ma qua e là qualcosa ha scricchiolato: Frey era in forma vocale appena discreta, mentre Henley, fisicamente appesantito ma ancora un grande cantante, sembrava incazzato come una biglia, quasi non vedesse l’ora di finire e andare a casa. *NDB Ma Timothy B. Schmit (la B. sta per Bruce) ti sta proprio sulle balle, tanto da non nominarlo neppure? Ok, la canzone non è fantastica, ma una piccola citazione…https://www.youtube.com/watch?v=WfZgdkauTzE

Peccato, dato che comunque quando suonano ci sanno ancora fare alla grande, e soprattutto perché non so se e quando capiteranno ancora dalle nostre parti.

Marco Verdi

Dal Rock Alla Microsoft E Ritorno, Con Calma! Paul Allen And The Underthinkers – Everywhere At Once

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Paul Allen and The Underthinkers – Everywhere At Once – Sony Legacy

Paul Allen è, nell’ordine, co-fondatore della Microsoft, multimiliardario, filantropo e musicista rock, chitarrista per la precisione; ma nella sua testa immagino che l’ordine sia invertito o così probabilmente pensava alla fine degli anni ’60, dopo avere visto uno dei concerti del suo concittadino, anche lui di Seattle, (e idolo) Jimi Hendrix. A questo punto si sarà detto, la chitarra elettrica l’hanno già inventata, come quel mancino dubito di potere mai suonare, meglio che faccia altro. E direi che l’ha fatto benino, ma la storia la conoscono tutti. Però la “passionaccia” per la musica evidentemente non l’ha mai persa e dopo tanti anni, nel tempo libero, ha deciso di rendere concreto il suo contributo alle sette note tramite un disco della sua band, gli Underthinkers, un gruppo di amici con cui si esibisce dal vivo per diletto.

Ma immagino anche che si sarà detto: “hey sono Paul Allen, fatemi controllare la mia agendina!” (elettronica). Dunque vediamo, i miei amici Santana, Buddy Guy, Robbie Robertson e Ron Wood non possono, aspetta che chiamo la Sony e vediamo se gli interessa un mio disco? Sissignore, è la risposta. I soldi non mi servono, facciamo che sia un disco i cui ricavati andranno in beneficenza. E questo mi sembra etico (parla il vostro recensore). Torna Paul: ho un po’ di brani scritti con John Bohlinger, il secondo chitarrista della band, Doug Barnett, il bassista, che non suona nel disco e li faccio cantare a Tim Pike, il nostro cantante, che ha anche una bella voce. E magari chiamo qualche amico a suonare e cantare. Riprendo l’agendina e mi do da fare. Direi che a parte la Q, negli oltre 40 musicisti che suonano nel disco, è rappresentato tutto l’alfabeto della musica rock, soul, blues e funky americana.

Il disco parte benissimo e in quella che una volta sarebbe stata la prima facciata si ascolta dell’ottimo rock misto a blues, poi si vira verso un sound vagamente neo-soul e più morbido e parti chitarristiche a parte, l’album si regge sulla grande professionalità e classe dei musicisti che suonano nel CD: per esempio Wendy Moten, viene dalla città giusta, Memphis, ha una bella voce, ma anni di collaborazioni con Michael Bolton e altri “luminari” non le hanno fatto bene e a parte il duetto con Ivan Neville, Restless, dove il pianino New Orleans di Jon Cleary conferisce verve al brano, alcuni brani, quelli “neri”, hanno quel che di blando della produzione ultima di Stevie Wonder, tanto per non fare un esempio. E anche il soul “sinfonico” con archi di Divine, cantato da Amy Keys, ha degli echi delle vecchie produzioni di Isaac Hayes. A proposito di produttori, la maggior parte del lavoro ricade su Doyle Bramhall, ottimo alla chitarra anche in tutto il disco, meno come cantante in Cherries Fall, che però ha un bel tiro hendrix-vaughaniano nel lavoro delle chitarre di Paul Allen (bravo in tutto il disco, non è solo quello che mette i soldi), Bramhall e David Hidalgo dei Los Lobos che appaiono in parecchi brani. Bene anche la sezione ritmica di Matt Chamberlain e Tommy Sims, anche se quella con Jimmy Haslip e Gary Novak, più Michael Landau alla chitarra, praticamente i Renegade Creation senza Robben Ford, mi sembra migliore. Però a parziale smentita di quello che ho appena detto (mi contraddico da solo), Healing Hands è una bellissima ballata soul à la Aretha Franklin, cantata dalla Moten, con Neville all’organo, Matt Rollings al piano e le chitarre di Allen, Bramhall, Hidalgo a cui si aggiunge Derek Trucks.

L’unico blues presente nell’album, Big Blue Raindrops è cantato ottimamente da Pike e le chitarre dei vari ospiti hanno l’occasione di brillare, per l’occasione si aggiunge anche Greg Leisz alle steel (ah quell’agendina!) che già aveva lavorato da par suo nella vagamente country Rodeo, una primizia per Chrissie Hynde che la interpreta veramente bene. Chi manca? Le sorelle Ann & Nancy Wilson, ossia le Heart, in un bel brano rock, l’iniziale Straw Into Gold ritagliato perfettamente per loro, e quindi per proprietà transitiva sui Led Zeppelin. Di nuovo Ivan Neville e Derek Trucks nei ritmi funky New Orleans di Inside Out. Un altro vigoroso pezzo rock come la lunga Pictures Of A Dream, dove tutti i chitarristi si caricano a palla, soprattutto nella jam strumentale in coda dove anche Chamberlain alla batteria è devastante. E ottimo, sempre a livello rock, il pezzo cantato (e suonato) alla grande  da Joe Walsh, Six Strings From Hell, un titolo, un programma, con un organo alla Deep Purple che apre le operazioni. Tutto sommato un bel dischetto, meglio di quello che si poteva pensare e con un sound gagliardo. Si può fare!

Bruno Conti

Anche Per La ELO Sono 40 Anni…E Jeff Lynne Si Fa In Due!

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Jeff Lynne: Long Wave

Jeff Lynne/ELO: Mr. Blue Sky – The Very Best Of Electric Light Orchestra – Frontiers Records CD

Prima precisazione (lo so, non si comincia una recensione con una precisazione, ma il titolare di questo Blog mi ha concesso piena libertà…): sono sempre stato nel dubbio se dire “gli” ELO o “la” ELO, e alla fine ho optato per la seconda, in quanto Orchestra in greco (lingua dalla quale deriva) è una parola femminile (fine della lezione).

Seconda precisazione: gli anni sarebbero 41 (infatti il primo album, l’omonimo Electric Light OrchestraNo Answer in America – è del 1971), ma mi sembra che nell’ultimo periodo artisti e case discografiche con gli anniversari non vadano molto per il sottile.

Come avevo già accennato nella mia recensione dell’ultimo disco di Joe Walsh, Analog Man, ho sempre avuto una predilezione per Jeff Lynne, sicuramente poco condivisa tra i frequentatori abituali di questo Blog (ma chi non ha dei piaceri “proibiti”?): secondo me il fatto di essere stato per anni il leader della ELO, cioè uno dei gruppi di maggior successo commerciale degli anni settanta, gli ha inviso gran parte della critica musicale “colta”, che ha finito per sottovalutare la sua grande abilità come songwriter pop e, soprattutto, come arrangiatore e produttore (il Washington Post lo ha addirittura recentemente messo al quarto posto tra i produttori musicali più importanti di tutti i tempi, mica bruscolini…). Certo, alcuni arrangiamenti di celebri brani della ELO non erano proprio il massimo, ed il flirt con la musica disco (l’album Discovery) non è stata un gran scelta per Jeff (per l’immagine, il suo conto in banca è cresciuto eccome), ma, come ha dimostrato in seguito George Harrison “sdoganandolo” per fargli produrre il suo album Cloud 9, ci trovavamo di fronte ad un fior di musicista. Da quel momento, e per molti anni, Lynne diventò il produttore “da avere”, e fu chiamato da gente non proprio di seconda fascia, tra cui Tom Petty, Roy Orbison, Paul McCartney, Randy Newman, Brian Wilson (uno che non ha bisogno di produttori), i Beatles riuniti e molti altri, oltre a far parte con Harrison, Orbison, Petty e Bob Dylan di quel meraviglioso ensemble dopolavoristico che furono i Traveling Wilburys.

Come solista non ha mai prodotto molto: un album nel 1990 (Armchair Theatre), passato quasi inosservato, ed un disco nel 2001, Zoom, accreditato però alla ELO per motivi puramente di marketing (ma nel disco suonava solo Jeff). Ora, dopo aver scaldato le gomme producendo circa metà del disco di Joe Walsh, Lynne si rifà vivo con ben due progetti in una botta sola: il primo, Mr. Blue Sky, sembra apparentemente la centotreesima antologia della ELO, ma in realtà sono incisioni nuove di zecca fatte da Jeff in perfetta solitudine, suonando tutti gli strumenti, di dodici brani storici più un inedito, mentre il secondo, Long Wave (dalla bellissima copertina) è una serie di rivisitazioni fatte da Lynne di evergreen da lui ascoltati alla radio durante gli anni della giovinezza.

Diciamo una cosa, e cioè che anche il più fedele dei fans, dopo undici anni di silenzio assoluto, avrebbe potuto storcere la bocca vedendosi davanti due dischi con appena una canzone nuova (e l’album di cover che dura mezz’oretta scarsa), ma il buon Jeff ha subito pensato di stoppare le eventuali critiche annunciando di essere già a buon punto su un nuovo album di inediti, in uscita probabilmente già il prossimo anno.

Oggi vorrei parlare principalmente dell’album di covers, in quanto Mr. Blue Sky è una sorta di regalo ai fans della ELO, una serie di brani famosissimi reincisi in quanto, a detta di Jeff, gli originali lo avevano sempre lasciato non del tutto convinto. Ebbene, alcuni di questi brani suonano quasi come copie carbone degli originali, anche se si sente che il suono è notevolmente migliorato (Evil Woman, Mr. Blue Sky, Turn To Stone), mentre in altri si sente eccome il miglioramento, la voce è più centrale, i suoni più nitidi, gli arrangiamenti più asciutti e “rock”: fanno parte di questa seconda categoria brani come Do Ya (che vi piaccia o no, uno dei più bei riff di chitarra della storia), Livin’ Thing (ovvero le radici del Wilbury sound), la splendida ballata Can’t Get It Out Of My Head, l’errebi Showdown (che era uno dei brani preferiti in assoluto da John Lennon). Il meglio viene alla fine, con una versione tosta e vigorosa di 10538 Overture, che apriva in origine il primo disco della ELO (l’unico con Roy Wood in formazione), e la nuova Point Of No Return, un brano rock, decisamente caratterizzato dal tipico Lynne sound, con una melodia estremamente orecchiabile. Un bel disco, anche se fondamentalmente inutile, che delizierà i fans e lascierà indifferenti tutti gli altri.

Ed ora veniamo a Long Wave, che come ho già detto presenta una serie di brani che Jeff ha amato particolarmente durante la sua giovinezza, arrivando come limite temporale fino alla fine degli anni ’50 (ecco dunque spiegata l’assenza di canzoni dei Beatles, vera fonte d’ispirazione in seguito per Lynne): diciamo subito che, a paragone con i dischi analoghi di Rod Stewart e Glenn Frey (che facevano alquanto calare le palpebre, e anche qualcos’altro…), Jeff non ha ripreso alla lettera le sonorità originarie, ma ha intelligentemente usato arrangiamenti più personali e moderni, usufruendo dei suoi abituali trucchi di studio (riverberi, wall of sound di chitarre acustiche, batteria molto pestata, cori in stile Beach Boys); se vogliamo fare però una critica (oltre all’eccessiva brevità del CD), in alcuni casi le interpretazioni suonano un po’ troppo superficiali, quasi che Jeff avesse una sorta di timore referenziale nei confronti dell’originale. Un fatto che, comunque, non rovina la godibilità del dischetto al quale, ripeto, avrei piuttosto aggiunto almeno un altro quarto d’ora di musica.

L’apertura è ottima con la splendida She, un classico assoluto di Charles Aznavour, che Jeff ripropone arrangiandola come un brano ELO al 100% (senza diavolerie elettroniche però), elettrificandola e riuscendo nella non facile impresa di farla sua.

Anche If I Loved You (di Rodgers & Hammerstein, tratta dal musical Carousel) prosegue sulla stessa falsariga: voce in primo piano, suoni semplici (piano, chitarra e batteria), e brano che si ascolta con piacere. In So Sad degli Everly Brothers Jeff canta proprio come Phil e Don, cioè doppiando sé stesso, inventandosi un accompagnamento acustico che ricorda le cose dei Wilburys; Mercy Mercy, un successo di Don Covay, è invece un gustoso errebi dal sapore sixties, che Lynne personalizza con i suoi tipici riverberi. E’ anche il primo singolo, ed è accompagnato da un divertente video nel quale Jeff esegue il brano accompagnato da tre suoi cloni (un’idea già sperimentata da McCartney nel video di Coming Up). (*NDB. La facevano anche gli Stones).

Misurarsi con Roy Orbison è sempre un rischio, ma Running Scared rientra nelle corde di Jeff, e la cover si può dire riuscita, anche se Lynne soffre un po’ il confronto vocale con Roy (ma va?); Bewitched, Bothered And Bewildered (di Rodgers & Hart) è l’unica del disco ad essere un tantino soporifera, mentre la nota Smile di Charlie Chaplin è una gran bella canzone, e Jeff le trasmette un po’ di sapore pop-rock che non guasta. La notissima At Last esce bene dal Jeff Lynne treatment, non differisce molto dall’originale di Etta James (tranne che per la voce, ovvio) e si segnala come una delle più riuscite dell’album; avevo paura prima di ascoltare Love Is A Many Splendoured Thing, il superclassico tratto dall’omonimo film diretto da Henry King, ma Jeff mi ha stupito con un arrangiamento dei suoi, bella voce e performance fluida.

Un po’ di rock’n’roll ci voleva: Let It Rock (Chuck Berry, of course) viene eseguita in maniera trascinante, anche se finisce proprio sul più bello; l’album si chiude con la splendida Beyond The Sea (originariamente La Mer di Charles Trenet, ma diventata un successo internazionale in inglese per mano di Bobby Darin), rifatta da Jeff in maniera molto vigorosa.

(N.D.M: nella versione giapponese del CD, che è quella in mio possesso – anche perché l’uscita mondiale del disco è intorno al 10 Ottobre – si trova un brano in più, e cioè Jody di Del Shannon, in origine sul lato B del singolo Runaway e, in effetti, del valore di un lato B).

Quindi un uno-due gradito (almeno a me) da parte di Lynne, un antipasto nell’attesa dei suoi progetti futuri, sperando che non faccia passare altri undici anni.

Marco Verdi

P.s. *NDB A noi del Blog (e a me che lo faccio) invece Jeff Lynne (non sempre) ci piace e quindi questi dischi, che mi sembrano assai piacevoli, a maggior ragione incontreranno il (mio) nostro favore!

Non Un Capolavoro…Ma Neppure Un Brutto Disco! Joe Walsh – Analog Man

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Joe Walsh – Analog Man – Fantasy/Universal – Deluxe CD + DVD

Non sono mai stato un grandissimo fan di Joe Walsh, l’ho sempre considerato per quello che in realtà è: un ottimo chitarrista, un buon animale da palcoscenico (talvolta al limite del clownesco), ma dal punto di vista vocale e del songwriting un personaggio di seconda, o forse anche di terza fascia. Musicista di secondo piano negli anni settanta (anche se con la James Gang ha fatto la sua figura), deve senz’altro la sua popolarità al fatto di essere stato chiamato negli Eagles come sostituto di Bernie Leadon, e di avere esordito con loro proprio in Hotel California, cioè in uno degli album più famosi di tutti i tempi. Ma da solista non ha mai combinato granché di buono (come tutte le Aquile d’altronde, escluso forse Don Henley), con l’eccezione dei due dischi a nome Barnstorm,  quello omonimo e l’ottimo The Smoker You Drink… e a parte un altro paio di album discreti negli anni settanta, vivendo sempre di rendita su vecchie canzoni come Life’s Been Good, Rocky Mountain Way o In The City. In più, Analog Man arriva a ben vent’anni di distanza dalla sua ultima fatica, quel Songs For A Dying Planet che non aveva certo fatto gridare al miracolo, per usare un eufemismo.

Quindi, direte voi, perché questo post? Perché il produttore (solo in cinque brani su dodici, parlo della “solita” versione deluxe, quella normale ne ha dieci) è un mio autentico pallino: Jeff Lynne, negli ultimi anni poco attivo ma a cavallo tra gli ottanta ed i novanta era un vero produttore deluxe, avendo collaborato con il gotha della musica rock mondiale.

Solo per fare qualche nome (ma la lista sarebbe lunghissima): George Harrison (che lo ha “sdoganato” dopo che la critica di mezzo mondo lo odiava per il fatto di essere il leader della Electric Light Orchestra), Roy Orbison, Tom Petty (forse il suo apice come produttore e co-autore), Traveling Wilburys, Paul McCartney, Randy Newman, Del Shannon, oltre ai riuniti Beatles e a Brian Wilson (che è uno che ha probabilmente bisogno di tante cose, ma non certo di un produttore). E comunque, Lynne a parte (che, ripeto, agisce in meno del 50% del disco, ma guarda caso i tre brani migliori vedono lui alla consolle), Analog Man è, contro ogni previsione, un buon disco di classico rock californiano: Walsh si è preso il suo tempo, ma ha messo a punto una serie di canzoni che, pur non essendo dei capolavori, non deludono (tranne un paio di casi, ma temevo peggio!), la voce è sempre quella che è, ma la grinta c’è e la tecnica chitarristica la conosciamo tutti. E poi, per fortuna, le cose meno riuscite Joe le ha lasciate quasi alla fine del disco.

Oltre a Lynne, nell’album sono presenti nomi altisonanti come Ringo Starr (che se non lo sapete è il cognato di Joe, in quanto Walsh ha sposato Marjorie Bach, sorella di Barbara), il bassista dei Crazy Horse Rick Rosas, oltre a David Crosby e Graham Nash ai cori in Family.

Joe parte bene con la title track (nella quale ci rivela essere un nostalgico delle vecchie tecnologie e di diffidare delle nuove), un potente rock dei suoi, ma anche orecchiabile, con la mano di Lynne che si sente eccome, specie nel suono della batteria, nella nitidezza della strumentazione e nel suo tipico big sound). Ancora meglio Wrecking Ball (titolo un po’ inflazionato ultimamente…), dotata di un ritornello estremamente piacevole, un bell’assolo di slide e Lynne che suona tutti gli strumenti tranne la lead guitar e canta i cori. L’ex ELO deve aver lasciato il segno, in quanto anche Lucky That Way, pur se prodotta dal solo Walsh, risente palesemente dell’influenza del barbuto inglese: una bella ballata solare californiana, cantata bene da Joe e con il giusto campionario di chitarre acustiche e riverberi; Spanish Dancer sembra davvero un brano dell’ultimo periodo della ELO, se non fosse per un paio di intermezzi chitarristici tipici di Joe. Band Played On, dal sound orientaleggiante, non è un granché, anche se il bel finale chitarristico la risolleva, mentre Family è una discreta slow ballad (genere nel quale Joe non ha mai eccelso), nobilitata dalle inconfondibili voci di Crosby & Nash, anche se il synth di sottofondo ce lo potevano risparmiare.

One Day At A Time, che vede il ritorno di Lynne in consolle, è una canzone che gli Eagles hanno già proposto dal vivo negli anni più recenti: una bella canzone, sul genere delle cose migliori di Joe, ed il tocco di Jeff non può che farle bene (anche se qui sembra più Wilburys che Eagles). Di certo il brano migliore del CD. Hi-Roller Baby scivola via gradevole ma innocua, Funk 50, seguito palese della celebre Funk # 49, mostra più muscoli che cervello, mentre India è uno strumentale abbastanza assurdo, un brano ambient-techno-dance senza né capo né coda. Una schifezza, in poche parole.

Per fortuna arriva Lynne a rimettere le cose a posto con Fishbone, che non è un capolavoro ma almeno ha i suoni in ordine, mentre l’ultimo brano è del tutto particolare: But I Try è infatti frutto di una jam inedita, incisa nei primi anni settanta, dalla James Gang con Little Richard (che è anche il cantante solista), un buon brano di rock classico, abbastanza lontano dallo stile tipico del rocker di colore, ma con uno splendido duello finale tra il suo pianoforte e la chitarra di Walsh.

Quindi un buon disco, almeno per tre quarti, che non dovrebbe comunque far rimpiangere i soldi spesi: Joe Walsh non è un fenomeno (e lo sa), ma stavolta è riuscito a non strafare (India a parte) e quindi direi che si merita la promozione, anche se alla lode forse non ci arriverà mai.

Marco Verdi

P.S: per la precisione, la versione deluxe contiene anche un DVD con il making of e tre brani dal vivo.

*NDB (Nota del Blogger o del Bruno, come preferite). Oggi doppia razione, appena sotto trovate un’altra recensione. Quando non vedete la mia firma ma quella di uno dei graditi ospiti del Blog, non sto riposando in panciolle ma devo comunque “preparare” i Post che poi leggete, munendoli di foto, filmati e quant’altro. Buona lettura!

Novità Di Giugno Parte I. Dexys, Chris Robinson, Squackett, Paul Simon, Heart, Hives, Rodney Crowell, Alan Jackson, Joe Walsh, Rhett Miller, Albert King, Box Vanguard

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Iniziamo un ulteriore mese di novità discografiche con le uscite di martedì 5 giugno: di molti vi ho già parlato con molto anticipo e confermo le uscite di Neil Young, Beach Boys, Patti Smith, Brandi Carlile, Alejandro Escovedo, Shawn Colvin e molti altri che non sto a citare, ma questa settimana è ricca di altre novità e ristampe.

Partiamo con un clamoroso ritorno. Si chiamano Dexys semplicemente, perché Kevin Rowland ha detto che sono simili ma non del tutto al vecchio gruppo, qualsiasi cosa voglia significare questa affermazione. Comunque dei vecchi Dexys Midnight Runners, inattivi dal 1985 dell’ottimo Don’t Stand Me Down, ci sono solo Pete Williams, il bassista e il trombonista Big Jim Paterson. Inoltre c’è Mick Talbot, il tastierista dei Merton Parkas e degli Style Council che ad inizio carriera aveva gravitato intorno al primo nucleo dei Dexys. Il nuovo album del gruppo si chiama One Day I’m Going To Soar, esce per la BMG Right’s Management e si dice sia un ritorno ai fasti del passato, sentiremo! A giudicare dal video è sempre classico Celtic Pop Soul.

Nuova formazione che onomatopeicamente in italiano ricorda movimenti spiacevoli di pancia (” ho un po’ di squackett!”) ma molto più prosaicamente è la somma dei due cognomi: Chris Squire e Steve Hackett, gli Squackett. Il bassista degli Yes e il chitarrista dei Genesis che genere faranno? A Life Within A Day esce per la Antenna/Esoteric e non manca una costosa edizione CD+DVD che in più ha “solo” l’album ripetuto in versione 5.1 Dolby Surround e la copertina cartonata.

Questo Kin, Songs By Mary Karr & Rodney Crowell, è in effetti il nuovo album (molto bello) di quest’ultimo con i testi firmati da una scrittrice americana. Oltre alla bravura di Crowell, uno dei migliori songwriters americani in assoluto, quello che lo rende interessante è la presenza di Norah Jones, Vince Gill, Lucinda Williams, Lee Ann Womack, Rosanne Cash, Kris Kristofferson & Emmylou Harris, in ordine di apparizione sulla copertina. Non sono duetti,  spesso gli ospiti sono le voci soliste nelle canzoni scritte da Crowell e Mary Karr!

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Tre musicisti che approfittano delle pause sabbatiche dei rispettivi gruppi.

Chris Robinson Brotherhood presenta un’altra “fratellanza” dopo quella di Devon Allman & Co. Il disco dell’ex (?) Black Crowes si chiama Big Moon Ritual esce per la Silver Arrow/megaforce ed è un disco di rock classico. Solo sette brani ma ciascuno sui sette minuti e oltre con Neal Casal alla chitarra solista e armonie vocali. Ma non poteva fare un disco a nome del gruppo? SSQM, Sono Strani Questi Musicisti! Comunque il disco è buono.

Anche Rhett Miller, dopo The Interpreter questa volta The Dreamer, lasciati momentaneamente gli Old 97’s, pubblica per la Maximun Sunshine un album che per l’occasione ricorda molto il suono del suo gruppo, country-rock e americana. C’è un bel duetto con Rosanne Cash, As Close As I Came To Being Right. Si sente pure un’altra voce femminile nel disco, quella di Rachael Yamagata e alla batteria appare come ospite Jerry Marotta e tanta pedal steel, mi pare niente male anche questo ad un primo ascolto.

Joe Walsh, diciamo che ufficialmente fa parte sempre degli Eagles, ma sono quei 40 anni che periodicamente pubblica anche album solisti. Questo Analog Man però è una primizia, prodotto da Jeff Lynne sembra un ritorno ai tempi belli dei vecchi dischi (quelli degli uomini “analogici” contro i “digitali”). Della prima categoria è presente anche il cognato di Joe Walsh, tale Ringo Starr, alla batteria: hanno sposato le sorelle Bach. Non manca la versione CD+DVD che per una volta ha senso perché oltre al consueto Making of e track-by-track ci sono anche i video di tre brani registrati dal vivo.

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Per la serie “Ristampe e Box, che passione”, tre cofanetti interessanti.

Il primo è la ristampa per il 25° anniversario di Graceland di Paul Simon, stranamente esce per la Sony, visto che in origine era stato pubblicato dalla Warner. C’è il CD, che si trova anche da solo:

1. The Boy In The Bubble
2. Graceland
3. I Know What I Know
4. Gumboots
5. Diamonds On The Soles Of Her Shoes
6. You Can Call Me Al
7. Under African Skies
8. Homeless
9. Crazy Love, Vol II
10. That Was Your Mother
11. All Around The World Or The Myth Of Fingerprints
12. Homeless (Demo)
13. Diamond on the Soles of Her Shoes (Alternate version)
14. All Around the World or The Myth of Fingerprints (Early version)
15. You Can Call Me Al (Demo)
16. Crazy Love (Demo)
17. The Story of Graceland as told by Paul Simon

E il DVD del documentario Under African Skies che racconta la storia di questo bellissimo album. Presentato al Sundance Film Festival, il documentario esce anche da solo, come BluRay e contiene varie chicche, tra cui tre video dei tempi, l’apparizione al Saturday Night Live e molte interviste. Il CD come vedete ha anche una traccia audio con Paul Simon che racconta la storia del disco. Per i fan più incalliti ci sarebbe anche una versione Superdeluxe con due CD in più (ma uno è semplicemente lo sdoppiamento in due del CD da 17 brani, per lasciare l’album originale com’era). il quarto dischetto contiene 5 brani registrati dal vivo a San Sebastiano in Spagna nel 1989. Oltre ai soliti memorabilia che fanno lievitare il prezzo alle solite cifre stratosferiche.

Il secondo cofanetto che vi presento oggi, dedicato alle Heart, ovvero le sorelle Ann & Nancy Wilson, comprende tre CD più un DVD ricchi di inediti e rarità. Si chiama Strange Euphoria ed esce per la Sony Legacy. Per rompere i “maroni”, in esclusiva per Amazon USA, c’è un quinto CD con 5 cover di brani dei Led Zeppelin. Questo è il contenuto della parte audio:

Disc: 1
1. Through Eyes And Glass (by Ann Wilson & The Daybreaks)
2. Magic Man (demo)
3. How Deep It Goes (demo)
4. Crazy On You (demo)
5. Dreamboat Annie (Fantasy Child) + Dreamboat Annie Reprise (edit)
6. Love Alive
7. Sylvan Song
8. Dream Of The Archer
9. White Lightning And Wine (live at the Aquarius)
10. Barracuda (live from BBC Radio Concert)
11. Little Queen
12. Kick It Out
13. Here Song (demo)
14. Heartless (demo)
15. Dog & Butterfly (acoustic demo)
16. Straight On
17. Nada One

Disc: 2
1. Bebe le Strange
2. Silver Wheels II
3. Even It Up
4. Sweet Darlin’
5. City’s Burning
6. Angels
7. Love Mistake
8. Lucky Day (demo)
9. Never (live, with John Paul Jones)
10. These Dreams
11. Nobody Home
12. Alone
13. Wait For An Answer
14. Unconditional Love (demo)
15. High Romance (demo)
16. Under The Sky (demo)
17. Desire Walks On (“Beach demo” version)

Disc: 3
1. Kiss (by The Lovemongers)
2. Sand (live) (by The Lovemongers)
3. Everything (live) (by Nancy Wilson)
4. She Still Believes (live)
5. Any Woman’s Blues (demo) (with the Seattle Blues Revue Horns)
6. Strange Euphoria
7. Boppy’s Back (demo)
8. Friend Meets Friend (live) (by The Lovemongers)
9. Love Or Madness (live)
10. Skin To Skin
11. Fallen Ones
12. Enough
13. Lost Angel (live)
14. Little Problems, Little Lies (by Ann Wilson)
15. Queen City
16. Hey You
17. Avalon (Reprise)

Disc: 4 (Amazon Exclusive)
1. Going to California
2. Battle Of Evermore
3. What Is And What Should Never Be
4. Immigrant Song
5. Misty Mountain Hop

Nel DVD c’è una rara apparizione televisiva del 1976 più i soliti commenti track-by-track.

E un bel Box quadruplo che festeggia la storia della grande etichetta americana Vanguard negli anni ’60, dove lo vogliamo mettere? Make It Your Sound, Make It Your Scene Vanguard Record 1960’s Musical Revolution racconta la storia di quegli anni attraverso una selezione di brani tratti dal catalogo di questa casa discografica. Non credo ci siano inediti, ma molto materiale raro o poco conosciuto di artisti “minori” accanto ai “grandi” del folk, del blues, del jazz, del country e del rock, c’è un po’ di tutto di quel periodo. Ecco la tracking list completa:

Disc: 1
1. I’m So Glad – Skip James
2. Done Got Wise – Big Bill Broonzy
3. Stagolee – Mississippi John Hurt
4. Gospel Train – Golden Gate Quartet
5. Oh Mary, Don’t You Weep – Swan Silvertones
6. The Prodigal Son – Rev Robert Wilkins
7. Bosco Stomp – Cajun Band
8. Blues Is A Botheration – Otis Spann
9. Too Much Alcohol – J.B. Hutto & His Hawks
10. Blues After Hours – Pee Wee Crayton
11. I Can’t Be Satisfied – John Hammond
12. What’s The Matter With The Mill – Koerner Ray & Glover
13. Cocaine – Dave Van Ronk
14. Samson And Delilah – Rev Gary Davis
15. Cotton Crop Blues – James Cotton
16. Clay’s Tune – Charlie Musselwhite Blues Band
17. I Can’t Quit You Babe – Otis Rush
18. You Lied To Me – Junior Wells
19. Fever – Buddy Guy
20. Ball And Chain – Big Mama Thornton
Disc: 2
1. Deep River Blues – Doc Watson
2. Hello Stranger – Mike Seeger
3. House Carpenter – Almeda Riddle
4. 500 Miles – Hedy West
5. Little Glass Of Wine – Stanley Brothers
6. Going Down This Road Feeling Bad – Watson Family
7. Stewball – John Herald With The Greenbriar Boys
8. This Land Is Your Land – Weavers
9. Pretty Boy Floyd – Cisco Houston
10. Walk Right In – Rooftop Singers
11. The Rocky Road To Dublin – Liam Clancy
12. Jug Of Punch – Clancy Brothers
13. The Leaves That Are Green – Country Gentlemen
14. Walls Of Time – Bill Monroe With Peter Rowan
15. Where Have All The Flowers Gone? – Pete Seeger
16. Anger In The Land – Hedy West
17. There But For Fortune – Phil Ochs
18. Thirsty Boots – Eric Andersen
19. The Last Thing On My Mind – Tom Paxton
20. San Francisco Bay Blues – Jesse Fuller
21. Roll On Buddy – Kentucky Colonels With Clarence White
22. Hard, Ain’t It Hard – Kingston Trio
23. Many A Mile – Patrick Sky
Disc: 3
1. North Country Blues – Bob Dylan
2. Farewell, Angelina – Joan Baez
3. Early Morning Rain – Ian & Sylvia
4. Reflections In A Crystal Wind – Mimi & Richard Fariña
5. Driving On Bald Mountain – Odetta
6. Four Strong Winds – Ian & Sylvia
7. Mobile Line – Jim Kweskin
8. Dope Again – Serpent Power
9. I-Feel-Like-I m-Fixin’-To-Die Rag – Country Joe & The Fish
10. Sock It To Me – Sandy Bull
11. Down In The Basement – Notes From The Underground
12. Negative Dreamer Girl – Circus Maximus
13. Rock And Roll Music – Frost-4
14. Cristo Redentor – Charlie Musselwhite With Harvey Mandel
15. Nobody Blues – Serpent Power
16. Born In Chicago – Paul Butterfield Blues Band
17. Oud And Drums – Sandy Bull
18. Janis – Country Joe & The Fish
19. Sweet Lady Love – Frost
20. Lonely Man – Circus Maximus
Disc: 4
1. The Night They Drove Old Dixie Down – Joan Baez
2. Hobo’s Lullabye – Gary & Randy Scruggs
3. Dueling Banjos – Dillards
4. Shell Game – Jerry Jeff Walker
5. Get Your Biscuits In The Oven And Your Buns In The Bed – Kinky Friedman
6. I’m A Woman Jim Kweskin & The Jug Band with Maria Muldaur
7. March! For Martin Luther King – John Fahey
8. The Death Of Stephen Biko – Tom Paxton
9. Here I Go Again – Country Joe & The Fish
10. You Should Be More Careful – Elizabeth
11. Soldier Blue – Buffy Sainte-Marie
12. Sold American – Kinky Friedman
13. Sail – Oregon
14. Rene’s Theme Larry Coryell & John McLaughlin
15. Commemorative Transfiguration And Communion At Magruder Park – John Fahey
16. Morning Song To Sally – Jerry Jeff Walker
17. She Used To Want To Be A Ballerina – Buffy Sainte-Marie
18. A Nickel’s Worth Of Benny s Help 31st Of February
19. Wish I Was A Punk – Notes From The Underground
20. Kiss My Ass – Country Joe McDonald

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L’ultimo terzetto di uscite è un po’ eterogeneo ma avevo esaurito gli accoppiamenti.

Il primo è il nuovo album del country man per eccellenza Alan Jackson che dopo oltre vent’anni passati con la Arista approda per questo Thirty Miles West alla nuova etichetta Capitol. Ma niente paura per gli appassionati, a parte il logo non cambia niente. Volendo ci sarebbe un duetto con Zac Brown, Dixie Highway.

Il gruppo rock svedese degli Hives pubblica il nuovo album Lex Hives, sulla loro etichetta negli USA, ma in Europa è distribuito dalla Columbia, file under rock, come al solito.

Per finire, una nuova ristampa dal catalogo Stax, si tratta di I’ll Play The Blues For You di Albert King, rimasterizzato e arricchito di 4 tracce in più. In America era già uscito il 22 maggio. Così come gli album di Joe Walsh e Escovedo per il mercato italiano usciranno una settimana dopo, il 12 giugno.

Direi che anche per oggi è tutto, non fate caso agli “anche”, oggi me ne sono scappati parecchi ma non avevo voglia di fare “anche” il proto di me stesso ed eliminarli, per cui per questa volta ve li cuccate. Alla prossima!

Bruno Conti

Ringo Starr Y Not

RingoStarr_YNot.jpgRingo Starr – Y Not – Hip-o-select/Universal

Questo simpatico signore dalla faccia buffa e familiare a chi si occupa di musica il 7 Luglio del prossimo anno compirà 70 anni.

Nel frattempo, per non farsi mancare niente pubblica il suo nuovo album solista Y Not, che uscirà in America il 12 gennaio e in Italia il 29 gennaio, credo, Nuova etichetta, scelta bizzarra quella della Hip-o-select un ramo della Universal di solito dedita alla pubblicazione delle ristampe più rare e a tiratura limitata, ma in fondo Ringo, se vogliamo è una “ristampa” vivente, di sé stesso e dei Beatles.

Ma il bello di tutto ciò è che questo CD è uno dei migliori, se non il migliore, della sua carriera: intendiamoci, niente di trascendentale ma Richard Starkey questa volta ha fatto il Ringo, come ai tempi d’oro, canzoni semplici e orecchiabili, collaboratori di vaglia, scelti ad hoc nel mare magnun dei suoi amici e collaboratori passati, presenti e futuri, un nuovo produttore, che per la prima volta ha saputo comprendere e mettere a fuoco le sue richieste ed esigenze, lui stesso!

Alla richiesta come mai avesse deciso di prodursi, per la prima volta, da solo Ringo ha risposto con una delle sue classiche e paradossali battute: “Nella mia ricerca per il produttore perfetto, una mattina mi sono guardato nello specchio e ho visto l’immagine di uno veramente figo”. Naturalmente anche la sua perfezione non ha impedito a Ringo di infilare nel nuovo album la solita “cagata”, proprio la title-track, quei classici brani irritanti ed inutili che tanto negli anni hanno fatto incazz… i fans dei Beatles, nonostante la presenza di Tina Sugandh aka Tina the Tabla Girl (o forse proprio per quello), alle percussioni indiane e al canto, ma è l’unica per fortuna, e non poi così tremenda ma in un album mediamente di buona qualità risalta come un mal di denti.

Il resto è molto piacevole, a partire dall’iniziale Fill In The Blanks, un pezzo rockeggiante scritto e cantato con il nuovo “cognato” Joe Walsh, naturalmente anche alla chitarra. Approfitto dell’occasione per ricordare che Walsh ha sposato la sorella e non la figlia di Barbara Bach, la moglie di Ringo, quindi tutto regolare niente relazioni “incestuose” come i media avevano ventilato.

A seguire una canzone molto lennoniana sia musicalmente (tipo quelle che John scriveva per Ringo), che nel testo pacifista e visionario, Peace Dream, cantata anche molto bene, dopo tutti questi anni sembra persino intonato (ah dimenticavo, il bassista è tale Paul McCartney). Proseguendo in questo tuffo nella memoria The Other Side Of Liverpool, un bel pezzo dal drive rockeggiante con chitarre e batteria sugli scudi, che ricorda che la sua gioventù non è stata tutta rose e fiori, non è nato uno dei Beatles, lo è diventato.

Il pezzo più bello, scritto e arrangiato con Van Dyke Parks, Walk with you vede ancora la presenza di Paul McCartney che duetta con Ringo in un delizioso quadretto che più Beatlesiano non si può, la migliore canzone della carriera di Ringo? Potrebbe essere!

Non so l’esatta collocazione dei vari ospiti nei rispettivi brani, ma al disco collaborano oltre a quelli citati altri artisti di notevole caratura: dal tasterista degli Heartbreakers di Tom Petty Benmont Tench, passando per l’Eurythmic Dave Stewart, dalla violinista Ann Marie Calhoun nella bella Time, passando per Richard Marx e Ben Harper, e ancora Glenn Ballard e Gary Nicholson. Chi altro? Edgar Winter sax e fiati, Don Was al basso, ma ce ne sono molti altri.

Ciliegina sulla torta, Joss Stone e quando inizia a cantare nella conclusiva Who’s Your Daddy, si riconosce subito, una voce potente e grintosa (la classica “voce della Madonna”), la ragazzina inglese è veramente brava. Ma tutto il disco è molto bello, con un suono chitarristico, gli assoli si sprecano nei vari brani, i cori degli ospiti sono assai centrati, Ringo canta bene, una piacevole sorpresa ovviamente destinata soprattutto ai fans dei Beatles. Finalmente un disco nuovo con dieci canzoni “nuove”, classic rock, daddy rock, fate voi, comunque piacevole.

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Bruno Conti