Un Inatteso E Gradito Ritorno Della “Strana Coppia”. Leo Kottke & Mike Gordon – Noon

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Leo Kottke & Mike Gordon – Noon – ATO CD

Sinceramente ero convinto che Leo Kottke, grandissimo chitarrista acustico titolare di una lunga carriera iniziata a fine anni 60, avesse appeso definitivamente il suo strumento al chiodo, dal momento che il suo ultimo album Sixty Six Steps (il secondo in duo con Mike Gordon, bassista dei Phish, dopo Clone) risaliva ormai al 2005. Ho accolto quindi con molto piacere la notizia che Kottke stava per pubblicare della nuova musica e sempre insieme a Gordon: Noon, terzo disco in collaborazione con il musicista del Vermont, ci mostra che nonostante l’età, 75 anni, ed i tre lustri lontano dai riflettori il nostro non ha perso lo smalto ed è ancora in grado di dare del tu al suo strumento. Kottke è sempre stato giustamente considerato l’erede del geniale John Fahey, e probabilmente è il miglior chitarrista acustico della sua generazione (in possibile coabitazione con Bert Jansch), e Noon, pur non essendo al livello dei suoi lavori più celebrati, è un dischetto suonato benissimo che si lascia ascoltare con grande piacere.

Leo non ha perso la voglia di suonare, e le sue dita scorrono ancora che è una meraviglia nonostante negli anni 80 abbia dovuto adottare un approccio più classico e “tranquillo” a cause di una grave forma di tendinite: da parte sua Gordon lo accompagna con la solita puntualità che gli conosciamo coi Phish, ma si tiene quasi in disparte come se volesse riconoscere a Kottke la leadership del progetto (ed infatti Mike scrive e canta solo tre canzoni, mentre Leo ne compone il doppio e due sono cover). Prodotto da Jarod Slomoff, Noon ci regala quindi 40 minuti circa in cui i nostri suonano per il piacere di farlo, tra folk e musica d’autore con elementi blues e jazz qua e là: non ci sono solo i due leader in session, ma troviamo anche il compagno di Gordon nei Phish Jon Fishman alla batteria in cinque pezzi, Zoe Keating e Brett Lanier rispettivamente al violoncello e steel guitar in un brano a testa e lo stesso Slomoff ai cori. Il CD inizia con Flat Top, una folk tune strumentale dalla purezza cristallina, con i due amici che suonano con estrema fluidità, brano che confluisce subito nella prima cover: Eight Miles High è proprio il classico dei Byrds, ed è reinventata da capo a piedi trasformandosi da rock song psichedelica a canzone di stampo cantautorale in cui chitarra e basso si rincorrono percorrendo scale ascendenti e discendenti, e la voce arrochita di Kottke che intona la nota melodia (che è l’unico punto in comune con l’originale).

I Am Random, di Gordon, è un limpido brano cadenzato dal taglio melodico moderno vicino a certe cose dei Phish, ma con la chitarra di Leo che si adatta senza problemi (si sente il tono informale della session: al secondo minuto i due e Fishman sembrano incartarsi su loro stessi, poi ci ridono su e ricominciano a suonare come un attimo prima). Noon To Noon è una ballata di stampo folk-jazz (e qui sento tracce di Jansch), Kottke suona che sembrano in tre ed il basso non funge solo da mero accompagnamento, From The Cradle To The Grave è uno slow terso e delicato cantato a più voci, dalla struttura cantautorale e motivo gradevole, mentre How Many People Are You è un pezzo dalla ritmica spezzettata e leggermente swingato, con un pizzico di follia come da prassi con Gordon: forse non una grande canzone, ma è riscattata dalla prestazione chitarristica di Leo.

Con lo strumentale Ants siamo ancora in territori folk, una canzone purissima nella quale le dita di Leo lavorano di fino fornendo una delle migliori performance del CD, mentre Sheets è addirittura splendida, una ballata toccante e profonda che ci conferma (ma non ce n’era bisogno) che Kottke non è solo un grande chitarrista ma un artista completo. Alphabet Street di Prince è la cover che non ti aspetti, un brano che non ho mai amato ma che in questo arrangiamento tra country e blues guadagna diversi punti; il dischetto termina con la folkeggiante Peel, il più “normale” tra i pezzi scritti da Gordon, con un ottimo gioco di voci, e con la guizzante e melodicamente deliziosa The Only One, che oltre ad un titolo di canzone potrebbe essere anche un azzeccato soprannome per Leo Kottke, dal momento che ancora oggi suona la chitarra acustica come nessun altro.

Marco Verdi

Il Rock Non E’ Musica Per Panettieri…O Forse Sì! Phish – The Baker’s Dozen: Live At Madison Square Garden

phish baker's dozen

*NDB Anche ieri, e nei tre giorni precedenti, come è tradizione ormai da parecchi anni, i Phish hanno festeggiato la fine dell’anno con una serie di concerti al Madison Square Garden di New York, che è diventato per loro una sorta di quartier generale per le “residenze” più lunghe nei loro tour, oltre che per i concerti di Halloween. Gli eventi di cui leggete sotto, invece si sono tenuti, sempre al Madison Square Garden, nel luglio del 2017.

Phish – The Baker’s Dozen: Live At Madison Square Garden – JEMP 3CD – 6LP

I Phish sono ormai da più di due decenni una delle migliori live band al mondo, e giustamente vengono considerati gli eredi dei Grateful Dead, per la loro capacità di trasformare e dilatare qualsiasi canzone, originale o cover che sia, con feeling, grande tecnica e creatività: non a caso quando nel 2015 i membri superstiti dei Dead hanno deciso di dare l’addio con cinque Farewell Concerts, il prescelto per sostituire Jerry Garcia è stato proprio Trey Anastasio, cantante, chitarrista e principale compositore del quartetto del Vermont (gli altri tre sono da sempre il bassista Mike Gordon, lo straordinario pianista Page McConnell ed il batterista Jon Fishman, un pazzo scatenato che però quando suona non ha paura di nessuno). Di conseguenza, è chiaro che la discografia dal vivo dei quattro sia corposa, per usare un eufemismo, tra live normali, cofanetti e CD pubblicati in esclusiva sul loro sito: l’ultima uscita in ordine di tempo è anche una delle più interessanti, e stiamo parlando cioè di The Baker’s Dozen: Live At Madison Square Garden, un triplo CD (o sestuplo LP) che presenta una selezione dai ben tredici concerti consecutivi tenuti nel 2017 dai nostri nel famoso teatro di New York.

In realtà il piatto forte era The Complete Baker’s Dozen, un megabox di 36 CD che comprendeva la residence completa, un cofanetto costoso e limitato che è andato esaurito in breve tempo (e per una volta il sottoscritto si è accontentato del triplo). La particolarità di quegli show (e non è una cosa da poco) è che i Phish durante le tredici serate non hanno mai suonato la stessa canzone per due volte, una cosa che non tutti si possono certo permettere di fare. La selezione per il triplo CD (presentato in un’elegante confezione mini-box, che quelli che hanno studiato chiamano “clamshell”) deve dunque essere stata difficile e dolorosa, anche perché la lunghezza dei brani presenti (una media di 11-12 minuti a canzone: si va dai sette di More e Miss You ai venticinque di Simple) non ha consentito di inserire più di tredici pezzi in totale. Personalmente sono abbastanza soddisfatto della scelta, anche se avrei ascoltato volentieri anche altri pezzi del gruppo, ed in particolare non mi sarebbe dispiaciuto un CD in più con una selezione delle varie cover suonate durante gli show, brani appartenenti, tra gli altri, ai songbook di Bob Dylan, Neil Young, Frank Zappa, David Bowie, Beatles e Led Zeppelin).

Il risultato finale è comunque eccellente, e The Baker’s Dozen si colloca quasi fuori tempo massimo tra i migliori album live dell’anno: Anastasio e soci sono in forma strepitosa, avendo ormai raggiunto uno status per cui sarebbero in grado di suonare qualsiasi cosa e renderla propria. I brani partono spesso dalle melodie iniziali per poi svilupparsi in maniera assolutamente creativa ed improvvisata, con la chitarra ed il pianoforte sempre a dettare legge ma con la sezione ritmica che non si tira mai indietro: i Phish non utilizzano altri musicisti sul palco, sono solo loro quattro, ma in certi momenti sembra che siano in sedici tanto corposo ed intenso è il groove che mettono nei vari brani. Ci sono quattro pezzi tratti da Big Boat, il loro ultimo bellissimo album di studio https://discoclub.myblog.it/2016/10/18/allora-sanno-grandi-dischi-phish-big-boat/  (mentre nulla proviene dai due precedenti, Joy e Fuego), a partire da una formidabile Blaze On, un brano limpido e solare che ricorda molto da vicino gli episodi più orecchiabili dei Dead: 23 minuti di piacere assoluto, con Anastasio e McConnell (il quale passa con estrema disinvoltura dal piano acustico a quello elettrico) che fanno sentire da subito di che pasta sono fatti, con improvvisazioni continue ed assoli su assoli, ma senza mai perdere di vista la canzone stessa.

Completano la selezione da Big Boat l’immediata More, un brano rock solido e molto ben costruito (e l’assolo di Trey è da urlo), la fulgida slow ballad Miss You, dal motivo bellissimo che evidenzia il gusto melodico del gruppo, e la funkeggante No Men In No Man’s Land, dal suono grasso e ritmo sostenuto. Abbiamo anche due inediti, e cioè la gustosa Everything’s Right, una rock song cadenzata, godibile e dal ritornello vincente, e la travolgente Most Events Aren’t Planned, in cui i Phish suonano con grande affiatamento e compattezza, un brano ancora tra rock e funky, con il basso di Gordon piacevolmente sopra le righe. Ci sono due pezzi tratti da The Story Of The Ghost, a mio parere il disco meno riuscito della carriera della band, che però non sembra pensarla come me: la rock ballad Roggae, un brano fluido tipico del loro repertorio, eseguita al solito impeccabilmente e con potenti riff elettrici (ed un liquidissimo assolo di Anastasio), e l’annerita Ghost (20 minuti), che dal vivo risulta molto più coinvolgente che sull’album originale. Il resto? Innanzitutto la strepitosa Simple (unica del triplo scritta da Gordon), un pezzo che i nostri hanno suonato sempre e solo dal vivo, che parte come una potente rock song di stampo classico, molto chitarristica e dal motivo diretto, e che poi nei suoi 25 minuti vede il gruppo percorrere tutte le direzioni musicali possibili (e non manca anche qui un mood funky, genere che i nostri amano infilare un po’ dappertutto).

Ci sono poi tre canzoni prese dalla discografia “di mezzo”, cioè da Farmhouse (una maestosa Twist, altri 20 minuti di grande intensità e con Anastasio monumentale, nonostante ad un certo punto compaia un synth poco gradito), da Round Room la quasi soffusa Waves, dallo spirito “deaddiano” e finale psichedelico, e da Undermind l’energica Scents And Subtle Sounds, che alterna momenti parecchio roccati ad altri più distesi, con un grandissimo McConnell e Fishman debordante: una delle performance migliori del triplo. L’unico classico appartenente ai primi dischi della band è la nota Chalk Dust Torture, qui proposta in una roboante e vitale rilettura di 24 minuti, in cui i quattro ci fanno vedere e soprattutto sentire perché sono uno dei migliori gruppi del pianeta (e Trey è in pura trance agonistica). Un grande live album, da ascoltare attentamente dalla prima all’ultima nota: alla fine arrivo quasi a rimpiangere di essermi lasciato sfuggire la versione extralarge.

Marco Verdi