La Fattoria Non E’ Molto Prolifica, Ma Sforna Prodotti Di Prima Qualità! John Fogerty – Fogerty’s Factory

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John Fogerty – Fogerty’s Factory – BMG Rights Management CD

Quando alcune settimane fa ho letto la notizia che John Fogerty avrebbe pubblicato su CD una selezione dei brani registrati a casa sua con i suoi figli durante il lockdown primaverile e mandati in onda su YouTube ad uno ad uno ogni venerdì sotto il nome di Fogerty’s Factory, ho provato quello che gli anglosassoni chiamano “mixed feelings”: da una parte c’era la soddisfazione di avere un disco nuovo di uno dei miei musicisti preferiti in assoluto, dall’altra non ho potuto nascondere un moto di disappunto per il fatto che per l’ennesima volta l’ex leader dei Creedence Clearwater Revival stava più o meno riproponendo sempre le stesse canzoni. Infatti dal 1997 ad oggi (cioè da quando ha ripreso a fare dischi – lo splendido Blue Moon Swamp – ed esibirsi dal vivo con una certa costanza) il rocker californiano ha spesso “riciclato” i suoi classici pubblicando ben quattro album dal vivo, un’antologia ed un disco di duetti, e l’ultimo lavoro formato da soli pezzi inediti, Revival, risale ormai a 13 anni fa.

In più, memore dell’esperienza low-fi dell’EP The Bridge di Neil Young, temevo che anche Fogerty’s Factory risentisse degli stessi problemi di fedeltà audio. Niente di più sbagliato, in quanto il CD è inciso in maniera decisamente professionale e prodotto con tutti i crismi, e sembra davvero di avere John ed i suoi tre figli (Shane, Tyler e la giovanissima Kelsy Fogerty, tutti alle chitarre, Shane e Tyler anche al basso, Tyler all’organo in un pezzo e Kelsy alla batteria in due) nel salotto di casa nostra. Ma non solo, in quanto l’ascolto dell’album (che celebra i 50 anni del capolavoro dei CCR Cosmo’s Factory sia nel titolo che nella foto di copertina, ora come allora scattata dal fratello di John, Bob Fogerty) si rivela estremamente piacevole e gradito, e dopo pochi secondi che il CD è entrato nel lettore mi sono dimenticato delle mie riserve iniziali. L’album era uscito qualche mese fa sotto forma di EP di sette canzoni ma solo in digitale, ed ora è stato aumentato a 12 (ma rispetto all’EP sono state escluse Down On The Corner e Long As I Can See The Light: perché?) per un totale di 42 minuti di durata.

Queste riletture intime dei vari brani sono quindi molto piacevoli, anche perché i quattro Fogerty se la cavano più che bene alle chitarre e John ha ancora una voce formidabile: l’unico problema può essere l’assenza della batteria in 10 brani su 12, uno strumento molto importante nell’economia delle canzoni di John, ma vista la tecnica piuttosto rudimentale di Kelsy nei due pezzi in cui i tamburi ci sono forse va bene così. I classici del nostro riguardano sia la carriera solista che il periodo CCR: Have You Ever Seen The Rain, Proud Mary, Bad Moon Rising, Fortunate Son e Centerfield, l’unica questa a non essere stata registrata in casa ma in un Dodgers Stadium di Los Angeles completamente vuoto lo scorso 28 maggio, giorno del settantacinquesimo compleanno di John.

Dal repertorio post-Creedence abbiamo anche il rock’n’roll Hot Rod Heart, forse quella che insieme a Fortunate Son soffre di più l’assenza di un batterista, la deliziosa country ballad Blue Moon Nights, la swamp tune Blueboy, uno dei due pezzi in cui Kelsy siede ai tamburi, e la bella Don’t You Wish It Was True, che sembra in tutto e per tutto una outtake dei CCR.

La storica band di Fogerty è rappresentata anche dalla meno nota Tombstone Shadow, roccioso rock-blues con bella prestazione chitarristica ed un drumming piuttosto scolastico, mentre come chicca finale ci sono anche due cover inedite: la splendida City Of New Orleans di Steve Goodman è rallentata e suonata in punta di dita in modo da far uscire la celebre melodia, ed ancora meglio è la rilettura del classico di Bill Withers Lean On Me (in omaggio al suo autore, scomparso lo scorso 30 marzo), una versione magnifica, suonata e cantata splendidamente. Fogerty’s Factory è quindi un piacevolissimo e riuscito intermezzo nella carriera di John Fogerty, anche se prossimamente vorrei davvero leggere il suo nome vicino a nuove composizioni.

Marco Verdi

Ecco Uno Che Sa Fare Solo Dischi Bellissimi! Chris Stapleton – Starting Over

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Chris Stapleton – Starting Over – Mercury/Universal

Chris Stapleton ha esordito come solista abbastanza tardi (Traveller, del 2015, è stato pubblicato quando il singer-songwriter del Kentucky aveva già 37 anni), ma in pochissimo tempo ha fatto vedere di non avere molto terreno da recuperare. Con un passato da autore per conto terzi ed una militanza in un paio di band con le quali non ha mai inciso alcunché, Stapleton infatti non ci ha messo molto per affermarsi come uno dei musicisti migliori oggi in America: Traveller era un lavoro splendido e ha avuto anche un notevole successo https://discoclub.myblog.it/2015/07/25/good-news-from-dave-cobb-productions-chris-stapleton-traveller-christian-lopez-band-onward/ , ed anche il doppio From A Room del 2017 (pubblicato però in due diverse tranche) era di livello notevole seppur leggermente inferiore all’esordio. C’era quindi parecchia attesa per il terzo album di Chris (in quanto io considero i due From A Room come una cosa unica), e sappiamo quanto possa essere problematico il terzo lavoro per un artista che ha debuttato col botto https://discoclub.myblog.it/2017/12/16/peccato-solo-che-forse-non-ci-sara-un-terzo-volume-chris-stapleton-from-a-room-volume-2/ .

Ebbene, non solo Starting Over conferma la crescita esponenziale del nostro come autore e performer, ma a mio parere è perfino superiore a Traveller, e si candida fin dal primo ascolto ad uno dei posti di vertice per la classifica dei migliori del 2020. Starting Over (che si presenta con una copertina ultra-minimalista, per non dire inesistente) propone la consueta miscela di rock, country e southern music tipica del nostro, ma con una qualità compositiva di primissimo livello ed un feeling interpretativo notevole, grazie soprattutto ad una voce tra le più belle ed espressive del panorama musicale odierno ed una tecnica chitarristica da non sottovalutare. Prodotto al solito dall’amico Dave Cobb e con gli abituali compagni di ventura (la moglie Morgane Stapleton alla seconda voce, Cobb stesso alle chitarre acustiche, J.T. Cure al basso e Derek Mixon alla batteria), Starting Over ha anche degli ospiti che impreziosiscono alcuni brani , come Paul Franklin, leggendario steel guitarist di Nashville, e gli Heartbreakers Benmont Tench e Mike Campbell, non una presenza casuale in quanto Stapleton è presente sul nuovissimo album d’esordio dei Dirty Knobs, il gruppo guidato proprio da Campbell (appena recensito su questi schermi).

In poche parole, forse il miglior disco uscito negli ultimi mesi insieme a quello di Bruce Springsteen, in un periodo solitamente dedicato alle antologie e ristampe proiettate alle vendite natalizie. Il CD parte benissimo con la title track, una spedita ballata di stampo acustico servita da una melodia di prim’ordine e con la prima di tante prestazioni vocali degne di nota: il refrain, poi, è splendido. Devil Always Made Me Think Twice è una robusta rock’n’roll song di chiaro stampo sudista: Chris ha la voce perfetta per questo tipo di musica, ma è il brano in sé ad essere trascinante, ed io ci vedo chiara e lampante l’influenza di John Fogerty sia nelle sonorità swamp che nella linea melodica e modo di cantare. Il piano di Tench introduce Cold, una ballata elettroacustica eseguita con grande forza e pathos (ma sentite che voce), con un leggero accompagnamento d’archi che le dona un tocco suggestivo in più e crea un crescendo da brividi.

When I’m With You è un lento alla Waylon Jennings, una canzone bella, limpida e ricca di anima con gli strumenti dosati alla perfezione, a differenza di Arkansas che è una travolgente rock song elettrica di grande potenza, con Campbell co-autore e chitarra solista che si produce in un mirabolante assolo dei suoi, mentre Joy Of My Life, prima cover del disco, è un delicato pezzo che Fogerty aveva dedicato a sua moglie nel 1997: Stapleton fa lo stesso con Morgane ed il risultato è eccellente, con l’aggiunta di elementi southern che l’originale non aveva. Il sud è ancora presente nell’intensa Hillbilly Blood, notevole ballata tra rock e musica d’autore che ricorda molto da vicino il Gregg Allman più roots, timbro vocale compreso, al contrario di Maggie’s Song, bellissima country ballad dal motivo molto classico (vedo l’ombra di The Band, zona The Weight) e con l’organo di Benmont ad impreziosire ulteriormente un gioiello già luccicante di suo.

Lo slow elettrico di matrice rock-blues Whiskey Sunrise, suonato ancora con indubbia forza e con un paio di pregevoli assoli da parte del leader, precede le altre due cover del CD, entrambe prese dal songbook del grande Guy Clark: se Worry B Gone è un coinvolgente rockin’ country texano al 100% contraddistinto da una performance collettiva da applausi, Old Friends è uno dei pezzi più noti e belli dello scomparso cantautore di Monahans, e la resa di Chris è semplicemente da pelle d’oca. Watch You Burn è il secondo brano scritto e suonato con Campbell, una rock song asciutta e diretta, sempre con quell’afflato southern che è insito nella voce del nostro, canzone che precede You Should Probably Leave, strepitoso e cadenzato pezzo dal sapore decisamente errebi (uno dei più godibili del lotto), e l’intensa Nashville, TN, country ballad “cosmica” alla Gram Parsons che chiude degnamente un album davvero splendido. A parte un paio di dubbi avevo praticamente già deciso i dieci dischi più belli di quest’anno, ma dopo aver ascoltato Starting Over mi vedo costretto a ritoccare la lista. E nei primissimi posti.

Marco Verdi

From Los Angeles California, The Dawes II: Una Buona Conferma Del Loro Ritorno Sulla Retta Via. Dawes – Good Luck With Whatever

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Dawes – Good Luck With Whatever – Rounder Records

Ascoltate questi ragazzi, sono davvero forti!” Questa frase, rivolta a me e ai miei quattro amici nel backstage del Jazzaldia Festival di San Sebastian, nell’ormai lontano 24 luglio 2011, veniva non certo da uno qualunque ma dall’illustre protagonista di quella fredda e piovosa serata, Jackson Browne, e si riferiva ai quattro giovani musicisti che avrebbero suonato con lui e prima di lui, i californiani Dawes, supportati per quel breve tour europeo anche dal loro produttore, l’ottimo Jonathan Wilson. E in effetti se la cavarono egregiamente, sia presentando i pezzi del loro secondo album Nothing Is Wrong nel set di apertura, sia suonando in modo impeccabile i classici del loro illustre mentore, For Everyman, The Pretender, Running On Empty e parecchi altri, chiudendo la serata con un inatteso quanto brillante omaggio al grande e sempre compianto Warren Zevon.

I due fratelli Griffin e Taylor Goldsmith, rispettivamente il batterista e il chitarrista, nonché lead vocalist e compositore, insieme al bassista Wylie Gelber e al tastierista Tay Strathairn (dopo breve tempo rimpiazzato da Alex Casnoff) avevano esordito nel 2009 con il promettente North Hills, facendo subito intendere le loro potenzialità nel riproporre un sound molto influenzato dal folk rock westcoastiano degli anni settanta. Seguirono, con un notevole crescendo qualitativo, altri tre lavori, il già citato Nothing Is Wrong (2011), Stories Don’t End (2013) e quello che tuttora considero il migliore della loro discografia, All Your Favorite Bands, pubblicato nel 2015 https://discoclub.myblog.it/2015/06/03/from-los-angeles-california-the-dawes-all-your-favourite-bands/ . L’anno seguente giunse, del tutto inatteso, il vero passo falso della loro ancor breve carriera. We’re All Gonna Die (già dal titolo non esattamente beneaugurante) esibiva una serie di canzoni modeste, soffocate da una valanga di overdubs, suoni sintetizzati e pattern elettronici. Dall’ imbarazzante singolo When The Tequila Runs Out e relativo video si ricavava la spiacevole impressione che i nostri quattro si fossero presi una colossale sbronza in campo creativo. Per fortuna, almeno sul palco, aggiustarono il tiro come dimostra il discreto live album, venduto solo sul loro sito, We’re All Gonna Live.

Senza dubbio una delle cause del loro rinsavimento va attribuita al ritorno in cabina di regia di Jonathan Wilson che ha determinato il ritorno a suoni e arrangiamenti adeguati alle loro caratteristiche nel positivo Passwords, uscito un paio d’anni fa https://discoclub.myblog.it/2018/08/04/al-solito-buon-rock-californiano-ma-possono-fare-meglio-dawes-passwords/ .

Per produrre il nuovo Good Luck With Whatever, i Dawes si sono affidati nientemeno che a Dave Cobb, un nome una garanzia, come dimostrano le innumerevoli brillanti pubblicazioni discografiche da lui curate negli ultimi anni, e il risultato si vede, e sente, eccome! I suoni e le armonie vocali tornano a risplendere, Lee Pardini, ultimo tastierista aggregatosi al gruppo quattro anni fa, lascia perdere sintetizzatori e amenità del genere per dedicarsi con ottimi esiti soltanto al pianoforte e all’hammond e, non ultimo, la qualità dei brani torna ad essere degna del loro passato. Si parte subito col piede giusto nell’iniziale Still Feel Like A Kid, il singolo più recente pubblicato a fine agosto, un robusto e accattivante inno all’eterna giovinezza che deriva dal suonare in una band, con tanto di coretti che citano i Beach Boys, in omaggio all’età dell’oro del sound californiano. Piano e chitarra elettrica aprono la title-track, un bel mid tempo che ci rituffa negli anni settanta come solo i Jayhawks e pochi altri hanno saputo fare oltre a loro.

Between The Zero And The One è una sontuosa ballatona che si colloca tra le cose migliori che Taylor Goldsmith sia stato capace di scrivere finora, mi riferisco a gioiellini come Fire Away, Most People o Things Happen dei precedenti dischi, con quell’incedere maestoso e classico che si fa immediatamente apprezzare, scandito dai limpidissimi tocchi del piano e dalla incalzante batteria del fratello Griffin. None Of My Business viaggia veloce al ritmo dei mitici Creedence e Taylor regala una performance vocale degna dell’icona John Fogerty (date un’occhiata su You Tube al duetto tra discepolo e maestro in Someday Never Comes, al David Letterman Show, e avrete la conferma di tali affinità).

Quasi a fare da spartiacque tra le due parti vitali ed energiche dell’album, troviamo la tonificante oasi acustica di St. Augustine At Night, per voce, chitarra acustica e delicati contrappunti di basso e pianoforte. Poi i Dawes riaccendono i motori col primo singolo uscito alla fine di luglio Who Do You Think You’re Talking To? a cui possiamo perdonare quella ritmica un po’ finta” a fronte di un riff indovinato e un ritornello accattivante che ti entra subito nella testa https://www.youtube.com/watch?v=4O7VVDxb_us . Didn’t Fix Me possiede invece il timbro intenso ed avvolgente che ritroviamo in tanti capolavori usciti dalla penna di brother Jackson Browne, con il piano e le chitarre che giocano a rincorrersi su una linea melodica seducente e malinconica. Free As We Wanna Be, altri tre minuti di pura piacevolezza sonora con il piano ancora splendido protagonista, potrebbe essere considerato l’accorato saluto dei Dawes ad un altro gigante mai abbastanza rimpianto, Tom Petty, mentre la conclusiva Me Especially è un lento spezzacuori che dimostra quanto Taylor e soci abbiano interiorizzato gli insegnamenti della premiatissima ditta Don Henley & Glenn Frey.

Ottimo lavoro Mr. Cobb! I Dawes sono tornati nel lotto delle my favorite bands.

Marco Frosi

Più Rock Che Blues Nonostante Il Titolo, Comunque Sempre Una Garanzia, Anche In Quarantena. Mike Zito – Quarantine Blues

mike zito quarantine blues

Mike Zito – Quarantine Blues – Gulf Coast Records

Quando qualche mese fa, durante il viaggio aereo di ritorno dal tour europeo annullato per le note vicende del virus, Mike Zito si è trovato a pensare cosa fare durante il lungo periodo di pausa, ha deciso all’impronta di registrare un nuovo album da “regalare” ai suoi fans, con l’avvertenza che chi voleva poteva fare anche una donazione per aiutare a livello economico sia i membri della band, come lo stesso Mike, e anche i loro familiari. La campagna come ho visto sul sito è andata bene, ha raggiunto gli obiettivi prefissati e ha permesso anche di finanziare i costi della registrazione dell’album. Per quanto Zito abbia uno studio di registrazione casalingo ed anche una etichetta personale, la Gulf Coast Records, per la quale di recente ha rilasciato l’eccellente CD dal vivo di Albert Castiglia https://discoclub.myblog.it/2020/05/09/un-album-dal-vivo-veramente-selvaggio-albert-castiglia-wild-and-free/ . Per la serie una ne pensa e cento ne fa (come Joe Bonamassa), il nostro amico ha prodotto anche il nuovo album di Tyler Morris https://discoclub.myblog.it/2020/05/03/un-irruento-fulmine-di-guerra-della-chitarra-anche-troppo-tyler-morris-living-in-the-shadows/ , senza dimenticare quello dei Proven Ones https://discoclub.myblog.it/2020/06/16/una-nuova-band-strepitosa-tra-le-migliori-attualmente-in-circolazione-the-proven-ones-you-aint-done/ , e con i nuovi della Mark May Band e dei Lousiana’s Le Roux annunciati in uscita a breve.

Anche se Zito, come si evince da quanto detto finora, è uno che di solito comunque pianifica con precisione il suo lavoro, per Quarantine Blues ha fatto una eccezione, della serie del disco “cotto e mangiato”, o meglio registrato e pubblicato immediatamente. Ne parliamo sia perché merita, ma anche perché alla fine è stato deciso di pubblicare anche il CD fisico (a pagamento questa volta) e quindi chi non lo aveva scaricato gratuitamente, e non so se lo si trova ancora in questa modalità, e per chi è comunque un fan dei prodotti “fisici”, pur con le difficoltà di reperibilità e i costi di spedizione non a buon mercato per chi non abita negli States, può andarne alla ricerca.

Nonostante il titolo lasci presagire un disco blues, Mike Zito e i membri della sua band abituale, Matt Johnson, Doug Byrkit e il tastierista Lewis Stephens, hanno deciso di optare per un sound più rock, diciamo decisamente ruspante, al limite del “tamarro” a tratti: in effetti è stato coinvolto anche Tracii Guns, degli L.A. Guns , una band che diciamo non ha mai brillato per raffinatezza, e Don’t Touch Me, il duetto con lui, ricorda molto l’hair metal anni ‘80, con chitarre a manetta e ritmi granitici. Per fortuna il resto del disco è decisamente meglio, l’iniziale Don’t Let The World Get You Down, oltre ad essere una dichiarazione di intenti, è un gagliardo pezzo rock, dove si gusta la voce sempre inconfondibile e vissuta di Mike, mentre Stephens va di organo con grande libidine e i riff e gli assoli di chitarra si sprecano in un pezzo dal sapore rootsy.

Looking Out This Window, anche con uso di chitarre acustiche, al di là di un ritmo marziale rimanda alle solite influenze del nostro, gli amati John Fogerty e Bob Seger, mentre comunque almeno nella title track non può mancare ovviamente un turbolento blues dove Zito va di slide con grande impeto e anche Walking The Street è un ulteriore ottimo esempio del rock sudista del musicista di Saint Louis, che in questo ambito è sempre uno dei migliori in circolazione, con chitarre ruggenti e grande grinta https://www.youtube.com/watch?v=ssuqep-YXUw . Grinta e sonorità poderose che non mancano neppure in Dark Raven dove le influenze del suono dei Led Zeppelin sono evidenti, dalla scansione ritmica che fa molto John Bonham, alle folate di chitarra che si ispirano molto a quelle di Dazed And Confused, con un assolo, anche con chitarre raddoppiate, veramente vibrante; pure Dust Up ha un riff immediato e una struttura sonora che profuma di rock and roll d’altri tempi, con continui rilanci della solista https://www.youtube.com/watch?v=xvuSQ0WyhWM .

E se rock deve essere anche Call Of The Wild non prende prigionieri, con Zito e soci che ci danno dentro di brutto, e pure After The Storm ricorda il miglior hard rock targato anni ‘70, quello di Free e Bad Company per intenderci, potenza ma anche classe e “raffinatezza” nel lavoro della chitarra. Hurts My Heart non molla la presa, se amavate il Bob Seger rocker dei suoi anni d’oro qui c’è trippa per gatti, lasciando alla conclusiva What It Used To Be il compito di illustrare il lato più intimista del nostro texano adottivo preferito, una bellissima ballata acustica, solo voce e chitarra, con rimandi al folk, al country, persino al flamenco https://www.youtube.com/watch?v=3xApY4MLtLA . Mike Zito insomma è sempre una garanzia, anche in quarantena.

Bruno Conti

Un Country-Rocker Coi Baffi (E Barba)! Jack Grelle – If Not Forever

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Jack Grelle – If Not Forever – Jack Grelle Music CD

Anche se la lunga barba da hipster e la presenza fisica potrebbero far pensare ad un musicista rock alternativo, Jack Grelle è in realtà un convinto esponente del genere Americana, con in più un tocco sudista dato che viene da St. Louis nel Missouri. Grelle non è un esordiente, ma ha all’attivo già tre album, l’ultimo dei quali (Got Dressed Up To Be Let Down) risale a ben quattro anni fa: If Not Forever in realtà era già pronto nel 2018, ma Jack non si sentiva sicuro di pubblicarlo allora e ha voluto tornarci sopra per apportare alcune modifiche, ed ora finalmente possiamo ascoltare il risultato finale, una godibile e stimolante miscela di country, folk e rock’n’roll suonata in maniera diretta e coinvolgente (purtroppo non sono in possesso dei nomi dei musicisti coinvolti), e prodotto in maniera asciutta dall’amico e conterraneo Cooper Crain, leader della band psichedelica Cave. If Not Forever è davvero un bel disco di country-rock fatto alla maniera sudista, con il nostro che dichiara influenze che vanno dai Creedence Clearwater Revival a Doug Sahm, ma che a mio giudizio comprendono anche gli Outlaw Country texani ed i Rolling Stones.

L’album era annunciato come il lavoro più introspettivo tra quelli pubblicati finora da Grelle, ma forse ci si riferiva ai testi dato che dal punto di vista musicale pur non mancando le ballate stiamo decisamente dalla parte del country più elettrico e ruspante, spesso ai confini con il rock’n’roll e con un alone di southern soul che aleggia in tutto il lavoro. Loss Of Repetition fa iniziare l’album in maniera deliziosa, con un incantevole country song elettrica e chitarristica dal ritmo sostenuto (la batteria picchia che è un piacere), nobilitata da un motivo di quelli che ti prendono subito: davvero un ottimo avvio. I Apologize abbassa i toni, in quanto si tratta di una folk song costruita intorno alla voce e chitarra acustica, con l’aggiunta di una sezione fiati usata in maniera decisamente originale (all’inizio mi sembrava una steel guitar), e la canzone è bella anche se breve; Mess Of Love è una irresistibile fusione tra country e rock, con un background sonoro che rivela in modo abbastanza palese l’influenza dei Creedence, con chitarre in primo piano e tempo cadenzato, mentre It Ain’t Workin’ è un altro acquarello acustico, puro folk suonato e cantato in maniera intima ma con un feeling innegabile ed un quartetto d’archi ad accrescere il pathos.

La vibrante Space And Time ha un attacco stonesiano ed un prosieguo elettrico e grintoso, un brano che dimostra l’assoluta disinvoltura del nostro nel passare dal puro cantautorato alla rock’n’roll song più trascinante: gli ultimi due minuti di canzone offrono una coda strumentale imperdibile, con ben tre chitarre a scambiarsi i licks. Good Enough For Now è sempre introdotta dalla chitarra elettrica, ma è una classica slow song di sapore country con elementi sudisti ed una melodia molto lineare e distesa, Out Where The Buses Don’t Run ha un attacco degno di John Fogerty ed uno sviluppo in puro stile country-boogie con tanto di armonica bluesy, To Be That Someone riporta il CD su lidi folk cantautorali per un brano puro e limpido. L’album termina con Same Mistakes, altra rock’n’roll song coinvolgente e sanguigna che vi farà battere mani, piedi e quant’altro, e con No Time, No Storm, chiusura intimista per voce, chitarra (elettrica) ed un french horn che fa molto The Band (cioè il più sudista tra i gruppi canadesi del passato).

Spero vivamente che If Not Forever apra qualche nuova porta al bravo Jack Grelle: per esempio mi piacerebbe un giorno vederlo prodotto da Dave Cobb o Dan Auerbach.

Marco Verdi

 

Se Per Sbaglio Lo Chiamate Chris Non Si Offende Di Certo! Ned LeDoux – Next In Line

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Ned LeDoux – Next In Line – Powder River/Thirty Tigers CD

Quando due anni fa ho ascoltato il disco d’esordio di Ned LeDoux, Sagebrush, dopo qualche remora iniziale ne sono stato conquistato completamente https://discoclub.myblog.it/2018/01/13/e-proprio-il-caso-di-dire-tale-padre-tale-figlio-ned-ledoux-sagebrush/ . Figlio del compianto Chris LeDoux (per chi scrive uno dei migliori countrymen in circolazione quando era in vita), Ned ha avuto la consapevolezza di essere pienamente adeguato a portare avanti l’eredità musicale del padre e, complice un buonissimo talento compositivo ed una voce che somiglia in maniera impressionante a quella del genitore, ha intelligentemente iniziato la sua carriera nel segno della continuità con lo stile di Chris, il tutto con la massima naturalezza: in poche parole, si è fatto accettare senza problemi dai fans del padre quando molti avrebbero potuto accusarlo di essere derivativo.

Ed ora Ned ci riprova a distanza di due anni con Next In Line, che al primo ascolto si rivela anche meglio del già ottimo debutto: alla produzione c’è ancora l’amico Mac McAnally (noto cantautore in proprio e da anni collaboratore di Jimmy Buffett) e, anche se non conosco i nomi di chi suona nel disco in quanto ho tra le mani un advance CD, posso affermare che ci troviamo di fronte ad un riuscitissimo album di puro rockin’ country elettrico, con ballate di stampo western sferzate dal vento e brani caratterizzati da ritmo, feeling e chitarre. La voce profonda e le canzoni di Ned fanno il resto, facendo di Next In Line un album perfetto per l’ascolto in macchina o anche in casa con una bella birra ghiacciata in mano. Basta sentire l’iniziale Old Fashioned e si è già in pieno cowboy mood: infatti il brano è un country’n’roll chitarristico e coinvolgente, dal gran ritmo e con un refrain immediato. E poi la voce, sembra di sentire Chris redivivo. Worth It è una western song elettrica e cadenzata, niente violini e steel ma solo chitarre al vento, mentre un fiddle spunta nella saltellante Dance With You Spurs On, che infatti è molto più country anche se l’approccio è sempre vigoroso, ed in più c’è la presenza di Corb Lund in duetto (e come co-autore del pezzo).

Molto bella la title track, una ballata languida ma sempre dal tempo mosso, caratterizzata da una melodia eccellente e ricca di pathos; la deliziosa A Cowboy Is All è puro country, irresistibile sia nel ritmo che nel motivo, e sembra ancora una outtake di un vecchio album di papà Chris. Where You Belong è il primo singolo, ed è un rockin’ country potente, trascinante e tutto da godere, così come Travel Alone, dal ritmo galoppante e che fa pensare a lunghe cavalcate nelle praterie del Wyoming. Path Of Broken Dreams è una salutare oasi acustica, ma il disco riprende subito a rockeggiare con Just A Little Bit Better, nella quale il nostro duetta proprio con McAnally (e Chris Stapleton partecipa alla scrittura), e con una sanguigna e travolgente cover del classico di John Fogerty Almost Saturday Night. La limpida western ballad Great Plains precede l’omaggio finale di Ned al padre, la cui voce profonda introduce (per mezzo di una registrazione inedita) la sua Homegrown Western Saturday Night, eseguita dal figlio con attitudine da vero rock’n’roll cowboy: uno dei pezzi più avvincenti del CD.

Altro ottimo lavoro per Ned LeDoux: sul vostro scaffale mettetelo pure a fianco dei dischi di Chris.

Marco Verdi

L’Ennesimo Live Album…Ma Avercene! John Fogerty – 50 Year Trip: Live At Red Rocks

john fogerty 50 year trip live at red rocks

John Fogerty – 50 Year Trip: Live At Red Rocks – BMG CD

Da quando nel 1972 Johh Fogerty sciolse i Creedence Clearwater Revival, la sua carriera solista è sempre stata all’insegna della discontinuità temporale. Solo due dischi negli anni settanta (anzi tre, ma Hoodoo venne rifiutato dalla Asylum, l’etichetta dell’epoca di John, e non venne mai pubblicato ufficialmente), altri due negli anni ottanta dopo dieci anni di silenzio (con in mezzo la battaglia legale con la Fantasy ed il suo ex boss Saul Zaentz), uno solo nei novanta, lo splendido Blue Moon Swamp, e “ben” quattro nel nuovo millennio, anche se l’ultimo composto da canzoni nuove risale ormai a 12 anni fa (Revival). Da quando ha ricominciato a pubblicare dischi con continuità (si fa per dire, appunto), Fogerty ci ha anche gratificato di più di un album dal vivo: Premonition nel 1998, The Long Road Home In Concert nel 2006 ed il DVD Comin’ Down The Road nel 2009. Qualcuno in questi anni ha accusato John di cucinare con gli avanzi riciclando sempre le stesse canzoni (ricorderei anche l’antologia Long Road Home e l’album di vecchi successi rifatti in duetto con vari artisti Wrote A Song For Everyone https://discoclub.myblog.it/2013/06/06/sempre-le-stesse-canzoni-ma-che-belle-john-fogerty-wrote-a-s/ ), ma quando si parla del songbook del rocker californiano sono comunque avanzi che parecchi suoi colleghi non “assaggeranno” mai, neanche come portata principale in una cena di gala.

Fogerty è infatti uno degli autori più importanti di sempre, i cui brani sono per la maggior parte diventati degli standard della musica mondiale, uno che può stare tranquillamente nello stesso club di Bob Dylan, Van Morrison, Neil Young, Paul Simon ed anche il Robbie Robertson di quando era ancora il leader di The Band. Quest’anno John ha celebrato in giro per l’America non i 50 anni di carriera, ma le cinque decadi da quell’irripetibile 1969 in cui diede alle stampe ben tre dei quattro album più leggendari dei Creedence: Bayou Country, Green River e Willie And The Poor Boys (il quarto, Cosmo’s Factory, uscirà nel 1970), ed ora ha deciso di celebrare l’evento con la pubblicazione di 50 Year Trip: Live At Red Rocks, registrato nella famosa location di Morrison in Colorado lo scorso 20 Giugno, e disponibile per il momento solo in USA (in Europa uscirà il 24 Gennaio, ma spendendo qualche euro in più potete accaparrarvi anche adesso senza grossi problemi la versione americana. * NDB Comunque stranamente poi, in Italia, di tutti i paesi del mondo, Il CD è stato pubblicato, e pure a un prezzo molto più basso). Un altro live di Fogerty quindi? Sì, ma ci si poteva anche aspettare che questo tour fosse festeggiato con un’uscita discografica ad hoc, e poi comunque vorrei riallacciarmi al discorso imbastito prima affermando che, pur essendo le scalette dei suoi concerti sempre simili fra loro, Fogerty dal vivo è sempre una goduria assoluta, sia per il livello insuperabile dei brani sia per le performance infuocate che John a 74 anni suonati è ancora in grado di garantire, sia dal punto di vista strumentale che soprattutto vocale.

Il CD è singolo (non c’è stranamente il DVD), in quanto il nostro ha scelto di privilegiare solo i pezzi del suo repertorio e ha purtroppo escluso le cover non riconducibili né ai Creedence né al suo periodo solista eseguite quella sera, e sto parlando di brani di John Lennon (Give Peace A Chance), Beatles (With A Little Help From My Friends), The Who (My Generation) e Sly & The Family Stone (Everyday People e Dance To The Music). Ma quello che c’è basta ed avanza, ed è suonato in maniera strepitosa dal nostro e dalla sua eccellente band, che comprende i figli Shane (chitarra e voce) e Tyler Fogerty (voce), il formidabile batterista Kenny Aronoff (una macchina da guerra), il tastierista Bob Malone, il bassista James Lomenzo, due backing vocalist femminili ed una sezione fiati di tre elementi. E’ inutile recensire il concerto in maniera classica con l’esegesi brano per brano, dato che i titoli si commentano da soli: Born On The Bayou, Green River, Lookin’ Out My Back Door, Who’ll Stop The Rain, Hey Tonight, Up Around The Bend, Long As I Can See The Light (e se qui non vi scende una lacrimuccia siete senza cuore), Run Through The Jungle, Suzie Q, Have You Ever Seen The Rain (altro momento altamente emozionale), Down On The Corner, Fortunate Son, due esplosioni di puro rock chitarristico (ed anche Shane non è affatto male alla sei corde) del calibro di I Heard It Through The Grapevine (otto minuti straordinari, con uno splendido intermezzo pianistico di Malone) ed una Keep On Chooglin’ da stendere un toro, fino ai classici bis di Bad Moon Rising e Proud Mary, qui nettamente accelerata nel ritmo e con i fiati, quasi a voler omaggiare la versione di Ike & Tina Turner https://www.youtube.com/watch?v=xI3ZtOEBXVk .

Come vedete una setlist nettamente sbilanciata verso i brani dei Creedence, anche se gli unici pezzi del repertorio solista di John, le trascinanti Rock And Roll Girls, Centerfield e The Old Man Down The Road, non sfigurano affatto nemmeno vicino a canzoni così leggendarie. E mancano brani altrettanto mitici come Travelin’ Band, Wrote A Song For Everyone, Lodi, Rockin’ All Over The World, Almost Saturday Night e chi più ne ha più ne metta. Il disco dal vivo migliore di John Fogerty (insieme a The Long Road Home In Concert): ora però vorrei davvero un nuovo album di studio, che infatti sembrerebbe in dirittura d’arrivo per il 2020.

Marco Verdi

Una Delle Più Belle Voci In Circolazione In Uno Splendido Omaggio Ad Uno Dei Grandi Della Musica Rock! Janiva Magness – Sings John Fogerty Change In The Weather

janiva magness sings john fogerty

Janiva Magness – Sings John Fogerty/Change In The Weather – Blue Elan

Il germoglio per la nascita di questo album era stato piantato nel 2016, quando Janiva Magness, all’interno di un album fatto tutto di brani originali, Love Wins Agains (detto per inciso il suo unico ad essere candidato ad un Grammy come miglior album di blues contemporaneo dell’anno https://discoclub.myblog.it/2016/05/11/piu-che-lamore-la-voce-che-vince-volta-janiva-magness-love-wins-again/ ), aveva inciso una splendida cover tra soul e gospel di Long As I Can See tTe Light dei Creedence, una delle tantissime perle uscite dal songbook di John Fogerty. Janiva poi quel Grammy purtroppo non lo ha vinto, ma per fortuna detiene almeno sette Blues Music Awards, in quanto si tratta, a mio parer,e di una delle più belle voci espresse dalla musica americana nell’ultimo trentennio. La cantante di Detroit, che con questo Change In The Weather giunge al suo disco n° 15, non ne ha mai sbagliato uno, ogni uscita almeno pari alla precedente, in questo aiutata dal suo fido collaboratore storico Dave Darling, che ancora una volta si occupa della produzione, al solito molto curata, ma anche molto essenziale nella sua linearità, con l’impiego della nuova touring band della Magness,  il batterista Steve Wilson, il bassista Gary Davenport e il chitarrista Zachary Ross, anche al dobro, ai quali si affianca lo stesso Darling alla chitarra e l’ottimo tastierista Arlan Oscar, oltre ad un paio di ospiti che vediamo subito.

L’approccio nell’affrontare queste dodici canzoni (7 dei Creedence e 5 non notissime del Fogerty solista) è un po’ quello dei grandi cantanti jazz e dei crooner del passato nelle interpretazioni dei songbook della canzone americana d’autore: quindi non rigorosamente simili all’originale, ma mediati dalla sensibilità di questa interprete sopraffina. C’è del blues, del soul, del gospel, ma anche uno spirito fortemente rock, tutti amalgamati alla perfezione: prendiamo l’iniziale title track Change In The Weather, che viene da Eye Of The Zombie, su un insistito battito di mani e un serrato ritmo di chitarra, basso e batteria, si innesta un drive incalzante tra boogie e blues-rock, con le chitarre cattive e sporche e la voce roca, calda ed espressiva di Janiva che scalda subito i motori. Lodi era uno dei capolavori “country” dei CCR, un brano bellissimo, che qui viene rivisitato sotto forma di duetto insieme alll’eccellente cantautore outlaw country di LA Sam Morrow, in un perfetto equilibrio tra la voce alla carta vetrata di Morrow e quella vellutata di Janiva, diventa un urgente blues-rock tirato e chitarriistico, non privo di elementi Memphis soul, grazie ad un organo scivolante e al call and response dei due cantanti, una meraviglia; Someday Never Comes, un brano tratto da un album minore dei Creedence come Mardi Gras, è uno di quelli che addirittura superano l’originale, su un ritmo ondeggiante tra accelerazioni rock e tempo da ballata, la nostra amica ci regala una prestazione vocale sontuosa https://www.youtube.com/watch?v=nf0W6N05_yE .

A proposito di ballate, la prima del lotto è Wrote A Song For Everyone, che non casualmente era il titolo dell’album del 2013 dove Fogerty riprendeva i suoi vecchi brani https://discoclub.myblog.it/2013/06/06/sempre-le-stesse-canzoni-ma-che-belle-john-fogerty-wrote-a-s/  (e anche Someday Never Comes ne usciva rivitalizzata), ma anche uno dei brani più belli di Green River e dell’opera omnia dei Creedence, partendo da una capolavoro la Magness e Darling hanno pensato di dargli una veste deep soul come quella che avevano le grandi versioni degli artisti Stax quando attingevano dal repertorio rock, cantata sempre in modo incantevole  . Altro duetto delizioso è quello con il decano Taj Mahal nella non notissima Don’t You Wish It Was True, un pezzo tratto da Revival del 2007, che diventa un agile Delta Blues con il banjo di Taj a doppiare il dobro di Ross, e il vocione di Mahal ad accarezzare la voce quasi mielosa ed ammiccante di Janiva, e un divertente finale ad libitum, mentre Have You Ever Seen The Rain una delle canzoni più politiche dei Creedence (ma anche tra le più belle ed indimenticabili) viene rallentata ad arte per adattarla all’attuale pesante clima sociale americano, e diventa una soffusa e sofferta soul ballad, con organo d’ordinanza, armonie vocali avvolgenti e un’altra interpretazione da sballo della Magness, ma quanto canta bene?

Anche Bad Moon Rising era una dichiarazione di intenti del vecchio Fogerty, trasformata in un trasognato blues a tutta slide, molto Cooderiano, che però a tratti non dimentica l’urgenza dell’originale, e come si potrebbe? https://www.youtube.com/watch?v=K9AEbz0hY1g  Anche Blueboy, presa da Blue Moon Swamp, non è un brano celeberrimo, ma è l’occasione per un tuffo nel classico suono swamp dell’originale, ancora con dobro ed elettrica in azione, e non mancano neppure i classici coretti. Fortunate Son cantata da un punto di vista femminile è inconsueta, ma il riff non manca, la grinta rock neppure, questa canzone si può fare solo così, magari rallentarla appena, ma mantenendo la forza dirompente del brano, caratterizzato da un bel assolo di piano di Oscar, e anche Déjà Vu (All Over Again), dopo un inizio attendista sprigiona la consueta potenza delle canzoni di Fogerty, magari più raffinata e meno sparata a tutta forza, diciamo un ottimo mid-tempo. A Hundred And Ten In The Shade, ancora da Blue Moon Swamp, profuma nuovamente di blues usciti da paludi misteriose e profonde, lasciando la conclusione ad un incantevole tuffo nel country/bluegrass di una vivacissima e ruspante Looking Out My Back Door, con il dobro di Rusty Young, le acustiche di Darling e Jesse Dayton e il violino di Aubrey Richmond. Idea complessiva brillante e personale, esecuzione anche migliore, trai i dischi più belli di quest’anno.

Bruno Conti

Novità Prossime Venture 26. Altri Due Grandissimi Artisti Con “Nuovi” Album A Novembre: John Fogerty – 50 Year Trip: Live At Red Rocks/Leonard Cohen – Thanks For The Dance

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John Fogerty – 50 Year Trip: Live At Red Rocks – BMG – 08-11-2019

Leonard Cohen – Thanks For The Dance – Sony Legacy – 22-11-2019

Il presente mese di Ottobre ed il prossimo Novembre metteranno (come tutti gli anni) a durissima prova le finanze degli appassionati di musica, dato che oltre alla consueta messe di cofanetti ed edizioni celebrative di dischi del passato (dei quali Bruno vi sta puntualmente tenendo aggiornati), ci sono anche nuove proposte discografiche di veri e propri big del panorama mondiale, alcuni dei quali già annunciati in post precedenti a questo: Van Morrison, Bruce Springsteen, Nick Cave, Ringo Starr, The Who (questi tre ancora da fare) e Neil Young & Crazy Horse. Un’altra uscita a sorpresa da poco annunciata è quella di John Fogerty, che discograficamente è fermo all’album di duetti del 2013 Wrote A Song For Everyone https://discoclub.myblog.it/2013/06/06/sempre-le-stesse-canzoni-ma-che-belle-john-fogerty-wrote-a-s/  ma addirittura a Revival del 2007 se si parla di canzoni nuove.

L’8 Novembre l’ex leader dei Creedence Clearwater Revival tornerà tra noi con un nuovo lavoro, però si tratta “solo” di un altro album dal vivo (ma sembra che stia lavorando anche ad un disco in studio in programma per il 2020), intitolato 50 Year Trip: Live At Red Rocks, registrato il 20 Giugno di quest’anno nella suggestiva location del titolo e nell’ambito del tour che vede John autocelebrare il mezzo secolo di carriera (che in realtà coi Creedence è iniziata nel 1968, mentre se parliamo dei Golliwogs anche prima). Forse avere un nuovo live di Fogerty non è una cosa proprio originalissima, dato che dal 1998 il nostro ne ha pubblicati ben tre (Premonition, The Long Road Home ed il DVD Comin’ Down The Road registrato alla Royal Albert Hall) e che le scalette dei suoi concerti girano intorno un po’ sempre alle stesse canzoni, ma per il sottoscritto ascoltare certi capolavori del rock americano è sempre un’esperienza goduriosa.

Questa comunque la setlist del CD, che dovrebbe uscire pure in versione video (anche se non è ancora certo, ma le immagini ci sono in quanto verrà proiettato sempre a Novembre in poche selezionate sale cinematografiche americane):

Tracklist
1. Born On The Bayou
2. Green River
3. Lookin’ Out My Back Door
4. Susie Q
5. Who’ll Stop the Rain
6. Hey Tonight
7. Up Around The Bend
8. Rock And Roll Girls
9. I Heard It Through The Grapevine
10. Long As I Can See The Light
11. Run Through The Jungle
12. Keep On Chooglin’
13. Have You Ever Seen The Rain
14. Down On The Corner
15. Centerfield
16. The Old Man Down The Road
17. Fortunate Son
18. Bad Moon Rising
19. Proud Mary

Il 22 Novembre uscirà in maniera ancora più sorprendente Thanks For The Dance, album postumo del grande Leonard Cohen, una collezione formata da canzoni alle quali il songwriter canadese stava lavorando negli ultimi mesi della sua vita e che non avevano trovato posto in You Want It Darker https://discoclub.myblog.it/2016/10/20/la-bellezza-le-tenebre-leonard-cohen-you-want-it-darker/ , in alcuni casi per il fatto che erano semplici tracce vocali. Il figlio di Leonard, Adam, ha recentemente assemblato nove di quelle registrazioni e le ha completate con l’aiuto di sessionmen e musicisti della cerchia del padre, tra cui lo spagnolo Javier Mas, e con l’aggiunta di ospiti di fama come Jennifer Warnes (le cui strade si erano già incrociate con Cohen in passato), Damien Rice, il chitarrista Bryce Dessner dei National, Beck, Richard Reed Parry degli Arcade Fire ed addirittura Daniel Lanois che ha curato alcuni arrangiamenti.

Ecco la tracklist di Thanks For The Dance:

  1. Happens to the Heart
    2. Moving On
    3. The Night of Santiago
    4. Thanks for the Dance
    5. It’s Torn
    6. The Goal
    7. Puppets
    8. The Hills
    9. Listen to the Hummingbird

Dovrebbe trattarsi di un dischetto piuttosto corto (*NDB Dura 29 minuti, e il video di The Goal che vedete qui sopra, presentato come un teaser, in effetti è il brano completo 1 minuto e 12 secondi!), ma sarà sicuramente un piacere immenso risentire la voce del grande Leonard come se fosse ancora tra noi.

Alla prossima.

Marco Verdi

Un Buon Tributo, Nonostante I Pochi Grandi Nomi Presenti. VV.AA. – Imagine: John Lennon 75th Birthday Concert

john lennon 75th birthday concert

VV.AA. – Imagine: John Lennon 75th Birthday Concert – Blackbird 2CD – 2CD/DVD

Il 5 Dicembre del 2015 si è tenuto al Madison Square Garden di New York, non nell’arena principale ma nel più raccolto “The Theatre”, un concerto in cui un gruppo eterogeneo di artisti ha festeggiato quello che sarebbe stato il settantacinquesimo compleanno di John Lennon (che in realtà era nato il 9 Ottobre), anche se va detto che solo tre giorni dopo sarebbe caduto un anniversario ben più triste, cioè il trentacinquesimo anno dal suo assurdo assassinio per mano di Mark David Chapman. Con più di tre anni di ritardo la Blackbird (già responsabile dei recenti tributi live a Kris Kristofferson e Charlie Daniels) pubblica Imagine: John Lennon 75th Birthday Concert, resoconto completo di quella serata, venti canzoni equamente divise su due CD (è c’è anche una versione con il DVD accluso). Ed il concerto è bello, in molti tratti emozionante, grazie soprattutto ad alcuni ospiti di vaglia e ad una house band strepitosa (che comprende Lee Sklar al basso, Kenny Aronoff alla batteria, Greg Phillinganes alle tastiere, Sid McGinnis, ex chitarrista della band di Paul Shaffer al David Letterman Show, e Michey Raphael all’armonica), anche se rimane viva la sensazione che, data la statura del personaggio celebrato, si sarebbe potuto fare di più.

Infatti, a parte le assenze di entrambi i figli di John, Sean e Julian (ma dal punto di vista musicale non abbiamo perso molto), non mi spiego perché non siano stati presenti alcuni artisti che sarebbe stato logico vedere: penso naturalmente a Paul e Ringo, ma anche ad Elton John che, proprio al Garden, duettò con Lennon in una delle rarissime apparizioni live dell’ex Beatle negli anni settanta. Quelli che ci sono fanno comunque di tutto per omaggiare al meglio il grande artista di Liverpool, scegliendo diversi classici dal suo ampio songbook (Beatles compresi) e proponendo pure qualche brano non scontato, anche se nessuno ha avuto il “coraggio” di rifare la magnifica A Day In The Life, forse il brano più bello mai scritto da John (Neil Young, per esempio, l’ha suonata diverse volte negli ultimi anni, ed anche lo stesso McCartney). L’inizio della serata è rockeggiante, con uno Steven Tyler dal look più luciferino che mai alle prese con la mitica Come Together (già incisa in passato con gli Aerosmith), esecuzione potente e Steven meno sguaiato del solito. Brandon Flowers, leader dei Killers, è uno che sa cantare, e lo dimostra prima con una scintillante versione della splendida Instant Karma, e poi in trio con Chris Stapleton e Sheryl Crow con una fluida e suadente Don’t Let Me Down, grinta e classe unite insieme.

Pat Monahan non è certo un fuoriclasse, ma Jealous Guy è talmente bella che gli basta cantarla senza strafare, e poi il finale in crescendo soul-gospel è decisamente intrigante, mentre la Crow, stavolta da sola, rocca da par suo con una godibilissima A Hard Day’s Night. Il primo ospite d’onore è il grande John Fogerty (che somiglia sempre più a Mal dei Primitives) con la deliziosa In My Life, un brano che l’ex Creedence introduce come il suo preferito anche se l’esecuzione è stranamente di basso profilo, con John che sembra quasi intimidito; per contro, il soul singer Aloe Blacc stupisce ed emoziona con una fulgida Watching The Wheels, accompagnato solo dal pianoforte e cantata con una voce mica male. Non conoscevo il cantante colombiano Juanes, ma la sua Woman è riuscita e piacevole nonostante un arrangiamento molto pop (ma era così anche l’originale), mentre la Texas band Spoon affronta con grinta e buona sicurezza Hey Bulldog, non certo uno dei brani più noti dei Fab Four. Il primo CD si chiude in maniera strepitosa con la strana coppia formata da Kris Kristofferson e Tom Morello che rifanno Working Class Hero: canzone perfetta per Kris, che si conferma un interprete carismatico con una performance da brividi, tra le migliori della serata (ma anche Tom fa la sua figura). Il secondo dischetto inizia con un altro trio formato dalla Crow, Blacc e Peter Frampton (la cui zazzera degli anni settanta è ormai un ricordo), alle prese con un’intensa e coinvolgente rilettura del classico stagionale Happy Christmas (War Is Over), perfettamente in tema dato che il concerto si teneva a Dicembre.

Torna anche Fogerty e questa volta non delude, rilasciando una interpretazione grintosa e piena di anima della nota Give Peace A Chance, mentre ho tremato quando ho visto che Mother, forse la canzone più drammatica di tutto il songbook lennoniano, era stata affidata al gruppo hip-hop The Roots: l’introduzione in puro stile rap non faceva presagire bene, ma fortunatamente dopo appena un minuto è iniziata la canzone vera e propria ed i nostri se la sono cavata più che dignitosamente. Eric Church non manca quasi mai in questi tributi, e la sua Mind Games ne esce abbastanza bene (più per la bellezza del brano stesso che per la bravura di Eric); Aloe Blacc torna per la terza volta con una Steel And Glass ricca di pathos (e ripeto, che voce), mentre Frampton affronta con classe la deliziosa Norwegian Wood in veste acustica. E’ la volta di due Outlaws originali, Willie Nelson ed ancora Kristofferson, insieme ad uno di nuova generazione, Chris Stapleton, con una You’ve Got To Hide Your Love Away davvero intensa, altro magic moment dello show (Chris è la voce solista, mentre Willie e Kris si limitano ai controcanti); Power To The People non è mai stato tra i miei pezzi preferiti di Lennon, e Tom Morello la tira un po’ troppo per le lunghe, anche se come chitarrista bisogna lasciarlo stare. Willie Nelson aveva rifatto Yesterday in maniera straordinaria nel bellissimo The Art Of McCartney, e in quella serata non poteva che toccargli Imagine, eseguita anch’essa con un feeling da pelle d’oca, rilettura tutta giocata su piano, armonica, Trigger, sezione ritmica e la voce incredibile del texano, in grado davvero di far sua qualsiasi melodia. Gran finale con la prevedibile All You Need Is Love, tutti insieme sul palco (sale anche Yoko Ono) per una versione corale decisamente toccante.

Un buon tributo quindi, anche se, ripeto, uno come John Lennon avrebbe come minimo meritato la presenza dei suoi ex compagni di gioventù.

Marco Verdi