Uno Dei Tanti “Piccoli Segreti” Musicali Americani, Può Sbagliarsi John Fogerty? Bob Malone – Mojo Deluxe

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Bob Malone – Mojo Deluxe – Delta Moon 

Un altro dei tanti piccoli “segreti” della scena musicale indipendente americana: si chiama Bob Malone, è nato nel New Jersey, ha studiato al Berklee College Of Music e vive in California, suona le tastiere nella band di John Fogerty dal 2010, ha già otto album solisti al suo attivo, compreso questo Mojo Deluxe. Che altro? Ah, il disco è assolutamente delizioso, quegli album dove si mescolano Rhythm & Blues, soul, rock, uno stile da cantautore a tutto tondo, con tocchi “indolenti” alla Randy Newman, Dr. John o il miglior AJ Croce, uniti al gusto per le belle canzoni, un florilegio di tastiere, piano elettrico Wurlitzer e clavinet, piano a coda, organo Hammond, se serve la fisarmonica: in più è in possesso di una voce espressiva, duttile e vibrante, in grado di districarsi tanto in una morbida ballata, quanto in un rock tirato, o in un blues sporco e cattivo https://www.youtube.com/watch?v=GQUYRVsM2m8 . Non bastasse tutto questo si circonda di ottimi musicisti, a partire da Kenny Aronoff, batterista dal tocco poderoso e compagno di avventura nella band di Fogerty, presente solo nell’iniziale Certain Distance, un bel rock deciso a trazione blues con in evidenza la chitarra, anche slide, del produttore Bob De Marco, che è l’altro grande protagonista del disco e potrebbe essere il Lowell George della situazione, di fronte al Bill Payne impersonato da Malone (perché c’è anche questo aspetto Little Featiano nel suono, in piccolo e con i dovuti distinguo, ma c’è).

Oltre ad Aronoff  sullo sgabello del batterista troviamo l’ottimo Mike Baird, un veterano che ha suonato con tutti, (dai Beach Boys a Joe Cocker e persino nella colonna sonora di Saturday Night Fever e anche una veloce comparsata con Dylan in Silvio), Jeff Dean e Tim Lefebvre si dividono il compito al basso, Stan Behrens (War e Tom Freund) con la sua armonica aggiunge un tocco bluesy alle procedure e, di tanto in tanto, una sezione fiati e un nutrito gruppo di voci femminili aggiungono un supporto speziato al variegato suono del disco. Che è uno dei tanti pregi del disco: dal vivace e tirato rock-blues dell’iniziale Certain Distance, con Aronoff che picchia di gusto, armonica, chitarre e tastiere si dividono gli spazi solisti, la voce di Malone è grintosa e ben supportata dalle armonie vocali di Lavone Seetal e Karen Nash, per un notevole risultato d’insieme. Ambiente sonoro blues confermato nella successiva Toxic Love, più felpata e d’atmosfera, con piano elettrico, un dobro slide e l’armonica che creano sonorità molto New Orleans, sporcate dal rock. Anche le scelta delle cover è quasi “scientifica”: Hard Times di Ray Charles, oscilla sempre tra il classico ondeggiare del “genius” e ballate pianistiche à la Randy Newman, con De Marco che ci regala un breve e scintillante solo di chitarra e Malone che canta veramente alla grande. Anche I’m Not Fine, va di funky groove, con piani elettrici ovunque e il solito bel supporto vocale delle coriste, e De Marco e Malone che aggiungono tanti piccoli ricercati particolari sonori.

Paris è una bellissima ballata pianistica, malinconica e sognante, con il tocco della fisarmonica sullo sfondo, contrabbasso e archi a colorare il suono, elettrica con e-bow e percussioni ad ampliare lo spettro sonoro, e la voce vissuta di Malone a navigare sul tutto, un gioiellino. Eccellente anche Looking For The Blues, di nuovo New Orleans style con fiati scuola Dr.John, ma anche quei pezzi movimentati tra R&B e rock del vecchio Leon Russell o di Joe Cocker, e la slide, questa volta nelle mani di Marty Rifkin, è il tocco in più, oltre alle solite scatenate ragazze ai cori. E anche Rage And Cigarettes, con i suoi sette minuti il brano più lungo, ha sempre quel mélange di R&B, rock e blues, tutti meticciati insieme dalla vocalità quasi nera di Malone che al solito divide gli spazi strumentali con l’ottima chitarra di De Marco https://www.youtube.com/watch?v=iSOdsWsVwqo . Il “vero” blues è omaggiato in una rilettura notturna della classica She Moves Me, solo piano, armonica, contrabbasso e percussioni, per un Muddy Waters d’annata.

Don’t Threaten Me (With A Good Time) di nuovo con un funky clavinet e una sezione fiati pimpante, oltre alla solita chitarra tagliente e al pianino folleggiante di Malone, ricorda di nuovo quello stile in cui erano maestri i citati Leon Russell e Joe Cocker una quarantina di anni fa, rock blues and soul. Di nuovo tempo di ballate con Watching Over Me che potrebbe essere uno dei brani meravigliosi dell’Elton John “americano”, delizioso, quasi una outtake da Tumbleeweed Connection. Chinese Algebra, un boogie rock strumentale scatenato, potrebbero essere quasi i Little Feat in trasferta a New Orleans, con il vorticoso pianismo di Malone in primo piano e per concludere in bellezza un’altra ballatona ricca di pathos come Can’t Get There From Here, altra piccola meraviglia di equilibri sonori come tutto in questo sorprendente album. Grande voce, ottimi musicisti, belle canzoni, che volete di più?

Bruno Conti  

Finalmente, Dopo 20 Anni, Il Secondo Album Di “Cover”! Shawn Colvin – Uncovered

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Shawn Colvin – Uncovered – Fantasy/Universal

Ho sempre pensato che la “cover” per un musicista possa essere una sfida pericolosa e affascinante, in quanto si prende una canzone altrui, magari un brano con cui si avverte una qualche sintonia, si smonta il più delle volte l’arrangiamento per arrivare al cuore del brano e dell’autore, e il risultato in certi casi può essere sorprendente, quasi un’altra canzone, alla quale di volta in volta l’artista dà una nuova immagine e una nuova anima. Tutto questo preambolo per dire che questa “arte” Shawn Colvin è una che la conosce bene, in quanto è stata una “cover girl” per molto tempo, durante i lunghi anni del suo apprendistato nei locali del circuito folk americano. Ora dopo più di vent’anni, e dopo aver dimostrato al mondo di avere maturato un proprio stile raffinato, torna al suo antico amore, dando seguito al precedente lodato Cover Girl del lontano ’94 con questo nuovo Uncovered , ripescando 12 canzoni di artisti del calibro di Bruce Springsteen, Tom Waits, Paul Simon, John Fogerty, Stevie Wonder, Graham Nash, Robbie Robertson e altri meno noti, un lavoro a metà strada fra la sua antica e nuova identità. Sotto la produzione del duo Steuart Smith e Stewart Lerman, la Colvin voce e chitarra acustica chiama in studio “sessionmen” di lusso perfettamente compresi nella parte, tra i quali lo stesso Steuart Smith al basso e chitarre, David Boyle alle tastiere, Milo Deering alla pedal, lap steel e mandola, Glenn Fukunaga al basso, Mike Meadows alle percussioni, e come ospiti speciali David Crosby e Marc Cohn.

Si inizia con le versioni ingentilite da arrangiamenti discreti di Tougher Than The Rest del Boss e di una dolcissima American Tune di Paul Simon https://www.youtube.com/watch?v=OA2pV_9EcTk , per poi passare alla storica Baker Street di Gerry Rafferty, dove si ascolta al controcanto la voce gentile di Crosby (ed è la prima volta che la sento senza il suono del sassofono), una Hold On di Waits (canzone scritta con la moglie Kathleen Brennan) giocata in punta di dita e cantata da Shawn alla Joni Mitchell, a cui fanno seguito una I Used To Be A King di un Graham Nash d’annata (la trovate sul bellissimo Songs For Beginners), e una sempre meravigliosa Private Universe di Neil Finn, pescata dal repertorio dei grandi Crowded House (era su Together Alone). Heaven Is Ten Zillion Light Years Away di Stevie Wonder diventa quasi irriconoscibile, tenue ma affascinante, suonata con pochi e sapienti tocchi strumentali, andando poi a rispolverare la deliziosa Gimme A Little Sign dagli anni ’60 (un pezzo soul portato al successo, anche in Italia, da Brenton Wood), con l’apporto sussurrato di Marc Cohn https://www.youtube.com/watch?v=W9qbeUwCKys , rendere omaggio al Robbie Robertson della Band con la bellissima Acadian Drifwood, dove prende forma il brano più folk del disco, cimentarsi con la celeberrima Lodi dei Creedence di John Fogerty e non sfigurare con le sue dolcezze country https://www.youtube.com/watch?v=H2CwQXxL69E , rispolverare la meravigliosa melodia di Not A Drop Of Rain di Robert Earl Keen,  per una delle letture più vicine all’originale (viene dall’album Gravitational Forces), e andare infine a chiudere con Till I Get It Right della icona country degli anni ’70 Tammy Wynette ( forse un pochino leziosa!).

Dalla prima all’ultima traccia, Uncovered è un emozionante viaggio musicale attraverso le nostre emozioni, ricordando che per questa signora che ormai viaggia verso i sessanta (peraltro portati benissimo) parlano i suoi dischi e la sua carriera, e quindi siamo di fronte ad un album per palati raffinati che, se ascoltato a lungo, vi riscalderà il cuore nel prossimo inverno!
Tino Montanari

Quando Gli “Aeroplani Blu” Volavano Alto ! Blue Aeroplanes – Access All Areas

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Blue Aeroplanes – Access All Areas – Edsel Recordings – CD + DVD

Fin dal lontano esordio, a metà anni ’80, i Blue Aeroplanes da Bristol, più che un giovane convenzionale gruppo pop-rock-punk, sono stati, fin dalla nascita, un collettivo aperto, in cui negli anni si sono avvicendati (nelle varie fasi) circa una trentina di musicisti. Figura centrale del collettivo è sempre stata Gerald Langley (poeta e cantante), con l’altro membro fisso e insostituibile,  il ballerino Wojtek Dmochowski, che hanno dato il primo tratto distintivo della proposta dei Blue Aeroplanes, dove in seguito, tra i nomi maggiormente coinvolti nel progetto, si ricordano Ian Kearey, Alex Lee, Paul Mulreany, John Langley (fratello di Gerard), il polistrumentista Dave Chapman, Rodney Allen, e il bravissimo chitarrista italiano Angelo Bruschini (che lasciato il gruppo in seguito collaborerà con i Massive Attack).

L’esordio discografico avviene con l’ambizioso Bop Art (84), con un uso non comune di sassofoni e cornamuse, a cui faranno seguito la sofisticata psichedelia di Tolerance (85) e Spitting Out Miracles (87), dopo i quali vengono notati e firmano un contratto con l‘etichetta Chrysalis che li porta ad incidere Swagger (90) in cui spicca la presenza di un loro dichiarato fan come Michael Stipe dei R.E.M., arrivando, per chi scrive, al loro capolavoro Beatsongs (91), ristampato in CD nel 2013 in versione doppia espansa, dove si trovano “perle” come il folk-rock di Yr Own World, Fun, e una strepitosa cover di Paul Simon, The Boy In The Bubble https://www.youtube.com/watch?v=vMm98bp7Ihk . Nonostante il plauso della critica, i posti alti delle classifiche restano interdetti a Langley e soci, complice anche una vena creativa che scivola lentamente in lavori interlocutori quali Life Model (94), Rough Music (95) e Fruit (96), poi il gruppo sparisce dalle scene per qualche anno, per ricomparire con gli intriganti Cavaliers (00) Altitude (06), Harvester (07), e dopo un’altra lunga pausa con Anti-Gravity (11), edito solo in vinile (e in un doppio CD limitato, disponibile solo sul loro sito) ma che certifica perlomeno che sono ancora attivi.

Questo Access All Areas li riprende (in tutti i sensi, visto che c’è anche il video) nel loro periodo migliore, al Town & Country Club di Londra nel ’92, con un set essenzialmente ad “alta energia”, con un mix di brani pescati dai loro album più acclamati, Swagger e Beatsongs, ed un paio di cover d’autore, con il frontman Langley a declamare canzoni e versi in puro stile “beatnik”, e il ballerino Dmochowski  catturato e ripreso in tutta la sua gloria nel DVD, il resto della line-up composta da Rodney Allen e Angelo Bruschini alle chitarre, Alex Lee alle tastiere, Andy McCreeth al basso, Jenny Marotta alla batteria, e la brava Rita Lynch alle armonie vocali e chitarra, davanti ad un pubblico caloroso e birre a fiumi.

Il concerto si apre con il maestoso riff di chitarre di Jacket Hangs (la trovate su Swagger), per poi proseguire con il suono energico e aggressivo di Broken And Mended e Jealous Time, la fragorosa Vade Mecum Gunslinger, e il folk rock fascinoso della nota Yr Own World. Una cascata di suoni si manifesta in Beautiful Is (As Beautiful Does) https://www.youtube.com/watch?v=D32zOlwA5oM , seguito dal rock psichedelico di And Stones e una Pony Boy, che ricalca le cavalcate chitarristiche tanto care ai Crazy Horse di Neil Young https://www.youtube.com/watch?v=m0B4EwDQc6M , andando a chiudere con due cover sorprendenti, Bad Moon Rising di Fogerty dall’acclamato Green River del periodo Creedence https://www.youtube.com/watch?v=ydGbwqi2mxI , e una Breaking In My Heart di Tom Verlaine, dall’album omonimo del ’79.

I Blue Aeroplanes non sono il classico gruppo “redivivo”, anche perché probabilmente pochi se li ricordano (puree se in quegli anni erano uno dei nomi di punta del rock indipendente inglese), allora ben venga questa proposta che ci permette di ascoltare (e vedere) uno di quei concerti senza tempo, che si fatica a collocare in un genere o filone, con la voce davvero unica di Langley (che si fa perdonare il fatto di “recitare” più che cantare), il tutto per una “performance” travolgente e mozzafiato. (Ri)scopriteli !

Tino Montanari

Grande Attore, Ma Anche Musicista Coi Fiocchi ! Jeff Bridges & The Abiders – Live

jeff bridges abiders live

Jeff Bridges & The Abiders – Live – Mailboat Records

Mi viene da pensare che senza il film Crazy Heart, oggi il sottoscritto non avrebbe nel lettore questo live di Jeff Bridges & The Abiders. Jeff Bridges, noto attore americano ha sempre avuto una grande passione per la musica, e nel lontano 2000 aveva persino fatto un disco a suo nome Be Here Soon (sofisticate riletture di brani rock, country e soul, con l’aiuto di Michael McDonald e David Crosby), poi la colonna sonora di Crazy Heart lo ha definitivamente consacrato: nel film (che gli ha fruttato l’Oscar come miglior attore protagonista) Jeff canta molto bene canzoni come Hold On To You, Somebody Else, Fallin’ & Flyn’, I Don’t Know e Brand New Angel, e T-Bone Burnett (che musicalmente non è secondo a nessuno), ha capito le potenzialità di Bridges, gli ha trovato la band perfetta, poi insieme hanno trovato le canzoni, e il risultato è stato l’ottimo album omonimo Jeff Bridges (11). E siccome come dice un famoso detto “l’appetito vien mangiando”, arriva al mio ascolto anche questo Live (che non è proprio recentissimo, essendo uscito il 30 Settembre dello scorso anno), registrato durante un caldo concerto estivo al Red Rock Casino di Las Vegas, un totale di quattordici brani, in buona parte pescati dal disco d’esordio e dal film, più alcune cover scelte dal repertorio dei Byrds, Tom Waits, Townes Van Zandt, Creedence Clearwater Revival, e autori più recenti come Stephen Bruton e Greg Brown, CD pubblicato dalla Mailboat Records, l’etichetta di Jimmy Buffett.

Jeff Bridges & the Abiders Perform At The El Rey Theatre jeff-bridges-abiders

Jeff (capelli e barba bianca d’ordinanza) https://www.youtube.com/watch?v=_ct5tYkHrqY  voce, chitarra e tastiere, sale sul palco con i suoi Abiders che sono Chris Pelonis chitarra e tastiere, Bill Flores pedal steel e chitarra, Randy Tico al basso e Tom Lackner alla batteria e percussioni, iniziando con il blues incalzante di Blue Car (che arriva dalla penna di Greg Brown) cantato alla perfezione, seguito dalle atmosfere di frontiera di I Don’t Know, una ballata tra rock e country come What A Little Bit Of Love Can Do https://www.youtube.com/watch?v=oQ1lJFftyyo , la romantica Maybe I Missed The Point e la dolcissima serenata texana Exception To The Rule (del suo amico cantautore John Goodwin)  https://www.youtube.com/watch?v=nRt3Oh2fhlU , la lunga She Lay Her Whip Down con un bel lavoro della chitarra“slide”, andando a chiudere la prima parte omaggiando John Fogerty, con una pimpante e gioiosa Lookin’ Out My Back Door. Dopo una pausa e una bella bevuta di birra, si ritorna sul palco con Jeff che declama nuovamente una bellissima What A Little Bit Of Love Can Do, sorretta da batteria, pedal steel e un crescendo di chitarre, chitarre che “galoppano” anche nella successiva Van Gogh In Hollywood, per poi passare ad una delicata cover di Townes Van Zandt To Live Is To Fly (era in High, Low And In Beetwenhttps://www.youtube.com/watch?v=9J-yQuCbPjI , ad una campestre Fallin’ & Flyin’ recuperata dalla colonna sonora di Crazy Heart https://www.youtube.com/watch?v=TGJm72H31do , una inaspettata Never Let Go di Tom Waits (con Jeff al piano), per una ballata che profuma d’Irlanda (che è sempre nel mio cuore), rispolverando pure la famosissima So You Want To Be A Rock’n’Roll Star dei Byrds https://www.youtube.com/watch?v=3vT1ZsE7B6k  , chiudendo omaggiando un autore bravissimo ma poco conosciuto come il compianto Stephen Bruton (da sempre nel cuore di Jeff), con il ruspante blues di Somebody Else. Applausi!

JeffBridgesandtheAbiders jeff bridges live

Dopo il grande successo di Crazy Heart e il disco in studio prodotto da T-Bone Burnett, l’attore-cantante Jeff Bridges fa il disco che ha sempre sognato, un Live ruspante dove interpreta con il supporto di bravi musicisti, una sontuosa “setlist” di ballate, country e rock songs, cantate con una bella voce pastosa, per un CD che non ha scalato le classifiche, ma che potrebbe fare centro nel cuore degli amanti della buona musica. Sentire per credere!

Tino Montanari

P.S. Temo che stasera non vincerà nuovamente l’Oscar per il fim Il Settimo Figlio (che per fortuna non è neppure candidato), ma neanche il recente progetto, ambient e parlato, Sleeping Tapes, entrerà negli annali della musica, al di là dei suoi meriti filantropici!

E’ Solo Southern Rock, Ma Ci Piace! Bama Gamblers – Iron Mountain

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Bama Gamblers – Iron Mountain – bamagamblers.com

“It’s only southern rock, but we like it”. Le immortali parole di Jaggers-Richards ci vengono ancora una volta in soccorso, riadattate, per parlare dell’album di debutto di questi Gama Gamblers, quintetto di belle speranze, con sede a Huntsville, Alabama, ma il cui album di debutto, Iron Mountain (ispirato da una famosa linea ferroviaria rapinata ai tempi del glorioso West da Jesse James), è stato registrato a Marietta, Georgia, nei Wonderdog Studios, dove opera Benji Shanks, eminenza grigia locale, chitarrista e produttore per l’occasione. Il disco che ne risulta è un perfetto esempio di southern rock: niente di nuovo sotto il sole ma Bo Flynn, il bassista e voce solista, Matt Alemany e Matt Kooken, le due chitarre, entrambi originari della Georgia, più Eric Baath alle tastiere e Forrest Fleming alla batteria, hanno confezionato proprio un bel disco di musica sudista, non troppo hard , ma decisamente chitarristico, con la giusta quota country, che non può mancare in un album di questo filone e una decina di belle canzoni, che nulla aggiungono alla grande tradizione del genere, ma sono suonate con passione e perizia https://www.youtube.com/watch?v=ozNLn4xEW10 .

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Queste melodie e questi riff li avremo sentiti mille volte, ma quando parte l’attacco ruggente a doppia chitarra di Footsteps, uno non può fare a meno di pensare ai primi Allman e quando entra la voce di Flynn, i fantasmi della famiglia Van Zant si agitano https://www.youtube.com/watch?v=W42kdfqz-44 . Negli ultimi anni molti gruppi, a partire da Whiskey Myers e Blackberry Smoke (di cui leggerete in altra parte domani) hanno rinverdito i fasti del vecchio southern rock, ripulendolo dalle scorie di durezza e banalità che ne avevano appesantito il sound quando le band migliori del genere avevano perso la giusta direzione, ora anche i Gama Gamblers, insieme ad alcuni altri gruppi recenti, che non cito, per non fare la solita lista della spesa, hanno portato una ventata di freschezza ed entusiasmo negli Stati del Sud. Il tocco di Shanks rende il CD molto godibile, con un suono nitido e ben definito, quasi da major, nonostante la sua genesi a livello indipendente e locale, e i brani scorrono senza scadimenti di qualità e con alcune punte di eccellenza, a partire dalla citata Footsteps, che è una partenza perfetta e se confermata a quei livelli per tutto il disco ci avrebbe fatto gridare al “piccolo” capolavoro. Il suono sembra uscire dai vecchi solchi di Idlewild South o Second Helping, con le chitarre che si inseguono dai canali dello stereo, le tastiere, soprattutto l’organo e la sezione ritmica che ancorano il suono e la voce maschia ed espressiva di Flynn; tutto profuma di Georgia Clay, con la slide di Alemany che si integra all’organo e piano elettrico di Baath, il basso di Flynn danza intorno alla batteria di Fleming e questo storie sudiste si dipanano con grande naturalezza https://www.youtube.com/watch?v=uzjIT3l1li4 . Storie abbastanza semplici, come quella della barista Emily Jay, che è un po’ come la Sweet Loretta di Get Back e musicalmente si viaggia anche dalle parti di John Fogerty, quindi classico rock americano, puro e non adulterato, con le chitarre che disegnano linee soliste essenziali ma suonate con gran gusto. Devil’s Daughter, con le due soliste suonate all’unisono https://www.youtube.com/watch?v=ahuSx5yWnAY , è la prima canzone scritta dal gruppo intorno al 2010 quando nasceva la band, storie di ragazze di college, “diaboliche” per dei giovani teenager ricchi di testosterone (Bo Flynn, il bassista ha compiuto 25 anni da poco), con la musica che resta nei binari del genere, un continuo svolazzare di chitarre che però non allungano la durata delle canzoni oltre i classici quattro/cinque minuti canonici del miglior rock  .

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Anche Dead Roses ha il classico suono sudista, ma arricchito da riff stonesiani o alla Faces, che la possono avvicinare anche a gente come i Black Crowes https://www.youtube.com/watch?v=NrmFA7Aa4e8 , sonorità ribadite nella poderosa Love Me In The Morning, altro ottimo esempio di rock song dura e pura, nuovamente assai riffata e con una bella parte, centrale e finale, dove le chitarre sono libere di improvvisare. Non possono naturalmente mancare le classiche ballate sudiste, Sweet Revival, con un intro di chitarra acustica e organo, poi si sviluppa nel sempiterno crescendo di questo tipo di brani, per una lirica cavalcata a guida slide https://www.youtube.com/watch?v=CppfTRDGNis , reiterata nell’eccellente The River, altro mid-tempo costruito secondo gli stilemi del miglior rock sudista, partenza attendista, belle armonie vocali e l’immancabile coda chitarristica che dal vivo potrebbe fare sfracelli. L’allmaniano rock-blues di Smooth Sailing viaggia sulle ali di un pianino elettrico alla Billy Preston, con la giusta quota boogie e l’immancabile slide di Alemany ad intrecciarsi con la solista di Kooken, mi tocca ripetermi, sentito mille volte, ma se è fatto bene è quasi inevitabile https://www.youtube.com/watch?v=64ZV89EUxIs . Essendo dell’Alabama un bel brano di impronta country (rock), come la conclusiva Love Somebody è la classica ciliegina sulla torta di un lavoro che gli appassionati del genere potranno godersi fino in fondo.

Bruno Conti

Il Canada Non Ci Tradisce Mai ! Elliott Brood – Work And Love

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Elliott Brood – Work And Love – Paper Bag Records – Deluxe Edition

Emersi qualche anno fa dal calderone dei gruppi “alternative-country”, gli Elliott Brood sono molto popolari in Canada (vincitori nel 2013 dello Juno-Awards nella sezione “roots ”), e ascoltando anche questo Work And Love si ha la sensazione che il paese delle “Giubbe Rosse” si sia improvvisamente trasformato nella nuova “terra promessa” per la musica di qualità. Vengono da Toronto, e il loro esordio arriva con un EP Tin Type (04), anticipazione dello splendido successivo Ambassador (05), un lavoro country-noir che richiama gli album dei Willard Grant Conspiracy. Dopo una breve pausa arriva Mountain Meadows (08), che segna una intrigante svolta rock, che però viene subito abbandonata per ritornare ad un suono più vicino agli esordi con il premiato Days Into Years (12) https://www.youtube.com/watch?v=CWPC3CW61zg , una sorta di concept-album “on the road”.

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Il trio è sempre composto da Mark Sasso voce, chitarre, banjo e armonica, Casey Laforet al basso e tastiere, Stephen Pitkin alla batteria e percussioni, con l’apporto di ricercati turnisti come l’asso della pedal steel Aaron Goldstein, il bassista John Dinsmore,  il trombettista e cornista Michael Louis  Johnson, il tutto registrato in una casa colonica a Bath, Ontario, sotto la produzione esperta del musicista canadese Ian Blurton (è stato il primissimo batterista dei Cowboy Junkies).


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A partire dalla traccia iniziale Little Ones (e vale per tutto il disco) resta difficile credere che tanta musica esca da un solo “trio” (ma con più di dieci strumenti!), un perfetto brano radiofonico con una tromba importante https://www.youtube.com/watch?v=La46U5YELHw , seguita dalle moderne country-song Nothing Left e Tired, mentre Taken è una superba ballata folk dove echeggiano atmosfere “younghiane” https://www.youtube.com/watch?v=yk8cMKNE7A8 . Un tintinnio di campane da chiesa introduce Mission Bell https://www.youtube.com/watch?v=vKZpKg0KYuA , con un suono da film western (sarebbe stata perfetta in un film di Sergio Leone), con la tromba “mariachi” di Johnson protagonista, passando per il delizioso uso del banjo e  della pedal steel nelle ritmate cadenze di Jigsaw Heart https://www.youtube.com/watch?v=gpXEi8ALR8Q  e Each Other’s Kids, la ruvida e graffiante Better Times (cantata da una voce rauca e nasale alla John Fogerty) https://www.youtube.com/watch?v=CuJeZK1HNO0  con qualche influenza negli accordi dei primi R.E.M., andando a chiudere con l’emblematica End Of The Day, una ballatona sospesa tra melodia e malinconia. Nel secondo CD della Deluxe Edition (solo per le prime copie), vengono riproposti in versione acustica Jigsaw Heart, Taken, Nothing Left e Little Ones, più una bonus track, la splendida Don’t Take It Away (da sola vale il prezzo del CD) https://www.youtube.com/watch?v=B-1BA4l9Gb0 , a dimostrazione che a questi ragazzi bastano pochi accordi di chitarra, qualche nota di banjo e un paio di note cantate con l’anima per fare di Work And Love uno dei lavori più affascinanti di “American Music” usciti negli ultimi anni. Da scoprire !

Tino Montanari

A Day At The Races – Più Forte Della Pioggia! John Fogerty Live – Ippodromo di Milano – 7 Luglio 2014

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Inizialmente volevo intitolare questo post “Lui Invece Non Delude Mai!”, ricollegandomi idealmente al pezzo da me scritto la settimana scorsa sul concerto a Lucca degli Eagles (che ha scatenato un vero putiferio su questo blog), ma ho deciso di privilegiare l’argomento di discussione principale ieri sera tra il folto pubblico assiepato sul prato dell’Ippodromo milanese, cioè le previsioni meteorologiche che erano date semplicemente orripilanti sul capoluogo lombardo.

A dire il vero, man mano che si avvicinava l’ora di inizio del concerto, i nuvoloni neri miracolosamente si dissipavano man mano, anche se nessuno per scaramanzia lo faceva notare…Ma veniamo a noi: per me era la quarta volta che assistevo ad un concerto di John Fogerty (uno dei miei preferiti di sempre), la seconda a Milano dopo il suo “mitico” passaggio all’Alcatraz di qualche anno fa.

Ebbene, dico subito che la serata è stata strepitosa, quasi al livello dell’Alcatraz, con un Fogerty in forma straordinaria nonostante gli anni che passano (e la tintura dei capelli sempre più Maldini-style, nel senso di Cesare), un concerto tiratissimo, due ore nette di grandissimo rock’n’roll, durante le quali il nostro ha ripercorso quasi al 90% la sua carriera coi Creedence, coadiuvato da una band meno numerosa rispetto ad altre volte ma coesa come poche, guidata da quell’incredibile stantuffo umano che è Kenny Aronoff, il batterista rock migliore del mondo attualmente, uno che è uno spettacolo nello spettacolo, mentre alle chitarre troviamo il figlio di Fogerty, Shane, e Devon Pangle, James Lomenzo al basso e l’ottimo Bob Malone alle tastiere.

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La serata inizia puntuale (appena cinque minuti di ritardo) con la coinvolgente Hey Tonight (che si alterna con Travelin’ Band come brano d’apertura), acustica più che buona e John che dimostra subito di avere ancora una grande voce (mai una caduta in due ore, impressionante), per poi seguire a ruota con Green River e la splendida Who’ll Stop The Rain, brano più che adatto visti i nuvoloni che paiono riaffacciarsi.

Il pubblico è già caldissimo, e se la scaletta da qualche anno offre poche sorprese, a questo sopperisce Fogerty con una grinta degna di un ragazzino, unita anche ad una tecnica chitarristica della quale non si parla mai abbastanza: a raffica John ci regala una tesa Born On The Bayou, una Lodi (essendo a Milano non poteva non farla, hahaha) molto più rock’n’roll che in origine, ed una fantastica Ramble Tamble, con Aronoff assolutamente incontenibile, sembra che abbia otto braccia.

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I brani si susseguono senza soluzione di continuità (rispetto all’apertura di due giorni fa del tour europeo ad Avila, in Spagna, farà due pezzi in più), una sequenza nella quale spiccano una grandissima I Heard It Through The Grapevine, con ottimo assolo al piano elettrico di Malone, una Midnight Special che ha visto tutto il pubblico continuare a cantarne il ritornello anche a canzone finita, costringendo John e la band a riprendere l’ultima strofa, una travolgente Lookin’ Out My Backdoor che ci ha proiettato in piena festa country (un mio vicino alla fine ha esclamato: “Domani vado a comprarmi un trattore!”), la nuova Mystic Highway, che il pubblico mostra di conoscere come se fosse uno dei classici.

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Interessante Long As I Can See The Light, con John che rilascia un intenso assolo “alla Tom Morello” (e che voce!), Cottonfields la fa cantare praticamente tutta al pubblico, Have You Ever Seen The Rain (durante la quale, giuro, comincia a cadere qualche goccia, un po’ se l’è tirata devo dire) è come sempre il momento più emozionante, una delle più grandi canzoni di tutti i tempi, in molti si commuovono e John se ne accorge. New Orleans, cover del popolare brano di Gary U.S. Bonds, è la piacevole novità di questo tour, Keep On Chooglin’ è la solita esplosione elettrica, una cascata di decibel sulle nostre teste.

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E qui si scatena l’inferno: Giove Pluvio, finora clemente, decide di riversare su di noi una serie indescrivibile di secchiate d’acqua (un duello con Fogerty? Lui le note e dal cielo l’acqua, vediamo chi vince), che per fortuna durano lo spazio di soli tre brani, nei quali la gente (me compreso) è più impegnata a trafficare con ombrelli ed impermeabili, perdendosi quasi due ottime Rock’n’Roll Girls e Down On The Corner: John ringrazia più volte i fans per essere rimasti sotto l’acqua senza fare una piega, e si lancia in un uno-due micidiale Up Around The Band e The Old Man Is Down The Road, nella quale jamma alla grande col figlio Shane (e nel frattempo smette anche di piovere).

Un minuto di attesa ed eccoli di nuovo da noi per i bis: Rockin’ All Over The World, ennesimo singalong della serata, Fortunate Son, Bad Moon Rising ed il superclassico Proud Mary vengono sparate una dietro l’altra come si fa con gli ultimi fuochi artificiali, prima dei saluti finali.

Un uragano si è abbattuto su Milano, e non mi riferisco al clima (che, anzi, ha tenuto tutto sommato bene, a parte le secchiate finali): con tutto il rispetto per gli Eagles, sempre e comunque una grandissima band, questa sera eravamo su un altro pianeta.

Strepitoso.

Marco Verdi

P.S: ecco la scaletta completa

  1. Hey Tonight (Creedence Clearwater Revival)
  2. Green River (Creedence Clearwater Revival)
  3. Who’ll Stop the Rain (Creedence Clearwater Revival)
  4. Born on the Bayou (Creedence Clearwater Revival)
  5. Lodi (Creedence Clearwater Revival)
  6. Ramble Tamble (Creedence Clearwater Revival)
  7. Penthouse Pauper (Creedence Clearwater Revival)
  8. Midnight Special (Traditional)
  9. I Heard It Through the Grapevine (cover di Marvin Gaye)
  10. Lookin’ Out My Back Door (Creedence Clearwater Revival)
  11. Hot Rod Heart
  12. Susie Q (cover di Dale Hawkins)
  13. Cotton Fields (Traditional)
  14. Mystic Highway
  15. Long as I Can See the Light (Creedence Clearwater Revival)
  16. Have You Ever Seen the Rain? (Creedence Clearwater Revival)
  17. New Orleans (cover di Gary “U.S.” Bonds)
  18. Keep On Chooglin’ (Creedence Clearwater Revival)
  19. Rock and Roll Girls
  20. Down on the Corner (Creedence Clearwater Revival)
  21. Up Around the Bend (Creedence Clearwater Revival)
  22. The Old Man Down the Road
  23. Fortunate Son (Creedence Clearwater Revival)
  24. Rockin’ All Over the World
  25. Bad Moon Rising (Creedence Clearwater Revival)
  26. Proud Mary (Creedence Clearwater Revival)

Caspita Se Picchiano! Two Tons Of Steel – Unraveled

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Two Tons Of Steel – Unraveled – Smith Entertainment CD 2013

Avere uno come Lloyd Maines, cioè il miglior produttore texano, pronto a cancellare qualsiasi impegno pur di produrre un tuo disco non è roba da tutti. E’ ciò che succede ai Two Tons Of Steel, band proveniente da San Antonio, ormai tra le veterane del panorama musicale (sono in giro da diciotto anni), che ha avuto l’onore di avere Maines dietro la consolle in molti dei suoi lavori. Cosa che accade puntualmente anche in questo Unraveled (che esce a quattro anni di distanza da Not That Lucky), nuovo ed elettrizzante capitolo della carriera del quartetto guidato da Kevin Geil (con Brian Duarte, Paul Ward e Jake Marchese).

Non sono molto prolifici, incidono ogni tre-quattro anni, ma state sicuri che raramente sbagliano un colpo: il loro è un hard-rockin’ country vigoroso ed energico, con decisi elementi punk nel dna, un sound diretto e chitarristico che ha portato Maines a definirli una delle migliori band texane in circolazione. Un complimento mica da ridere, vista la moltitudine dei gruppi operanti nel Lone Star State, ma Maines non è certo l’ultimo arrivato, e quando parla lo fa a ragion veduta: Unraveled ci offre la consueta miscela di country-rock ad alto tasso adrenalinico suonato a tutto ritmo; dopo quasi vent’anni Geil e soci si intendono alla perfezione, e la maestria di Maines nel rendere pulito e calibrato il sound è la ciliegina sulla torta. 

Dal vivo, poi, sono una vera bomba.Per la verità l’inizio è un po’ così così: Really Want You è un brano tosto, tra country e punk, decisamente energico ma con poche frecce al sua arco dal punto di vista melodico. Molto meglio Crazy Heart (un brano scritto da Augie Meyers), sempre suonata in modo duro ma con maggior feeling: alla canzone viene tolto l’elemento tex-mex tipico del suo autore e viene aggiunta una robusta dose di cowpunk, ed il tutto funziona. Ease My Mind ha ancora un ritmo alto, ma l’accompagnamento elettroacustico stempera un po’ i toni, dimostrando che i TTOS non sono solo forza ma anche sostanza e cervello; Busted è un celebre brano di Harlan Howard, ma portato al successo da Johnny Cash, un pezzo che qui riceve il tipico trattamento rock’n’country ad opera dei nostri, con ottimi esiti. L’inizio stentato è ormai un ricordo.

Mama è un honky-tonk elettrico e roccato, This Life Of Mine è invece una bellissima cowboy song, decisamente trascinante (ed un po’ sboccata), che dimostra che i TTOS sanno anche scrivere ottime canzoni. No Beer è un divertente hardcore country, nel quale il protagonista, accanito bevitore texano, va all’Oktoberfest a Monaco di Baviera pieno di aspettative e non riesce neanche a farsi una birra; Hell Cat è dura e diretta, senza fronzoli, mentre Pool Cue rievoca in maniera spinta lo spirito di Waylon Jennings.     

L’album termina con la roccata One More Time, in cui i Two Tons adottano quasi uno stile alla John Fogerty, e con Can’t Stop Us Now, un punkabilly dal ritmo indiavolato, degna conclusione di un disco che fa ben pochi prigionieri.

Garantisce Lloyd Maines.

Marco Verdi

Sempre Le Stesse Canzoni…Ma Che Belle! – John Fogerty – Wrote A Song For Everyone

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John Fogerty – Wrote A Song For Everyone – Vanguard Records

Recentemente, parlando delle ultime ristampe di Jeff Lynne, ho coniato il termine “barrel bottom scratching” (letteralmente: grattare il fondo del barile), espressione che si potrebbe applicare anche per l’ultima parte della carriera di John Cameron Fogerty. L’ex Creedence infatti negli ultimi dieci anni ha pubblicato solo due dischi di canzoni nuove (Deja Vu (All Over Again), 2004, ottimo, e Revival, 2007, buono ma meno riuscito), un’antologia, due DVD dal vivo ed un disco di covers (lo splendido The Blue Ridge Rangers Rides Again).

Pochi brani nuovi dunque e, nell’antologia e nei due album live, un po’ sempre le stesse vecchie canzoni: in più, ora esce finalmente questo Wrote A Song For Everyone (finalmente perché era già dato in uscita lo scorso ottobre, con una copertina diversa da quella attuale, poi John ha pensato bene di lavorarci ancora un po’ e di aggiungere delle canzoni), un album auto celebrativo nel quale il nostro ripercorre alcune tappe fondamentali della sua carriera insieme ad una lunga lista di ospiti. Ancora le stesse canzoni dunque? Beh…sì, ed in più proposte in duetto con altri cantanti (raramente ho vibrato per un disco di duetti, di solito c’è sempre qualche episodio che abbassa il valore complessivo dell’opera), quindi un alto rischio per John di esporsi a critiche non proprio benevole.

Ebbene, Wrote A Song For Everyone si rivela invece essere un grandissimo disco: pochi al mondo possono vantare un songbook come quello di Fogerty, ed in più la scelta di riarrangiare alcuni brani su misura per l’ospite di turno si rivela vincente, dando nuova linfa a canzoni ormai ben fisse nella storia della musica (ci sono però anche due brani nuovi di zecca). Non dico che queste versioni siano superiori agli originali, ma (quasi) tutte le collaborazioni danno nuova vitalità ai brani, e John si trova particolarmente a suo agio, con in più l’ottimo stato della sua voce, ancora limpida e forte a dispetto dell’età.

La house band è formata da Bob Malone al piano, David Santos al basso, il grandissimo Kenny Aronoff alla batteria, oltre naturalmente a Fogerty alla chitarra.

Apre il disco la vigorosa Fortunate Son, nella quale John si fa accompagnare dai Foo Fighters di Dave Grohl: versione tosta, potente, quasi hard, perfetta per la band dell’ex Nirvana, ma nella quale anche Fogerty ci sguazza che è un piacere (e poi dal punto di vista della voce tra i due non c’è proprio paragone…meglio Grohl!…scherzo…).

La gioiosa Almost Saturday Night (con Keith Urban) è meno rock e più country dell’originale, ma mantiene intatta la sua melodia solare, ed Urban, oltre ad avere la fortuna di trovare tutte le volte che rientra a casa Nicole Kidman ad aspettarlo, ha anche una gran bella voce.

Lodi vede John cantare da solo, in quanto qui gli ospiti sono i figli Shane e Tyler, che suonano la chitarra ma non cantano: una versione più rock’n’roll dell’originale, che però non riserva grandi sorprese.

Mystic Highway è uno dei due brani nuovi presenti, con John che canta ancora in perfetta solitudine: una canzone tipica, con quell’andamento tra rock e country presente in molti suoi pezzi, una melodia solare e coinvolgente ed un bell’intermezzo sul finale per sole voci.

La title track è uno dei pezzi forti del disco: già l’originale era uno dei miei cinque brani preferiti dei Creedence, e qui la scelta della brava Miranda Lambert è più che azzeccata, il contrasto tra le due voci è perfetto, e poi c’è anche un assolo davvero strepitoso di Tom Morello che fa salire decisamente la temperatura. L’originale dei Creedence era forse più drammatica, ma qui siamo davvero solo un gradino sotto.

Bad Moon Rising ha il suono della Zac Brown Band, e indovinate chi è l’ospite? Esatto: la Zac Brown Band! Grande canzone e grande versione, tra country e southern.

Long As I Can See The Light è un’altra grande ballata di John, qui accompagnato dai My Morning Jacket: Jim James e soci se la cavano benissimo in queste situazioni (il tributo a Levon Helm lo dimostra), e John lascia loro quasi la piena luce dei riflettori, intervenendo solo alla terza strofa.

Kid Rock non è certo un fenomeno, e quasi ce la fa a rovinare la splendida Born On The Bayou: per fortuna c’è John che riesce a limitare i danni (ma invitare un altro, che so, John Hiatt, no?).

Train Of Fools è il secondo brano nuovo: un rock blues annerito, con Fogerty che lavora di slide, una canzone forse non memorabile ma che non sfigura affatto.

La bella Someday Never Comes (il singolo finale dei Creedence) vede John accompagnato dai Dawes, buona versione, molto aderente all’originale, mentre con Who’ll Stop The Rain, che vede la partecipazione di Bob Seger, abbiamo il capolavoro dell’album.

Già il brano è uno dei migliori dei Creedence (forse IL migliore), e poi Seger è uno dei grandissimi: la canzone viene arrangiata alla maniera di Bob (ricorda quasi Against The Wind), ed il barbuto rocker di Detroit giganteggia a tal punto da mettere in ombra anche Fogerty, il che è tutto dire.

(NDM: non mi dispiacerebbe un disco simile anche da parte di Seger, con Bob che rilegge i suoi brani storici accompagnato da una serie di ospiti, e John che gli rende il favore, magari proprio con Against The Wind).

Hot Rod Heart è il brano più recente di quelli riletti nel disco, un rock’n’roll irresistibile con Brad Paisley che duetta sia alla voce che alla chitarra con John, mentre Have You Ever Seen The Rain? è un’altra delle grandi canzoni di Fogerty, che qui coinvolge Alan Jackson e la sua band: versione rilassata, molto più country dell’originale, ma sempre bellissima.

Chiude l’album, e non poteva essere altrimenti, la celeberrima Proud Mary, con Allen Toussaint & Rebirth Brass Band e soprattutto la grande voce di Jennifer Hudson: arrangiamento metà gospel e metà cajun, dal ritmo irresisitibile, con John che si mantiene quasi nelle retrovie per lasciare spazio alla strepitosa ugola della Hudson, una vera forza della natura.

Fine di un grande disco: se vogliamo trovare il pelo nell’uovo, ho notato l’assenza di Bruce Springsteen, che in passato ha duettato più di una volta con Fogerty (Rockin’ All Over The World sarebbe stata una scelta perfetta).

Ma sono quisquilie: Wrote A Song For Everyone è un album imperdibile.

Adesso però voglio un disco di canzoni nuove.

Marco Verdi

Ecco Un Altro Che Non Sbaglia Un Colpo! Chris Knight – Little Victories

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Chris Knight – Little Victories – Drifter’s Church CD

Tra tutti i nuovi musicisti del panorama rock Americano, Chris Knight (che nuovo non è, essendo nato nel 1960) è certamente uno dei più dotati di talentoOriginario del Kentucky, ma texano d’adozione (è stato addirittura nominato texano onorario dal governatore dello stato Rick Perry, evidentemente un suo fan), Knight si è fatto conoscere a piccoli passi, senza mai svendere la sua musica o flirtando con una major (solo il suo esordio, Chris Knight, uscì nel 1998 per la Decca, che siccome ci vide lungo lo lasciò subito a casa…): oltre a scrivere brani di successo per artisti in ambito country (tra cui Montgomery Gentry, Randy Travis e John Anderson), ha pubblicato diversi album a suo nome, tutti di livello tra il buono e l’ottimo, conquistandosi una bella fetta di pubblico anche fuori dal Texas.

Erroneamente giudicato anch’egli un cantante country, Chris è in realtà un rocker dal pelo duro, figlio (musicalmente parlando) di gente come John Mellencamp (il più vicino, anche per il timbro vocale), Steve Earle, Bruce Springsteen e John Fogerty(al quale invece assomiglia fisicamente): la sua musica è tesa, chitarristica e vibrante, senza spazio per sdolcinature di sorta, ed anche i testi parlano di piccole storie quotidiane, di amori finiti male, di gente con mille problemi. Chris è un vero rocker, e se a tratti sembra assomigliare un po’ troppo ai suoi modelli di riferimento (specialmente a Mellencamp) si eleva dalla massa per la bellezza delle canzoni, oltre che per la forza e convinzione con le quali le propone.

In più, sa cercare anche i produttori giusti per la sua musica: Heart Of Stone, uno dei suoi dischi migliori, vedeva la presenza alla consolle di Dan Baird, mentre questo Little Victories (il suo ottavo album in totale), che è ancora meglio, è prodotto da Ray Kennedy, già stretto collaboratore di Steve Earle e perfettamente a suo agio con queste sonorità; come ciliegina, il disco vede anche diversi ospiti di nome (che vi citerò man mano), anche se talvolta utilizzati in maniera bizzarra (e vedremo perché). Si inizia alla grande con In The Mean Time, che ricorda subito il Mellencamp più rocker: inizio acustico (voce, chitarra e mandolino), poi entrata micidiale di batteria e chitarre elettriche (Mike McAdam, un nome da tenere d’occhio); un brano duro, teso, diretto come un pugno nello stomaco, puro rock’n’roll, altro che country. Missing You non abbassa i toni (anzi), ritmica alla Rolling Stones, chitarra alla Fogerty e voce in stile Cougar: detto così sembra la fiera del già sentito, ed invece Chris riesce a far convivere tutte le sue influenze ed a creare qualcosa di personale.

In questi due brani vediamo come primo ospite anche Buddy Miller, ma solo come backing vocalist, e quindi poco riconoscibile. You Lie When You Call My Name è ancora puro Cougar (qui più che mai, provate a chiudere gli occhi e non noterete differenze), un altro brano teso ed affilato come una lama, dove il violino (suonato da Tammy Rogers) viene usato come lo usava Lisa Germano su The Lonesome Jubilee. Loydown Ramblin’ Blues è il tipico brano che si potrebbe ascoltare in una stazione di servizio americana, di quelle in mezzo al nulla: elettrica, tirata allo spasimo, ricorda certe cose di Tom Petty, con un assolo centrale di chitarra che è una goduria. Nothing On Me è invece una grande ballata elettroacustica, dalla splendida melodia, cantata con il cuore, un brano che ci mostra di che pasta è fatto Knight: una delle migliori del disco.

Little Victories, ancora lenta (ma la batteria picchia sempre duro) è un’altra sublime prova di cantautorato, con il suo ritornello di grande impatto emotivo: più va avanti e più il disco cresce. La saltellante You Can’t Trust No One è finora la più country, ed è l’ennesimo brano di prima scelta: il mandolino guida, l’elettrica risponde e Chris ci accompagna lungo tutta la canzone con una melodia solare che ha molti punti di contatto con la musica dei Creedence. Out Of This Hole, acustica, è un altro mezzo capolavoro, e dimostra che il nostro, pur essendo un rocker, è in grado di fare grande musica anche con solo una chitarra acustica; Jack Loved Jesse (scritta e suonata con Dan Baird) ci riporta in ambito rock, con la chiara influenza ancora di Fogerty (sembra uno dei suoi brani swamp).

Hard Edges, guidata dal banjo, è una tenue ballata rurale, con la presenza del grande John Prine alla seconda voce, e qui c’è la bizzarria di cui parlavo prima (già sperimentata con Miller): hai Prine che canta su un tuo disco e lo seppellisci nei backing vocals, rendendolo praticamente irriconoscibile, senza fargli cantare neppure una strofa da solo? Questa è l’unica cosa discutibile, a mio parere, di un disco pressoché perfetto. Chiude l’album The Lonesome Way, ennesimo pezzo roccato e solido come una roccia. Chris Knight è ormai una bella realtà del panorama musicale americano, e solo la miopia delle majors fa sì che debba rimanere un musicista di culto.

Marco Verdi