Non Solo Blues, Ma Tanta Buona Musica! Gnola Blues Band – Down The Line

gnola blues band down the line

Gnola Blues Band – Down The Line – Appaloosa/Ird

Maurizio Glielmo, in arte “Gnola”, non è pavese, come molti pensano, anche se fa sicuramente parte di quella scena musicale, ma nasce a Milano, un imprecisato numero di anni fa (quanti? Abbastanza, andate su Wikipedia a verificare, non è un segreto, diciamo che non è più un giovanotto di belle speranze, compie anche gli anni in questi giorni, auguri) e proprio nella metropoli lombarda muove i suoi primi passi nella scena locale, a partire dalla fine anni ’70, andando poi ad approdare nella “leggendaria” Treves Blues Band, con la quale registra due album, 3 nel 1985 e Sunday’s Blues nel 1988, poi le strade con il Puma di Lambrate si dividono e già nel 1989 nasce la prima edizione della Gnola Blues Band, dove fin da allora alle tastiere sedeva Massimo “Roger” Mugnaini, a tutt’oggi compagno inseparabile di avventure musicali. Ma nel disco del 1988 appariva come ospite un certo Chuck Leavell, tastierista di culto, prima nei Sea Level (formazione poco conosciuta, ma di grande pregio), poi nell’Allman Brothers Band, dopo lo scomparsa di Duane Allman, e da parecchi anni nella touring band dei Rolling Stones, oltre ad essere apparso come ospite in centinaia di dischi. E guarda caso lo troviamo anche in questo Down The Line, disco che oserei definire “non solo”: non solo blues, non solo rock, non solo roots music, ma con tutti questi elementi ben definiti a formare un album che non esiterei a definire il migliore della carriera del buon Gnola. La discografia con la band non è copiosissima, un disco ogni cinque o sei anni, questo è il sesto dagli esordi del 1990, se contiamo anche Blues, Ballads And Songs, in società con Jimmy Ragazzon dei Mandolin Brothersoltre, anche per lui, ad un fitto lavoro di collaborazioni con gli artisti più disparati, la più nota probabilmente quella in Yanez di Davide Van De Sfroos.

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Per questo nuovo CD la Gnola Blues Band si è arricchita di una nuova sezione ritmica, Paolo Legramandi al basso e Cesare Nolli alla batteria ( spesso anche con i milanesi Fargo http://discoclub.myblog.it/2015/03/24/fargo-eccoli-nuovo-concerto-special-edition-small-world-black-and-white/ ), che hanno curato pure la produzione del disco nei Downtown Studios di Pavia, dove è stato registrato l’album. Ovviamente, essendo nei dintorni, Maurizio ha chiesto a Ed Abbiati di dargli una mano a scrivere una canzone sulle loro comuni radici musicali e, visto che la cosa aveva funzionato, di brani insieme ne hanno scritti ben 5, quasi la metà del totale, in due di essi, come autore, appare anche Marcello Milanese http://discoclub.myblog.it/2014/11/30/musicista-musicista-volta-jimmy-ragazzon-incontra-marcello-milanese-leave-the-time-that-finds/, ex (?) Chemako. Come mi piace ricordare spesso, anche l’ottimo Gnola appartiene alla colonia degli “italiani per caso”, quelli che hanno avuto i natali nella nostra penisola, ma fanno una musica di area anglosassone ed americana che non ha nulla da invidiare al 90% della produzione internazionale, anzi! Troviamo dodici brani che spaziano tra blues e rock, con molta attenzione e cura nel sound, negli arrangiamenti e nella costruzione sonora dei pezzi che spesso spaziano anche nella ballata rock e nell’area di quella che si definisce Americana music. Chiacchierando con lo Gnola mi diceva che tra i suoi modelli per la costruzione dei brani più melodici c’è uno come John Hiatt (giustamente non bisogna volare bassi https://www.youtube.com/watch?v=kqGTea0gTyM ), oltre agli immancabili Stones, Muddy Waters e, aggiungo io, Litte Feat e i primi ZZ Top, o così mi è parso di cogliere all’ascolto.

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Per motivi di ragione sociale il blues(rock) non può mancare, e fin dall’iniziale Dusty Roads, dell’accoppiata Abbiati-Glielmo, con il tipico ritmo boogie scandito dalla bacchette sul rullante e la slide tagliente di Gnola, si respira subito aria sudista, un po’ ZZ Top e un po’ Mississippi e Chicago https://www.youtube.com/watch?v=a4meHGkBzUs , impressione ribadita nell’ottima Trouble And Pain, firmata dal batterista Nolli, dove il ritmo è più scandito, con un groove decisamente funky, percussioni e chitarre acustiche che si incontrano per una gita all radici del blues, con breve reprise strumentale. Gianni Rava collabora con il gruppo sin dagli anni ’90 e firma con Glielmo una bellissima ballata come Four Burning Flames, dove il buon Maurizio, se non può competere a livello vocale con il citato Hiatt https://www.youtube.com/watch?v=xgtOvajfRoc , sfodera comunque una bella interpretazione, impreziosita da un eccellente lavoro di tutto il pacchetto chitarristico, per un brano che profuma di Stones americani, circa Sticky Fingers o Exile Main Street, quelli innamorati di country e rock sudista, oltre ai grandi balladeers roots https://www.youtube.com/watch?v=moztlVV2HqAVentilator Blues, dello strano trio Jagger-Richards-Taylor, viene proprio da Exile, e con un ottimo Leavell aggiunto al piano, è un omaggio al blues più sanguigno, crudo  ed elettrico del grande Muddy Waters, mediato dai migliori discepoli bianchi della musica del Diavolo e qui ripreso alla grande da Gnola e soci https://www.youtube.com/watch?v=vZ4B6-s49RA . I’ll Never Do It Again ricorda ancora passaggi sonori americani, un basso rotondo a segnare il tempo e quel sound vagamente littlefeatiano che piace sempre tanto e che denota buone frequentazioni musicali, Mugnaini fa il Leavell della situazione.

Falling Out Of Love è una grande rock ballad, e adesso che lo so, ci vedo quell’aria à la John Hiatt, anche se la firma è di nuovo Abbiati-Glielmo, suono arioso ed avvolgente, una bella melodia cantabile e una slide mirabile ad impreziosire il tutto, ho sempre il dubbio che non siano italiani, so che per Ed, in parte, è una realtà, ma anche gli altri non me la raccontano giusta, secondo me vengono da qualche piccolo sobborgo di Memphis, Muscle Shoals Lambrate o giù di lì. She Got Me Now è un bel rock-blues di quelli sapidi e chitaristici, uno dei due co-firmati da Milanese, e trasuda grinta e passione, con un assolo di quelli fiammeggianti che sicuramente Mick Taylor avrebbe approvato, mentre The Ghosts Of King Street, attraverso le parole di Ed Abbiati e Glielmo rievoca la Londra degli anni ’70, quella degli Who, della Frankie Miller Band (ma allora non li conosco solo io!), del pub rock, ma anche dei Clash e dei Pogues, Sex Pistols e Costello e di tanti locali che non ci sono più, e lo fa musicalmente con un brano che ha le stimmate delle migliori ballate romantiche della tradizione pop-rock britannica https://www.youtube.com/watch?v=agY8Jy99Ugg . Room Enough, di nuovo di Nolli, e nuovamente con il pianino di Leavell in bella evidenza, è un pigro blues elettroacustico con Gnola che ci dà un breve assaggio anche della sua perizia al wah-wah. Fallen Angels è un altro brano che alza la qualità dell’album, di nuovo wah-wah innestato, un bel mid-tempo rock dalla struttura classica, con uso di piano elettrico e gran finale chitarristico, di quelli che lo stesso Clapton ultimamente fatica a cavare dal cilindro (ma ogni tanto ci riesce), che il trio Glielmo-Abbiati-Milanese confeziona senza sforzo apparente. I’ve been there before è la terza canzone dove un wah-wah quasi hendrixiano cerca di farsi largo in un denso magma sonoro di “sporco” rock-blues che sarà anche fuori moda ma ci piace tanto. E per ribadire che il blues non manca comunque in un disco eclettico e dai mille sapori, nella conclusiva Dangerous Woman Blues, una slide cattivissima taglia in due un brano che ricorda i vecchi tempi del british blues https://www.youtube.com/watch?v=L-KFnY1Shk4 . Dodici brani di notevole livello qualitativo, ribadisco (anche perchè in alcune recensioni ho letto di undici canzoni, mi hanno forse dato una copia “difettosa” con un brano in più?) che nulla hanno da invidiare a gran parte della produzione internazionale.

Come diremmo in dialetto lombardo, “Well done Gnola”!

Bruno Conti 

Ebbene Sì, E’ La Figlia, Anche Se Il Babbo E’ Un’Altra Cosa! Lilly Hiatt – Royal Blue

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Lilly Hiatt – Royal Blue – Normaltown Records

Cosa dobbiamo aspettarci da una figlia d’arte di cotanto padre? Non la versione femminile di John Hiatt, e sarebbe difficile e scorretto pensare che potrebbe diventarlo (ma un pensierino possiamo pur sempre farlo)! Giunta al secondo album, Lilly Hiatt si affida per questo CD alla produzione di Adam Landry, quello del recente album dei Diamond Rugs, ma anche di Deer Tick, Hollis Brown e Sallie Ford, che la allontana dal sound più roots-country-rock del precedente produttore Doug Lancio, per un suono più contemporaneo, pop e mainstream, dove forse non risaltano troppo quelle che vengono presentate da Lilly come le sue principali influenze ( babbo a parte, ovviamente qualche aria di famiglia c’è), Lucinda Williams e Dinosaur Jr (?!)., o meglio qualche grado di parentela, l’essere anime gemelle, con Lucinda si può riscontrare, magari anche con la Rosanne Cash più leggera, ma per il resto direi che siamo più sul lato contemporary pop di Nashville, tipo Bangles, Cardigans, a tratti anche Aimee Mann, tutti in trasferta nella capitale del Tennessee.

Il country c’è, anche grazie alla pedal steel spesso presente di Luke Schneider, per esempio nella deliziosa Jesus Would’ve Let Me Pick The Restaurant, che si candida come uno dei titoli più originali, ironici e femministi dell’anno, altrove la solista più lavorata e noisy di Beth Finney, già presente nel precedente lavoro Let Down, ed il muro di tastiere, anche molti synth, suonati da Adam Landry, come in Heart Attack  e nell’iniziale Far Away, evocano un suono anni ’80, tipo quello di Echo & The Bunnymen, o anche dei primi Til Tuesday di Aimee Mann https://www.youtube.com/watch?v=HWLJMlOYpAQ . Landry ha anche un po’ nascosto nel mix la voce, piacevole ma non memorabile di Lilly, e quindi lo spirito rock delle canzoni ogni tanto fatica ad emergere, ma in Off Track dove pedal steel e solista si confrontano con successo, la bilancia è più equilibrata https://www.youtube.com/watch?v=AK8Tk_LUNCw , anche se le solite tastiere sono fin troppo soffocanti, con quella patina radiofonica che si spera potrà portarla al successo, formula che viene ripetuta anche nella successiva Too Bad, mentre Get This Right è più energica e suona come una sorta di Lucinda Williams indie pop, con le chitarre più grintose e anche la sezione ritmica ci dà dentro di gusto, il babbo dovrebbe approvare https://www.youtube.com/watch?v=bnqfne5gh20 . Papà che viene evocato nella più delicata, ancorché sempre grintosa, Somebody’s Daughter, sia a livello musicale che di testi, la voce di Carey Kotsionis appoggia e sostiene quella di Lilly e la pedal steel è la protagonista assoluta della tessitura musicale, con la voce che ha quel giusto mix di vulnerabilità e confidenza, presente anche nella citata Jesus Would’ve Let Me Pick The Restaurant.

Diciamo che sentite a volumi adeguati le canzoni acquistano grinta e spessore, non tutte, Heart Attack continua a ricordarmi più i Quarterflash che Tom Petty https://www.youtube.com/watch?v=YE-ODQQci2g , mentre una ballatona come Your Choice, solo voce, chitarra acustica e tastiere potrebbe vagamente ricordare Natalie Merchant, ma vagamente https://www.youtube.com/watch?v=0dSxuFaZIzQ . Machine potrebbe passare per uno dei brani che Carlene Carter faceva negli anni ’80, quando era la moglie di Nick Lowe e nei suoi dischi suonavano i Rockpile e i Rumour, cioè un bell’esempio di country’n’roll, con chitarre spiegate e la voce finalmente pimpante https://www.youtube.com/watch?v=kyVOYWvE3JE , ma Don’t Do These Things Anymore, al di là delle chitarre molto “lavorate” ha troppo un’aria synth pop irrisolta, meglio la country ballad conclusiva Royal Blue, un valzerone melodico e delicato, degno dei brani lenti ed intensi che l’augusto genitore ci regala spesso e volentieri, e che in questo caso Lilly è in grado di rivedere da un punto di vista femminile https://www.youtube.com/watch?v=74kv-BxP0cM . La stoffa c’è, qualche canzone pure, proviamo magari un terzo produttore ed avremo la nuova Jenny Lewis o un’altra Brandi Carlile? E in ogni caso, rispetto a gran parte di quello che si ascolta in radio o si vede nelle classifiche, non dico che siamo a livelli sublimi, ma per fortuna siamo su un altro pianeta. Certo non è facile, il cognome ti apre qualche porta https://www.youtube.com/watch?v=aTxjXZtf-nw ma poi, come dice Teddy Thompson nella bella e sincera Family, che dà il titolo al disco della famiglia Thompson riunita: “My father is one of the greats to ever step on a stage/ My mother has the most beautiful voice in the world…And I am the middle child, the boy with red hair and no smile/ Not too secure, very unsure who to be”, si può applicare anche a Lilly Hiatt e a tutti i figli d’arte sparsi per il mondo.

Bruno Conti    

Sono Sempre Belli! Jeff Healey Band – Live At The Legendary Horseshoe Tavern

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Jeff Healey Band – Live At The Legendary Horseshoe Tavern 1993 – Eagle Rock

Questo dovrebbe essere il decimo album postumo di Healey (contando anche Mess Of Blues, che usciva proprio nei giorni del marzo 2008 in cui moriva il chitarrista canadese), di cui sette dal vivo, compresi cofanetti con più concerti. Ovviamente il repertorio è più o meno simile nelle varie serate riportate su CD e DVD, ma finché questi dischi saranno così belli, rimarrà comunque un piacere (ri)ascoltare quello che la famiglia e la sua casa discografica vorranno farci ascoltare pescando da questi archivi che sembrano inesauribili, pur essendo durata la carriera di Jeff Healey solo una ventina di anni (ma a 45 anni di distanza dalla morte di Hendrix continua ad uscire materiale inedito del mancino di Seattle, la cui carriera durò quattro anni scarsi, per cui mai dire mai). L’Horseshoe Tavern è un piccolo locale di Toronto,  la cui capacità è di circa 350 posti, ma giustifica la sua qualifica di “leggendario” con la longevità del club, aperto dal 1947 e dalla qualità degli artisti che si sono succeduti sul suo palco negli anni: persino gli Stones hanno aperto il loro Bridges To Babylon Tour del 1997, con un concerto mandato in onda da MTV. Quindi proprio il locale ideale per ascoltare musica e questo si percepisce anche da questa serata di Healey nella sua città natale, dove non era infrequente ascoltarlo.

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Siamo al 16 Dicembre del 1993, un anno non coperto, mi pare, dalle precedenti uscite di materiale dal vivo, a circa un anno dall’uscita di Feel This, album del quale vengono eseguiti quattro brani in questo Live At The Legendary Horseshoe Tavern, la band si presenta nella versione allargata a quattro, con Washington Savage aggiunto alle tastiere e Mischke & Toucu come backing vocalist, oltre agli immancabili Joe Rockman al basso e Tom Stephen alla batteria. Jeff Healey non rientra di solito nelle liste dei 100 più grandi chitarristi all-time, compilate da varie riviste, ma in un ambito prettamente rock-blues, per chi scrive, ci sta comodamente: un solista dallo stile particolare, quasi unico, con la chitarra appoggiata in grembo, suonata a mo’ di lap steel, ma nei momenti di furore, quando Jeff si alzava dalla sua posizione seduta, brandita come un’ascia ed in grado di rilasciare scariche di pura potenza chitarristica e anche in questo concerto ce ne sono parecchie prove, visto che siamo ancora in uno dei momenti migliori della carriera di Healey, quindi se rock-blues deve essere, così sia. Si parte con due brani tratti da Feel This, Baby’s Lookin’ Hot, un onesto rock’n’soul con coriste e organo in evidenza e The House That Love Built, un buon pezzo dal repertorio di Tito And Tarantula, sempre con l’Hammond di Savage che supporta la solista di Jeff che comincia a scaldare i motori. Primo classico della serata, la “solita” versione” gagliarda di Blue Jean Blues degli ZZ Top, uno dei cavalli di battaglia di Healey, che comincia a far volare le dita sul fretboard della sua chitarra, sentita decine di volte, ma sempre bellissima https://www.youtube.com/watch?v=PUGoeTePdWE . A seguire una bella versione di I Think I Love You Too Much, brano scritto da Mark Knopfler, ma eseguito per la prima volta dallo stesso Jeff,  e poi un altro brano da Feel This, la poco conosciuta Heart Of An Angel, di nuovo con le coriste in bella evidenza e una solida grinta rock-blues nell’esecuzione, con Healey che gigioneggia alla solista da quel consumato performer che è stato.

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That’s What They Say era sul primo album, una bella ballata, solo voce e chitarra acustica, seguita dall’ultimo brano tratto da Feel This, You’re Comin’ Home, altra romantica canzone d’amore eseguita in versione acustica, con la band. L’immancabile Angel Eyes, l’ultima della parte unplugged del concerto, è il bellissimo brano scritto da John Hiatt, e non manca di emozionare, con Healey che conferma una volta di più le sue doti di cantante https://www.youtube.com/watch?v=5Bp-m5JfxYg . Ma con la chitarra elettrica è una vera potenza, prima una devastante cover del pezzo dei Doors, quella Roadhouse Blues che era nella colonna sonora del film omonimo https://www.youtube.com/watch?v=ybnxD1tJUNA  e poi una lunghissima versione, oltre dieci minuti, del brano più bello scritto da Jeff Healey, See The Light, con un wah-wah hendrixiano devastante e tutta la band in spolvero https://www.youtube.com/watch?v=LqwsDwqbUVw . Negli encores, prima un altro classico come While My Guitar Gently Weeps, che Jeff aveva inciso con la presenza del suo autore, George Harrison, nell’album Hell To pay, a conferma della stima di cui godeva presso i colleghi musicisti. Il secondo bis e chicca della serata è una rara versione di The Thrill Is Gone, il brano più celebre di BB King, con Jeff Healey ispiratissimo alla sua solista in questo must del Blues  https://www.youtube.com/watch?v=QHP-_bEzSvE . Un’altra bella serata per un grande musicista!

Bruno Conti

L’Ex Pugile Ancora Una Volta Sul Ring Della Musica! Paul Thorn – Too Blessed To Be Stressed

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Paul Thorn – Too Blessed To Be Stressed – Perpetual Obscurity/Blue Rose/IRD

Ci sono storie che vale la pena raccontare, quella di Paul Thorn parla da sola e se ne potrebbe trarre un romanzo. Nativo di Tupelo, Mississippi (non un luogo qualunque nella grande storia del rock’n’roll, li è nato un certo Elvis Presley). Figlio di un pastore protestante, Paul comincia fin da piccolo a cantare nella chiesa di famiglia, cresce a pane e musica e fin dalla tenera età di dodici anni comincia anche a prendere lezioni di boxe da suo zio, e dopo una lunga gavetta prende sul serio la carriera di pugile, che lo porta addirittura nel lontano ’87 a sfidare in diretta televisiva il campione del mondo Roberto Duran (conosciuto anche come “mano di pietra”). Come sia andata a finire è facilmente immaginabile, la sonora sconfitta rimediata lo fa tornare di corsa al suo primo amore, la musica, e tra un pugno e l’altro trova il tempo negli anni a seguire di incidere una mezza dozzina di dischi di buona fattura, a partire dall’esordio con Hammer And Nail (97) a cui faranno seguito Ain’t Love Strange (99), Mission Temple Fireworks Stand (02), Are You With Me? (04), A Long Way From Tupelo (08), Pimps And Preachers (10) http://discoclub.myblog.it/2011/02/25/temp-8321917b0bce057cb280fea99f41838b/  e What The Hell Is Goin’ On? (12), un disco di sole “cover”, andando a pescare autori di riferimento come Allen Toussaint, Rick Danko, Paul Rodgers dei Free, Ray Wylie Hubbard, Buddy Miller e il Buckingham dei Fleetwood Mac.

In questo Too Blessed To Be Stressed, Thorn scrive tutti i brani con il fidato Billy Maddox, avvalendosi di “sessionmen” di esperienza e qualità come Bill Hinds alle chitarre, Jeffrey Perkins alla batteria, Ralph Friedrichsen al basso, Michael Graham alle tastiere, e come coriste Deluxe le bravissime McCrary Sisters, che danno un buon contributo a tutto il lavoro.

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Le prime due riprese (o brani, se preferite) Everything’s Gonna Be Alright https://www.youtube.com/watch?v=Ppf2vogP4os  e Too Blessed To Be Stressed, sono di riscaldamento, ma già al terzo round Paul mette a segno un bel montante con una Everybody Needs Somebody dal ritornello accattivante https://www.youtube.com/watch?v=-vH8vZCwQkg , a cui fa seguire un perfetto colpo ai fianchi con il country di I Backslide On Friday, rifiatando alla grande con il soul-blues di This Is A Real Goodbye, con un bel lavoro al suo angolo di Michael Graham al piano. La sesta ripresa viene affrontata spavaldamente con l’andamento rock di Mediocrity Is King, mentre il “round” successivo Don’t Let Nobody Rob You Of Your Joy è di studio, prima di scatenarsi con la “cover” di Carlo Ditta (noto produttore di New Orleans, anche del grande Willy Deville), un gospel Get You A Healin’ dal sapore delizioso di Lousiana https://www.youtube.com/watch?v=3VVev3uouEA . Le ultime riprese sono di contenimento con il southern blues di annata Old Stray Dogs & Jesus, l’anima rock soul di una coinvolgente What Kind Of Roof Do You Live Under, concludendo l’incontro, vincendo ampiamente ai punti, con una grandissima ballata No Place I’d Rather Be, splendidamente suonata e cantata, dotata di una raffinata melodia degna del miglior John Hiatt. Gong!

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Nonostante i pugni presi in carriera, Paul Thorn non è affatto uno “suonato”, sa come disimpegnarsi nelle proprie canzoni, scrive brani che fanno vibrare, ballate toccanti, rhythm’n blues e qualche accenno di “roots”, da parte di un “boxeur” (fortunatamente) mancato, dotato di un talento musicale non tanto comune, con una storia da “saga americana” alle spalle, che aspetta solo di essere sceneggiata.

Tino Montanari

*NDB. Il disco era già uscito ad agosto per la propria etichetta Perpetual Obscurity, ed anticipato nella rubrica delle novità mensili, ora viene pubblicato in Europa dalla Blue Rose, distribuita in Italia dalla IRD, e rimane sempre un ottimo album, come avete appena letto qui sopra!

C’è, Ma Non Si Vede, Ancora Ottimo Gospel Rock Per Ashley Cleveland – Beauty In The Curve

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Ashley Cleveland – Beauty In The Curve – 204 Records CD/Download

Una premessa, questo disco non è recentissimo in quanto la prima apparizione seppur “teorica” nelle discografie risale al 2012, ma mi permette di avere l’opportunità di parlarvi di una bravissima cantante, non più giovanissima (è del 1957),  che raggiunse una prima volta gli onori della cronaca musicale con un folgorante esordio, Big Town, Pubblicato dalla Atlantic nel lontano ’91, sicuramente non un capolavoro ma una onesta prova di sano rock, dove si evidenziava la compattezza del gruppo (di allora), e la sua splendida e potente voce http://www.youtube.com/watch?v=zkXlCjuiRfg . Quindi direi che due notizie sulla signora per inquadrarne il personaggio sono d’uopo: originaria di Knoxville, Tennessee, Ashley Cleveland si è formata musicalmente come cantante ed autrice in California, e dopo aver lavorato nei locali della Bay-area e purtroppo non intravedendo prospettive per la sua carriera, si è stabilita in quel di Nashville, dove, pur non essendo una country singer, iniziò a lavorare nei club, nei locali e nel circuito dei “colleges”. Di questo talento emergente, capace di amalgamare nella sua musica il rock, il folk, il gospel e del southern-blues, esprimendoli attraverso una non comune personalità musicale (sentitevi questa Gimme Shelter  http://www.youtube.com/watch?v=JdGG6CC_NTY ), si accorgono ai tempi Craig Krampf e Niko Bolas (produttori in coppia dell’esordio di un’altra grande scoperta del cantautorato Usa, Melissa Etheridge, e il secondo, spesso collaboratore di Neil Young), facendola entrare nel giro delle coriste di Nashville, nobilitando con la sua voce lavori di artisti noti come John Hiatt (in Stolen Moments http://www.youtube.com/watch?v=fw5VCDRE0GQ, Emmylou Harris, James McMurtry, Patti Smith e altri, con la conseguenza che le sue canzoni vengono sempre più apprezzate da musicisti ed addetti ai lavori.

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Rotto il ghiaccio con il sopracitato esordio, incide album di buona fattura come Bus Named Desire (93), Lesson Of Love (95), quando viene premiata con un primo Grammy nella categoria Best Rock Gospel, You Are There (98), ancora un Grammy, e dopo un periodo non fortunato, anche per problemi di alcolismo e droga, a seguito di gravidanze non pianificate, “sorella” Ashley si avvicina al cristianesimo, facendo seguire negli anni vari dischi con testi a sfondo religioso a partire da Second Skin (02), Men And Angels Say (05), Before The Daylight’s Shot (06),terzo Grammy e God Don’t Never Change (09) con cui riceve la quarta nomination ai Grammy, fino ad arrivare a questo ultimo Beauty In The Curve con la produzione e gli arrangiamenti curati dal compagno Kenny Greenberg. Recentemente ha anche partecipato alle sessions dell’ultimo album di Mary Gauthier, di cui potete leggere in altre pagine del Blog http://discoclub.myblog.it/2014/07/30/ripassi-le-vacanze-sempre-la-solita-mary-gauthier-trouble-and-love/.

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Tra i musicisti che accompagnano Ashley in questa “novena” musicale, oltre al marito Kenny che suona le chitarre, il basso e la pedal steel, troviamo Chad Cromwell alla batteria, Tim Lauer alle tastiere, Reese Wynans all’Hammond B3, Eric Darken alle percussioni e alla batteria, Michael Rhodes al basso, e come ospite il grande cantautore Pat McLaughlin, sia alla chitarra che alla voce, oltre al fondamentale apporto dei vocalist di supporto, Gayle Mayes-Stuart, Perry Coleman e Angela Primm. Si parte “duro” con l’iniziale chitarristica Heaven e la batteria sincopata di City On A Hill, passando per il gospel di Walk In Jerusalem e la ballata acustica Honey House, dove si risente con piacere la calda voce di Ashley. Con Beautiful Boy si viaggia verso sonorità più “bluesy”, mentre Born To Preach The Gospel è  chiara nelle sue intenzioni fin dal titolo; a seguire troviamo ancora le “atmosfere di fratellanza” di Jesus In The Sky e Thief At The Door http://www.youtube.com/watch?v=lOymaJpjc1M . La pedal-steel di Kenny è il supporto principale nella splendida title track Beauty In The Curve http://www.youtube.com/watch?v=671qyLLMs1E , seguita dalla accorata Little Black Sheep (che è anche il titolo del suo libro autobiografico, edito nel 2013), una dolce preghiera accompagnata solo dalla chitarra e la voce di Ashley http://www.youtube.com/watch?v=8zx452YD_mc , andando a chiudere questo “bel sermone” con uno spiritual dal titolo lunghissimo, Woke Up This Morning With My Mind On Jesus, dove si estrinseca di nuovo una bellezza celestiale che è pari alla bravura della Cleveland. Amen!

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Adesso questa signora vive in quel di Nashville con i tre figli (Rebecca, Henry, Lily), viaggia verso i sessanta, ma riascoltando in questi giorni il disco d’esordio Big Town  (91), posso affermare che non ha perso una briciola della grinta e le qualità di interprete e autrice, sostenute attraverso una non comune personalità musicale ed una voce unica per potenza (sentire che versione di You Gotta Move http://www.youtube.com/watch?v=gx1R5N4TRec ), difficile da riscontrare nelle cantanti dell’ultima generazione (con le eccezioni di Dana Fuchs e Bert Hart). Intendiamoci, la Cleveland non propone nulla di nuovo, fa solo la sua parte, e per chi scrive la fa dannatamente bene, quindi vi consiglio caldamente di andare alla ricerca dei suoi dischi (a parte questo, disponibile solo suo sito http://www.ashleycleveland.com/, alcuni altri si trovano a cifre interessanti on-line), male che vada avrete le preghiere di “sorella” Ashley.

Tino Montanari

Può Essere Rude, Ma Anche Tenero! John Hiatt – Terms Of My Surrender

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John Hiatt – Terms Of My Surrender – New West

“Posso essere rude, alcune volte posso essere tenero”, lo dice lo stesso John Hiatt nella title track di questo suo nuovo album, Terms Of My Surrender, ma lo dicono anche la sua carriera e i suoi dischi: ultimamente era stato più rude, cattivo, elettrico, scegliete voi il termine nei due CD precedenti ( http://discoclub.myblog.it/2012/08/26/il-disco-e-sempre-bello-come-al-solito-ma-cosa-diavolo-e-un/ e http://discoclub.myblog.it/2011/08/10/e-intanto-john-hiatt-non-sbaglia-un-colpo-dirty-jeans-and-mu/), quelli prodotti da Kevin Shirley, che a qualcuno erano piaciuti parecchio (ad esempio a chi scrive, come potete leggere nei Post linkati qui sopra), ad altri meno, c’era chi li aveva trovati troppo rock o troppo levigati, “leccati” perfino, ma nessuno aveva negato la magia che spesso si sprigionava dalle sue canzoni, oggi come ieri. Per uno con ventidue album di studio, varie antologie (http://discoclub.myblog.it/2013/11/13/il-meglio-di-uno-dei-migliori-john-hiatt-here-to-stay-the-be/) e live, alle spalle, non è facile trovare sempre qualcosa di nuovo da dire e farlo bene, comunque il nostro amico ci riesce spesso. Questa volta si parla di un album “blues acustico”. Prego? Ma fatto alla Hiatt!  Ah, bene, allora ci siamo. Il suo chitarrista degli ultimi album, Doug Lancio, dopo un primo approccio “elettrico”, lo aveva sfidato a fare un album acustico, “blues oriented” come dicono gli americani, registrato dal vivo, in presa diretta, in studio. E così è stato fatto, con l’aiuto della sua band abituale, nell’ultima versione: oltre a Lancio, chitarre acustiche (ma anche elettriche), banjo e mandolino, nonché produttore del disco, lo storico batterista Kenneth Blevins, e gli ultimi arrivati, Nathan Gehri, al basso e Jon Coleman alle tastiere, più le “interessanti” armonie vocali di Brandon Young, un cantante emergente dell’area di Nashville. Undici nuove canzoni che esplorano i pregi e i difetti del diventare vecchi, troppo? Diciamo anziani, anche se un brano si chiama appunto Old people.

Ovviamente Hiatt lo fa con lo humor e l’ironia, persino il sarcasmo, che non gli hanno mai fatto difetto, ma anche con una certa partecipazione verso questi “strani personaggi”, che ormai sono quasi suoi coetanei (quasi, in fondo ha “solo” 62 anni, se la salute lo sorregge, ancora una vita davanti). Lui dice che la voce non è più quella di un tempo, ha perso qualche tonalità nei registri più alti, ma è sempre quella “solita” voce ruvida, grezza, spesso anche tenera (come le canzoni), una delle migliori in circolazione, le canzoni sono belle, c’è molto blues, sempre according to John Hiatt (in fondo anche Dylan, Mellencamp, Springsteen, Petty e compagnia cantante, ogni tanto fanno Blues), forse accentuato in questo caso dalla presenza dell’armonica, che riappare in un paio di brani, dopo una lunga latitanza. Ma a ben guardare è un tema musicale che aveva già affrontato ai tempi di Crossing Muddy Waters. In ogni caso, ve lo dico subito, il disco è bello, per cui “rassegnatevi”, se non avete già provveduto, il disco è uscito il 15 luglio, bisognerà comprare anche questo. Vediamo le canzoni nel dettaglio.

Il disco parte con Long Time Comin’. un brano che inizia acustico, ma poi entrano le tastiere, la sezione ritmica, la chitarra slide di Lancio e il brano si trasforma, nella parte centrale, in una delle sue classiche ballate, con quella voce rotta da mille battaglie ma sempre solida e ben contrappuntata da quella di Brandon Young. In Face Of God, un bel blues acustico, con la ritmica appena accennata e discreta, ma comunque presente, come la sua armonica e il mandolino di Lancio, Hiatt ci racconta della perenne lotta tra Dio e il diavolo, il bene e il male. Marlene è una bellissima e dolce canzone d’amore , una di quelle che solo John sa scrivere, in bilico tra folk, accenni caraibici e il suono laidback del grande JJ Cale, la solita piccola delizia destinata agli ammiratori del cantante dell’Indiana, ma cittadino di Nashville, ormai da lunga pezza. Sulle note di un banjo, pizzicato dal multiforme Doug Lancio, si apre Wind Don’t Have To Hurry, brano che poi si trasforma in un pezzo dalla struttura più rock, anche se il continuo e reiterato na-na-na intonato insieme ad una voce femminile (forse la figlia Lilly? ma non mi sembra) alla fine testa la pazienza dell’ascoltatore. Nobody Kwew His Name, il racconto di un veterano del Vietnam, ha il fascino delle migliori canzoni di Hiatt, con il contrappunto ancora di una matura voce femminile, si snoda tra le evoluzioni di una slide, questa volta acustica, il solito mandolino, un piano appena accennato, il tocco delicato della batteria di Blevins, la voce complice e vissuta che fa vivere la storia.

Baby’s Gonna Kick, con la sua citazione di John Lee Hooker, l’armonica torrida e bluesatissima, la slide d’ordinanza, è uno dei brani più vicini alle dodici battute classiche, sempre rivisitate attraverso l’ottica di John, ma anche decisamente canoniche. Ancora blues, più cadenzato, per Nothin’ I Love, parte solo voce e chitarra acustica, poi entra l’organo e il resto della band e il brano diventa più elettrico con la solista che rilascia un bel assolo. Terms Of My Surrender, oltre a contenere il verso che ho citato all’inizio, è una ballata old time, di quelle che si facevano una volta, con Hiatt che si cimenta, qui è la, anche in uno spericolato falsetto (ce la fa, ce la fa), coretti vicini al doo wop, chitarra elettrica jazzata e un’andatura quasi indolente, dove ci racconta della sua (quasi) resa allo scorrere del tempo. Mentre il fuoco di una passione d’amore irrequieta incendia le note di una Here To Stay che era già presente in un altra versione, più rock e con Bonamassa alla chitarra, nel Best dello scorso anno, questa versione ha quasi degli accenti gospel, rallentata, con un arrangiamento completamente diverso, il manuale del buon cantautore insegna che una bella canzone si può usare più volte, quindi era giusto farla sentire anche a chi non si era comprato la raccolta, sia pure sotto una forma diversa.

Old People è una simpatica, ironica e anche un filo crudele parodia di quei tipi, “i vecchi”, quelli invadenti, che spingono nelle file per passarti davanti, sono un po’ come i bambini, però sanno quello che vogliono, anche se invecchiare non è bello bisogna prepararsi, la canzone cerca di darci alcune istruzioni su come comportarci con “loro”, quei tipi strani, e anche se il brano non è forse tra i migliori dell’album ha quel sarcasmo insito che Randy Newman aveva dedicato ai “tipi bassi” (per essere politically correct bisognerebbe dire diversamente alti o, nel caso in questione, diversamente giovani), comunque il pezzo è divertente https://www.youtube.com/watch?v=oHIpM0_SJEA , una sorta di folk-blues corale e vagamente valzerato che fa da preludio alla canzone che chiude questo album, una Come Back Home che ha tutti gli elementi tipici di un brano di Hiatt, intro di chitarra acustica, poi arriva il piano, il resto del gruppo segue e la canzone si sviluppa sulle ali della voce glabra e ruvida di John, ma poi, sorpresa, quando cominci ad appassionarti, è già finita, peccato, comunque bella. Come tutto l’album peraltro: probabilmente John Hiatt non ci regalerà più un Bring The Family, ma possiamo sempre sperare in un Time Out Of Mind o in un Tempest, per il momento “accontentiamoci” dei suoi album della maturità, d’altronde da un anziano (il baffetto aiuta, vedi foto) cosa possiamo aspettarci (!), comunque rispetto a molto di quello che circola attualmente in ambito musicale, qui ci va sempre di lusso e infatti il disco è entrato, come il precedente, nei Top 50 della classifica di Billboard, speriamo che questo gli procurerà una vecchiaia priva di patemi!

Bruno Conti

Prossimamente Su Questo Blog: Tom Petty, Eric Clapton, Young Dubliners, Jenny Lewis, John Hiatt, Mary Gauthier, Allman Brothers & More To Come

tom petty hypnotic eye

Oggi, una sorta di prossimamente, quello che leggerete nei prossimi giorni e nelle prossime settimane, non si chiude per ferie (così mi obbligo a scrivere delle ultime uscite, finito il compito per il Buscadero, la rivista dove scrivo abitualmente, e che vi invito a leggere), un misto delle prossime novità, ad esempio Tom Petty Hypnotic Eye, che vedete qui sopra e il nuovo della Jenny Lewis The Voyager

jenny lewis the voyager

Eric Clapton & Friends e il box degli Allman Brothers, The 1971 Fillmore Recordings, tutti in uscita, martedì prossimo 29 luglio

eric clapton & friends call me the breeze

allman brothers band fillmore east recordings box 6 cd

E ancora il nuovo degli Young Dubliners Nine, e Pitiful Blues di Malcolm Holcombe di cui vi parlerà Tino

young dubliners nine

malcolm holcombe pitful blues

E a seguire, in una sorta di rubrica ad hoc, “Ripassi per le vacanze”, qualche titolo uscito di recente, ma non solo, che per vari motivi era scappato, tipo il nuovo John Hiatt Terms Of My Surrender e Mary Gauthier Trouble & Love

john hiatt terms of my surrender

mary gauthier trouble

E altri titoli, l’ultimo dei Phish Fuego, i moe No Guts No Glory, i due nuovi titoli di Guy Forsyth, quello di Elvin Bishop su Alligator Can’t Even Do Wrong Right, alcuni titoli di gruppi e solisti italiani emergenti, sconosciuti ai più ma validi, tipo I Viaggi di Jules e Carlo Ozzella & Barbablues. Oltre a molti altri titoli che stazionano da tempo in (dis)ordinate pile di fianco al PC, o in file più ordinati all’interno dello stesso. Per non dire di alcuni titoli, tipo il nuovo Joe Bonamassa Different Shades Of Blue (esatto, un altro!), di cui non vi posso parlare, perché uscirà solo il 23 settembre: che è bello, posso anticiparlo o lo strepitoso doppio dal vivo dei Blackberry Smoke Leave A Scar.

joe bonamassa different shades blackberry smoke leave a scar

Di molti altri titoli, noti e meno noti, avete letto puntualmente, rimanete “sintonizzati” con il Blog e, nei limiti del possibile, sarete informati sulle cose più valide ed interessanti in uscita, ad insindacabile giudizio del titolare del Blog e dei suoi collaboratori. Nel caso qualcosa di interessante sfugga potete segnalarlo nei commenti e magari, ove possibile e tempo permettendo, si cercherà di parlare anche di quello.

E’ tutto, a domani.

Bruno Conti

Peccato Sia L’ultimo! R.I.P. Jeff Strahan – Monkey Around

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Jeff Strahan – Monkey Around – Squaw Peaks Records

La stella del Texas sarà sicuramente più solitaria dopo la morte di Jeff Strahan, avvenuta il 15 gennaio del 2014, anche se pare fosse malato già da qualche tempo. Ottimo musicista Blues dalle profonde radici sudiste, per ricordarlo, come ci dice la moglie dalle pagine del suo sito http://www.jeffstrahan.com/ , invece di fiori comprate uno o due dei suoi CD, ne vale certamente la pena. Certo, lo scheletro con la chitarra, che era il suo logo ed appariva sulla copertina degli ultimi tre dischi (incluso un doppio live registrato al Sealy Flats, un locale di San Angelo, Texas, dove spesso si esibiva), questo logo, a posteriori potrebbe sembrare fuori luogo, ma faceva parte del suo modo, a tratti irriverente, di vedere la musica https://www.youtube.com/watch?v=hTjEiZ2TUgw .

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Parliamo di questo disco, Monkey Around, uscito già da qualche mese, ma non di facile reperibilità, anche per onorare la memoria di questo musicista, sicuramente minore ma di buona caratura, un ex avvocato prestato alla musica (o più probabilmente viceversa), che nel corso degli anni ha saputo costruirsi una buona reputazione tra gli appassionati, con una serie di album di ottimo valore. Strahan ha sempre ondeggiato nella sua musica tra un blues texano di chiara derivazione Stevie Ray Vaughan (di cui era considerato uno dei tanti “eredi) e un suono più composito, ricco di tratti soul e cantautorali https://www.youtube.com/watch?v=vLxH0p52gtw , con rimandi alla musica di Delbert McClinton e la produzione, per esempio, di Walt Wilkins in Wayward Son, un disco dove la musica roots ha un suo perché.

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In questo ultimo capitolo della sua discografia ci sono pure chiari rimandi al southern rock classico, peraltro sempre presente nelle sue influenze musicali: addirittura la bellissima Don’t Get Too Low, posta in apertura del CD, potrebbe essere una traccia perduta della Marshall Tucker Band di Searchin’ For a Rainbow, con la chitarra di Strahan che ricorda moltissimo nel timbro quella del compianto Toy Caldwell, senza dimenticare gli inserti di piano e organo (suonati sempre da Jeff) che aumentano la quota sudista del brano https://www.youtube.com/watch?v=93iAnkB13_8 . Fosse tutto l’album su questo livello sarebbe stato un canto del cigno formidabile, ma comunque l’album ha una sua validità, incentrata sulle scorribande chitarristiche di Strahan, che era un solista di rara versatilità, capace di passare dallo slow-blues intensissimo di Curtains al suono più cattivo e sporco di Dangerous Curves, sempre però con le tastiere a dare un tocco alla Allman alla costruzione dei brani. La breve Monkey Round è un conciso rock-blues dove voce e chitarra viaggiano all’unisono, nella migliore tradizione del sound anni ’70, chitarra vagamente alla Alvin Lee e ritmica che si diverte con i cliché del genere.

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The One è una struggente ballata, solo voce e piano, che ricorda quelle di John Hiatt, anche se Strahan non ha quella potenza vocale, il pathos che emana da questo brano, conoscendo il suo destino, commuove veramente. Ma niente paura per i chitarromani, perché il nostro amico riallaccia subito i legami con il rock più grintoso, in una Can’t Change Me dove il piano elettrico aggiunge un tocco di inconsueta raffinatezza alla costruzione del brano e la chitarra viaggia senza freni. Hard Headed Woman, l’unica cover, è un veloce shuffle chitarra-organo che porta la firma di Lil’ Dave Thompson, un musicista minore proveniente dall’area del Mississippi, mentre 4:20, tra soul, R&B e blues, con i suoi continui cambi di tempo, ricorda certe cose del citato Delbert McClinton. Baptist Bootleggers con un bel groove ritmico e un pianino insinuante ha ancora quella tipica andatura della migliore musica texana, come la precedente traccia. Nuovamente soul e blues miscelati per la conclusiva Two Shades, una canzone che porta alla luce le migliori influenze della musica di Jeff Strahan e che nel finale funky, con un wah-wah inconsueto, aggiunge anche elementi di New Orleans. Peccato sia l’ultimo, R.I.P.!

Bruno Conti

Musica Di “Peso”, Non Fate Caso Al Titolo Del CD! Matt Andersen – Weightless

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Matt Andersen – Weightless – High Romance/True North/Ird

A giudicare dal titolo e dalla piuma che svolazza senza peso, Weightless, sulla copertina del disco, uno non potrebbe neppure immaginare che siamo di fronte ad una “personcina” che ha più il peso e le dimensioni di un Popa Chubby. Ma il talento, in questo caso, non è inversamente proporzionale: ogni etto contiene talento a profusione! Presentato sullo sticker della copertina come vincitore dell’European Blues Award e dell’International Blues Challenge uno si aspetterebbe un disco sulla falsariga di un Duke Robillard, un Matt Schofield, un Johnny Lang. Ma in effetti, anche se il Blues è presente, sarebbe come dire che i Jethro Tull sono una band di heavy metal? Come dite? Ah, gli hanno dato un Grammy proprio per quello! Strano.

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Se dovessi definire lo stile di Matt Andersen. ottimo musicista canadese mi riferirei a gente come John Hiatt, il primo Joe Cocker, il Clapton influenzato da Delaney & Bonnie, la Band. Tutta musica buona: non per nulla il disco è stato prodotto dall’ex Blasters e Los Lobos, Steve Berlin, registrato ad Halifax, nella Nova Scotia canadese, i fiati (elemento integrante del sound) sono stati aggiunti ad Austin, Texas, mixato a Newbury Park, in California e masterizzato da Hank Williams (giuro, non III o Jr.!), in quel di Nashville, Tennessee, Se dovessi sintetizzare, gran bel disco, canzoni notevoli, splendida voce, ottimi musicisti. E qui, se volete, potete smettere di leggere, ma conoscendomi, sapete che non posso esimermi dall’elaborarne un po’ i contenuti, per cui vediamo cosa stiamo per ascoltare, anche se il consiglio sentito è di acquistare questo album https://www.youtube.com/watch?v=SqZtVvziHJA .

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Dodici brani, tutti firmati dallo stesso Matt Andersen, quasi sempre con diversi parolieri e musicisti, uno migliore dell’altro: oltre alla produzione di Berlin il CD si avvale anche del decisivo lavoro del chitarrista Paul Rigby (quello dei dischi di Neko Case). Questo è l’ottavo album di Andersen, già il precedente Coal Mining Blues, prodotto da Colin Linden, era un bel disco https://www.youtube.com/watch?v=unh4gbcanoI , ma in questo Weightless la qualità migliora ancora, prendete la canzone d’apertura, I Lost My Way, un brano che mescola il meglio di Steve Winwood, John Hiatt e Delbert McClinton, un filo di Joe Cocker, la chitarra lavoratissima di Rigby, una sezione fiati che aggiunge pepe al brano, le vocalist di supporto, guidate da Amy Helm, che donano una patina soul à la Band, un’aria rootsy-rock che ricorda anche le mid-tempo ballads del Marc Cohn più ispirato, tanto per non fare nomi https://www.youtube.com/watch?v=GC8jw0LM_z0 .

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My Last Day prosegue con questo groove rilassato ed avvolgente, anche le tastiere si fanno sentire, il cantato è sempre delizioso, una voce avvolgente che ti culla e ti scuote al contempo, sembra di essere in quel di Memphis per qualche session dei tempi che furono, una meraviglia https://www.youtube.com/watch?v=WKbht9nKFKI . Paul Rigby, ha un sound chitarristico inconsueto ma affascinante e tutti i musicisti sono al servizio delle canzoni e non viceversa, come ogni tanto accade. Anche So Easy, con una bella intro di chitarra acustica, ruota intorno alla voce espressiva di Andersen, qui ancora più suadente ed emozionante, e alla pedal steel incisiva di Rigby, che sorpresa, un cantante che sa esporre i suoi sentimenti attraverso la voce senza dovere urlare come un ossesso https://www.youtube.com/watch?v=tNEC6NVDRd4 . Per Weightless tornano i fiati e le voci femminili di supporto, il suono è tra la Band più soul e gli Stones di Honky Tonk Women, qui Matt lascia andare un po’ di più la voce e l’amico Mike Stevens aggiunge un gagliardo assolo di armonica. Alberta Gold è un’altra gioiosa ode ai grandi cantautori degli anni ’70, mossa e ritmata, con Rigby sempre magico alla chitarra https://www.youtube.com/watch?v=ek1-swOBYfY , Let’s Go To Bed viceversa è un gioiellino elettroacustico, molto intimista, “canadese” se vale come aggettivo, sempre con la voce sugli scudi e la chitarra che lavora di fino sullo sfondo.

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The Fight ha un attacco molto pettyano, acustica e organo in evidenza, Berlin al piano (?!), l’elettrica minacciosa subito in primo piano, ma il brano prende quota quando la voce e la chitarra acquistano grinta e stamina per un crescendo entusiasmante, bellissima canzone. Drift away, nuovamente dolce e tranquilla, potrebbe ricordare l’Hiatt più bucolico, ma è solo l’impressione di chi scrive, potete sostituire con chi volete, solo gente brava mi raccomando! Ottima anche Let You Down, dove un mandolino, le armonie vocali avvolgenti e il lavoro di fino del batterista Geoff Arsenault, potrebbero ricordare ancora la Band, ma anche il sound del primo album di Bruce Hornsby, esatto, così bello. Un po’ di country-rock-blues per City Of Dreams, una fantastica ballata tra soul e Cooder, Between The Lines, con la slide di Rigby perfetta, e la conclusione con l‘errebì rauco di What Will You Leave. Cosa volere di più?

Bruno Conti

Il Meglio Di Uno Dei Migliori! John Hiatt – Here To Stay: The Best Of 2000-2012

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John Hiatt – Here To Stay – Best of 2000 -2012 New West Records

Penso che esistano almeno una decina di raccolte dedicate a John Hiatt, non le ho contate esattamente, forse anche di più, oltre a parecchi dischi dal vivo e tributi vari. E ogni casa discografica ha dedicato un suo Best of al periodo in cui Hiatt incideva per loro: la Epic nella preistoria, poi la MCA-Geffen, il lungo periodo con la A&M e infine la Capitol. E’ uscita anche qualche antologia multi-label e delle raccolte con inediti e rarità. Mancherebbe qualcosa relativo al periodo Vanguard, ma visto che i due album sono stati ristampati dalla New West, appaiono in questo Here To Stay, il titolo del disco non solo un incitazione a rimanere, ma anche quello dell’unica canzone inedita inserita nella raccolta, una canzone che vede la partecipazione di Joe Bonamassa alla solista, sia in considerazione del fatto che il buon Joe non resiste ad un invito, sia perché da qualche anno condividono lo stesso produttore, ovvero Kevin Shirley.

Sia di produttori che di chitarristi Hiatt ne ha avuti di ottimi in questi anni 2000 (e anche prima), oltre a Shirley, Jay Joyce, Don Smith e Jim Dickinson tra i primi e Sonny Landreth, Luther Dickinson e Doug Lancio, nel reparto chitarre, oltre all’ottimo David Immergluck, presente nel disco che apre questa carrellata sui “migliori” brani che compongono la raccolta, Crossing Muddy Waters. Il disco, giustamente, si chiama Best of e non Greatest Hits, perché Hiatt nel corso degli anni di successi, purtroppo, ne ha avuti veramente pochi, pensate che il disco con il miglior piazzamento in classica è proprio l’ultimo, Mystic Pinball, arrivato “ben” al 39° posto della classifica di Billboard. Se ci leggete della amara ironia non vi sbagliate, per fortuna che la critica e i colleghi lo hanno sempre considerato, giustamente, uno dei migliori cantautori che abbia graziato la faccia di questo pianeta negli ultimi 40 anni. Genere: rock, folk, country, blues, roots, Americana? Scegliete voi, un po’ di tutti questi e molto altro, forse buona musica può andare? Per chi ama John Hiatt, forse, questa antologia è superflua (il pensiero di comprarsi un CD per un brano è duro, potevano fare uno sforzo, magari un bel doppio con un live in omaggio), ma per chi non ha nulla o vive di raccolte, potrebbe essere l’occasione di ampliare il proprio panorama sonoro, se ci state pensando non è una cattiva idea, musica così buona ne fanno poca in giro. Tra l’altro il nostro amico, in Italia, è conosciuto, dal grande pubblico, per una canzone, Have A Little Faith, che era contenuta nello spot di una nota marca di budini, oltre tutto sotto forma di cover, che non rendeva neppure un decimo della bellezza di quella straordinaria canzone.

Tornando a bomba, ossia a questa antologia, direi che i compilatori sono stati molto democratici, due brani per ognuno degli otto album che coprono il periodo 2000-2012, prolifico come sempre per Hiatt e ricco di belle canzoni, come ricorda il giornalista americano Bud Scoppa (ma che scrive per la rivista inglese Uncut), nelle interessanti note del corposo libretto che accompagna il CD: si parte con il suono acustico, volutamente scarno di Crossing Muddy Waters, rappresentato dalla raffinata e dolce title-track oltre che dalla grintosa e tirata Lift Up Every Stone, dove il mandolino e la chitarra di Immergluck, uniti al basso di Davey Faragher, disegnano traiettorie blues, mai disdegnate da John Hiatt, anche nel passato. Per il successivo The Tiki Bar Is Open il boss riuniva i grandissimi Goners, con Kenneth Blevins alla batteria e Dave Ranson, al basso, nonché il ritorno del mago della chitarra slide, Sonny Landreth, tutti eccellenti nella ballata My Old Friend, dove Hiatt sfodera anche una armonica d’annata, oltre all’utilizzo delle tastiere, affidate al produttore Jay Joyce e allo stesso Hiatt, Everybody Went Low è uno dei tanti capolavori scritti nel corso di una carriera prodigiosa con un Landreth devastante.

Cambio di etichetta per il successivo Beneath This Gruff Exterior, dalla Vanguard alla New West, ma i musicisti rimangono i Goners, produce Don Smith, i brani scelti sono My Baby Blue e Circle Back, due robusti pezzi rock, da riscoprire. Da Master Of Disaster, altro disco gagliardo da riascoltare, con babbo Dickinson alla produzione e i figli Cody e Luther, batteria e chitarra, oltre a David Hood al basso, per una title-track, anche questa volta tra le cose migliori della sua carriera, molte volte “coverizzata”.  Same Old Man, altro signor album, con il ritorno di Blevins e l’arrivo di Patrick O’Hearn al basso, oltre a Luther che rimane alla chitarra, la figlia Lily alle armonie, una produzione “semplice” a cura dello stesso Hiatt, e due ballate di una bellezza sopraffina come Love You Again e What Love Can Do.

Nel successivo The Open Road arriva Doug Lancio, altro mostro della chitarra e si ritorna all’Hiatt rocker. Il gruppo, ironicamente, ora si chiama Ageless Beauties e inizia l’era Kevin Shirley, con due album bellissimi come Dirty Jeans & Mudslide Hymns, Damn This Town e Adios To California i brani scelti, e Mystic Pinballs, con l’ottima We’re Alright Now, classico Hiatt con Lancio grande alla slide e Blues Can’t Even Find, una delle canzoni più tristi (e più belle) del canone hiattiano. Anche Here To Stay, l’inedito, è un blues con Bonamassa alla slide che fa i numeri e non si capisce perché sia stato lasciato fuori da Dirty Jeans, ma adesso è qui, insieme alle altre 16 canzoni, a testimoniare la classe immensa di uno più bravi cantanti e autori (di culto) di sempre. Quattro stellette per le canzoni, mezza in meno per l’operazione commerciale, un inedito, si sono sforzati!

Bruno Conti