Degna Figlia Di Tanto Padre! Amy Helm – Didn’t It Rain

amy helm didn't it rain

Amy Helm – Didn’t It Rain – Entertainment One

Amy Helm (come è stato ricordato moltissime volte, ma ripetiamolo) è la figlia di Levon Helm e Libby Titus, due artisti e cantanti: uno, tra i più grandi prodotti dalla scena musicale americana, batterista e cantante con The Band, poi solista per lunghi anni, l’altra, meno nota, ha pubblicato un paio di dischi interessanti, entrambi omonimi, usciti nel ’68 e ’77, ma è famosa anche per essere stata, dopo la fine della storia con Helm, la compagna per qualche anno di Mac Rebennack Dr. John ed in seguito di Donald Fagen, che ha sposato nel 1993, dopo una breve convivenza. Quindi la musica ha sempre avuto una parte rilevante nella vita di Amy, nata nel 1970, negli anni migliori della carriera di Levon, ma poi cresciuta a contatto con alcuni musicisti tra i più geniali della storia del rock. Senza andarne a ricordare le carriere si direbbe che la loro influenza, soprattutto quella di Levon Helm, con cui Amy ha a lungo collaborato, soprattutto negli ultimi anni di vita del babbo, sia stata fondamentale nello sviluppo di un proprio percorso musicale: prima con le Ollabelle, grande piccola band, autrice di quattro piccoli gioellini sonori nella prima decade degli anni ’00, http://discoclub.myblog.it/2011/09/01/forse-non-imprescindibile-ma-sicuramente-molto-bello-ollabel/, poi, ma anche contemporaneamente, nelle varie formazioni del padre, Levon Helm Band, Dirt Farmer Band, Midnight Ramble Band, oltre ad una quantità di collaborazioni impressionanti con i migliori musicisti del settore roots, le più recenti con The Word, Larry Campbell e Teresa Williams, ma in precedenza anche con Rosanne Cash, David Bromberg, Blackie And The Rodeo Kings e mille altri, fino a risalire a Kamakiriad, il disco di Donald Fagen del 1993, la prima partecipazione importante, anche se il suo CV vanta puree la presenza, all’età di 10 anni, nel disco per bambini In Harmony dei Sesame Street, dove però erano coinvolti, oltre alla mamma Libby, Carly Simon James Taylor, Linda Ronstadt, Bette Midler, i Doobie Brothers.

Come la stessa Helm ha ricordato in una intervista, negli anni ’80 (un periodo in cui la musica di suo padre era stata quasi dimenticata) la giovane Amy ascoltava Lisa Lisa Cult Jam, Cameo e i Run D.M.C., anche se il padre le aveva già fatto conoscere la musica di Ray Charles e Muddy Waters, fino alla seconda metà degli anni ottanta non aveva mai sentito per intero un disco della Band finché la madre non le diede una cassetta di Music From Big Pink, che, nei continui ascolti sul bus che la portava al college di New York dove studiava, le cambiò la vita. Saltando di palo in frasca, dopo la morte di Levon, avvenuta nel 2012, la Helm è diventata anche la curatrice, con la collaborazione di Larry Campbell, degli studi di The Barn, sulle Catskill Mountains, il mitico luogo dove si svolgevano (e tuttora si svolgono) le leggendarie Midnight Rambles, l’ultima avvenuta nella primavera di quest’anno, pochi giorni dopo la scomparsa del cane di Levon, chiamato “Muddy”, in onore di voi sapete chi. Ma negli anni dal 2010, quando uscì l’ultimo disco delle Ollabelle, Amy Helm ha anche iniziato la registrazione del suo primo disco come solista, nei primi tempi ancora con la presenza di Levon Helm (alla batteria in tre pezzi dell’album) che gentilmente le concedeva grauitamente l’uso dei propri studi, e poi con l’aiuto del suo nuovo gruppo, gli Handsome Strangers, con i quali ha re-inciso parte dei brani contenuti in Didn’t It Rain, per ultilizzare la notevole bravura di questi musicisti (dal vivo sono bravissimi, come potete constatare nei vari video inseriti nel Post). Naturalmente i musicisti di talento si sprecano in questo CD, da Byron Isaacs, polistrumentista e produttore del disco, nonché compagno di avventura già negli Ollabelle, a Bill Payne e John Medeski alle tastiere, Larry Campbell, Chris Masterson e Jim Weider alle chitarre, Daniel Littleton, anche lui chitarrista di gran classe, e David Berger alla batteria, che sono gli Handsome Strangers, oltre alle armonie vocali di Allison Moorer, Elizabeth Mitchell e Teresa Williams, per non citare che alcuni dei tantissimi musicisti che hanno contribuito alla riuscita di questo album.

Che, diciamolo subito, è molto bello; a livello qualitativo siamo dalle parti delle ultime prove di Rosanne Cash o Lucinda Williams, forse un filo inferiore, ma di poco. Dodici brani, firmati per buona parte dalla stessa Amy Helm, in collaborazione con Isaacs e, in un paio, Littleton, più quattro cover, magari non celeberrime, ma di grande fascino, di cui tra un attimo. Diciamo che si è presa i suoi tempi per arrivare a questo esordio solista, pubblicato a 44 anni, tra la famiglia, la morte del padre, i suoi impegni vari, ma nei cinque anni durante i quali Didn’t It Rain ha avuto la sua genesi ha lavorato con impegno per creare un disco che rimarrà nei cuori degli ascoltatori per il giusto tempo. L’apertura è affidata alla title-track, un gospel traditional sui diritti civili che era nel repertorio sia di Mahalia Jackson quanto di Mavis Staples (con cui la Helm ha diviso recentemente i palchi, in un tour che vedeva anche la presenza di Patty Griffin, che detto per inciso pubblicherà il suo nuovo album a fine settembre), un brano intenso, riarrangiato per suonare come un funky alla Meters, comunque con quel sapore di Louisiana che ogni tanto pervadeva anche l’opera del babbo, lei canta con voce limpida e pimpante, i musicisti ci mettono la giusta anima gospel soul e la partenza è subito scintillante, con il call and response con le vocalist ospiti, le chitarre taglienti e il groove di basso e batteria a sottolineare il tessuto sonoro del brano. Rescue Me è una bellissima ballata mid-tempo, una classica canzone da cantautrice, un potenziale singolo, con una melodia memorabilizzabile e un arrangiamento di gran classe, con tastiere, soprattutto il piano, e chitarre che girano leggiadre intorno alle voce della Helm.

Good News è un vecchio pezzo di Sam Cooke che ha perso l’Ain’t That del titolo originale, ma non lo spirito nero del brano, anche se in questa versione viene accentuata la componente blues che si allaccia allo spirito gospel dell’originale, con chitarre acustiche e slide, qualche percussione e la voce di Amy protagonista assoluta del brano. Deep Water è un delicato pezzo folk corale, di stampo prevalentemente acustico, con le solite ottime armonie vocali che rimandano al sound tipico Ollabelle, mentre Spend Our Last Dime, con il count off della voce spezzata di Levon Helm e il suo tocco inconfondibile alla batteria, è un bellissimo valzerone semi-country, scritto da Martha Scanlan, una bravissima cantautrice di cui vi consiglio di recuperare i pochi album che ha fatto, atmosfera vicina alle ultime prove rootsy di Rosanne Cash, altra figlia d’arte https://www.youtube.com/watch?v=SOLjBToKPmo . Chitarra con riverbero, batteria dal suono secco, basso che pompa, un organo avvolgente, penso opera di John Medeski (ma potrebbe anche essere Bill Payne) puro sound Memphis epoca Muscle Shoals per una deliziosa The Sky’s Falling https://www.youtube.com/watch?v=yEaQ-Qk6kcY . Bellissima anche Gentling Me, una canzone che porta la firma di Mary Gauthier e Beth Nielsen Chapman, dolce e sognante, una boccata di freschezza gentile, come evoca il titolo, nuovamente atmosfere folk per un brano che è puro piacere sonoro.

Roll Away ha una costruzione sonora più raffinata, blue-eyed soul di quello “serio”, con tastiere, chitarre e ritmica che permettono alla voce della Helm quasi di galleggiare su un costrutto sonoro jazz&soul degno delle grandi cantautrici degli anni ’70; per non parlare di un’altra ballata sontuosa come Sing To Me https://www.youtube.com/watch?v=yguKCcaQHYU  o di Roll The Stone, dove il banjo di Isaacs si sposa con l’organo alla Garth Hudson di John Medeski, piano e chitarra quasi telepatici con la sezione ritmica, per un altro tuffo nel deep soul gospel che tanto caro era a Levon Helm, curato fino nei minimi particolari sonori anche grazie al tocco gospel della batteria dei cantanti ospiti. E non è finita, Heat Lightning, ancora con Levon alla batteria, viaggia a tempo di rockabilly, con chitarre twangy e atmosfere country alla Band dietro l’angolo, mentre per la conclusiva Wild Girl, il chitarrista Daniel Littleton alza il riverbero della sua elettrica al massimo per creare un doveroso contrappunto ad una sofferta prestazione vocale in solitaria della brava Amy Helm, giusta conclusione per un album che conferma la classe di questa outsider di gran lusso, che forse non arriverà mai ai livelli del padre, ma quantomeno ci prova!

Bruno Conti

Un Altro Supergruppo? Senza Parole! The Word – Soul Food

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The Word – Soul Food – Vanguard/Caroline/Universal

Quando nel 2001 i cinque componenti dei Word unirono per la prima volta le forze per formare un gruppo destinato ad incidere un disco nessuno probabilmente immaginava che 14 anni dopo ci sarebbe stato un seguito e neppure che i vari componenti della band sarebbero diventati più o meno famosi.

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Il disco in questione, quello qui sopra, copertina abbastanza anonima con la scritta The Word, univa i tre componenti dei North Mississippi Allstars, Luther e Cody Dickinson e il bassista Chris Chew, allora agli inizi del loro percorso artistico, avendo appena pubblicato i primi due dischi (forse il secondo non era ancora uscito), con il tastierista John Medeski del trio jazz-funky-rock-groove Medeski, Martin & Wood, che era quello interessato a lavorare con il giovane Robert Randolph, virtuoso della pedal steel guitar, allora sconosciuto ai più, avendo partecipato solo a un paio di brani (forse uno) della compilation Sacred Steel vol. 2 Live pubblicata dalla Arhoolie. Affascinato dal viruosismo di questo giovane musicista (che all’epoca faceva l’impiegato in uno studio di avvocati), Medeski voleva unire lo stile Sacred Steel, che era già una fusione di generi, tra gospel, funky, soul, un pizzico di country, blues naturalmente, con l’improvvisazione del jazz, l’energia del rock e gli schemi liberi delle jam band. Il tutto chiamando disco e gruppo The Word, “la parola”, per un album che era completamente strumentale. Il CD, all’epoca pubblicato dalla Atalantic, fu un buon successo, sia di di critica che di pubblico, lanciando la carriera di Robert Randolph, che oggi con i suoi Family Band raduna folle non dico oceaniche, ma comunque consistenti, partecipando a Festival vari (uno per tutti, il Crossroads Guitar Festival di Eric Clapton, che è un altro dei suoi tanti estimatori https://www.youtube.com/watch?v=hRCyTzXRJBw ) e dischi degli artisti più disparati (non ultimo proprio Heavy Blues di Bachman, recensito giusto ieri). Guadagnandosi lungo il cammino l’attributo di “Jimi Hendrix dalla pedal steel”, per il suo estremo virtuosismo e per la capacità di esplorare le capacità tecniche dello strumento, apportando anche molto migliorie tecniche che lo rendono in grado di creare spesso sonorità quasi impossibili da credere, allontandolo dal classico sound del country e dei gruppi country-rock, che pure hanno avuto i loro virtuosi, da Sneaky Pete Kleinow a Buddy Cage, passando per Rusty Young, Al Perkins, lo stesso Jerry Garcia, senza dimenticare il suono più mellifluo di gente come Santo & Johnny o gli “antenati” hawaiiani.

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Dimenticate tutto, perché nel caso di The Word possiamo parlare di una sorta di fusione tra il soul ricco di groove di Booker T. & The Mg’s, innervato dallo stile jam delle band southern, per non fare nomi gli Allman Brothers, l’improvvisazione jazz-rock già citata di Medeski, Martin & Wood e lo stile tra gospel, R&B e spiritual delle chiese episcopali degli Staples Singers. Il tutto ben esemplificato in questo Soul Food, registrato tra New York, e soprattutto ai leggendari Royal Studios di Memphis, dove il grande Willie Mitchell produceva i dischi di Al Green, Ann Peebles, Otis Clay e moltissimi altri, per la sua Hi Records (di recente anche Paul Rodgers ci ha inciso il suo disco dedicato al soul http://discoclub.myblog.it/2014/01/25/incontro-nobili-quel-memphis-paul-rodgers-the-royal-sessions/). Deep soul arricchito da mille sfumature di musica dal sud degli States. Naturalmente tutto nasce dal gusto per l’improvvisazione e da lunghe jam in assoluta libertà, che mentre nel primo album prendevano lo spunto soprattutto dai brani della tradizione gospel e religiosa, con un paio di pezzi scritti da Luther Dickinson, nel nuovo album sono firmati per la più parte dai componenti del gruppo, ma sono solo un canovaccio per permettere ai vari solisti, soprattutto a Robert Randolph, che è sempre il vero protagonista, di improvvisare in piena libertà.

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Ed ecco quindi scorrere il puro Booker T Sound  in trasferta a New Orleans di New Word Order, dove la pedal steel di Randolph assume tonalità quasi da tastiera, una sorta di synth dal suono “umano” ed analogico, mentre l’organo di Medeski dà  pennellate di colore e la slide di Dickinson duetta da par suo con la chitarra del buon Robert  https://www.youtube.com/watch?v=4m_jSBbiplw . In Come By Here, le sonorità della pedal steel si fanno ancora più ardite, e il brano è anche cantato (una primizia, poi ripetuta nel CD), solo il titolo del pezzo reiterato più volte, con un effetto d’insieme quasi alla Neville Brothers, mentre Dickinson e Randolph lanciano strali quasi hendrixiani con le loro soliste infuocate su una base ritmica tipo Experience . https://www.youtube.com/watch?v=DZ5cJfePE8k  In When I See Blood, un bellissimo gospel soul, appare pure Ruthie Foster con la sua voce espressiva e partecipe, una variazione anche gradita sullo spirito strumentale dell’album, è sempre un piacere ascoltare una delle migliori cantanti dell’attuale scena musicale americana, e in questo caso l’organo di Medeski, molto tradizionale, assurge a co-protagonista del brano, con la solita folleggiante steel di Randolph. Anche Play All Day è un vorticoso funky-rock-blues con i tre solisti che danno sfogo a tutta la loro grinta, per passare poi a Soul Food 1 e Soul Food 2 due parti estratte da una lunga jam improvvisata nei Royal Studios di Memphis, dopo avere mangiato il cibo sopraffino preparato dalle figlie di Willie Mitchell, parte come un brano di Santo & Johnny e poi va nella stratosfera dell’improvvisazione.

You Brought The Sunshine è considerata una delle canzoni più famosi di Gospel nero (perché c’è anche quello bianco, come ricordano i fratelli Dickinson, ricercatori, come il babbo, della tradizione musicale americana), il brano delle Clark Sisters parte come un reggae, poi diventa un ibrido tra blues, rock e soul quasi alla Little Feat, con Medeski al piano e i due chitarristi sempre liberi di improvvisare. Early In The Moanin’ Time, gioca sul titolo di brani blues famosi e il termine Moanin’ appropriato per definire le sonorità della pedal steel guitar di Robert Randolph che con i suoi “gemiti” sembra veramente un Moog Synthesizer dei primi anni ’70, quelli più genuini e piacevoli delle origini del rock. Swamp Road ha quell’aria dei duetti organo/chitarra di Wes Montgomery e Jimmy Smith se fossero vissuti ai giorni nostri e l’organo di Medeski avesse dovuto misurarsi con due piccoli geni della chitarra rock, ma tiene botta alla grande. Chocolate Cowboy introduce anche l’elemento country, con tutti i musicisti che improvvisano a velocità supersoniche come se fossero in un gruppo bluegrass di virtuosi, mentre The Highest è un maestoso lento di puro sacred steel style, un inno quasi religioso di grande fascino, prima di tuffarci in Speaking In Tongues dove John Medeski sfoggia tutte le sue tastiere, piano elettrico, organo e synth e ci mostra la sua classe e bravura. La conclusione è affidata a Glory Glory, il famoso traditonal reso come un folk-blues acustico, con tanto di acoustic slide e con la brava Amy Helm che la canta in coppia con Randolph, e come verrebbe da dire, tutti i salmi finiscono in gloria. Alla fine, dopo averne spese tante, rimaniano senza parole per la bravura dei protagonisti, musica che è veramente cibo per l’anima di chi ascolta! Esce martedì prossimo.

Bruno Conti

 

Il Disco Della Domenica, Del Mese E Forse, Dell’Anno! Natalie Merchant

natalie merchant natalie merchant

Natalie Merchant – Natalie Merchant – Nonesuch/Warner

Quello che penso di Natalie Merchant l’avevo palesato fin dal titolo (ma anche nel contenuto) del Post con cui presentavo il suo ultimo disco del 2010, Leave Your Sleep, http://discoclub.myblog.it/2010/04/14/l-ultima-grande-cantautrice-americana-natalie-merchant-leave/, e non posso che confermarlo per questo nuovo, notevole, album omonimo. Gli anni passano, i capelli si fanno più grigi e bianchi (e non nel modo più sbarazzino, con un ciuffo alla Bonnie Raitt o Crudelia Demon), ma la voce rimane splendida, unica nel panorama americano e mondiale (ai tempi, prima di lei, da prendere come modello, come ho palesato in altre occasioni, c’era Sandy Denny), con questo tipo di voce particolare, calda, amorevole, espressiva, dolce, avvolgente, anche vellutata e una capacità di scrivere canzoni che ti entrano nel cuore con una facilità disarmante. Peccato che lo faccia assai di rado, per avere undici nuove canzoni (o meglio dieci, più una breve introduzione) abbiamo dovuto attendere quasi tredici anni, tanti ne sono passati da Motherland, l’ultimo disco di materiale originale, pubblicato nel lontano 2001. Ma ne valeva assolutamente la pena, e nel frattempo la Merchant ha pubblicato comunque due bellissimi album, oltre a quello citato sopra, anche The House Carpenter’s Daughter era un fior di album, però un disco tutto nuovo è una cosa diversa, da assaporare con piacere. E quindi vediamo, brano per brano, cosa contiene.

Anzi, prima di partire, devo ammettere, per onestà, che arrivo con un paio di settimane di ritardo sulla data di uscita perché me lo sono sentito proprio per bene e addirittura, ad un primo ascolto, non mi aveva entusiasmato, come in altre occasioni. Poi, piano piano, il disco è entrato in circolo e devo ammettere che è la “solita” Natalie Merchant, per fortuna, come si suol dire, con espressione trita e ritrita finché si vuole, ma efficace, la classe non è acqua ! Registrato nei pressi di casa sua, al Clubhouse di Rhinebeck, NY, prodotto dalla stessa Natalie, con la collaborazione tecnica di Eli Walker e George Cowan, aiutata da un manipolo di validi musicisti, che vediamo brano per brano, direi che possiamo partire.

Ladybird apre le danze, uno dei suoi brani tipici, malinconica nei contenuti, la storia di una donna insoddisfatta della propria relazione, la passione e l’amore ormai andati, si rimane insieme per senso di responsabilità verso i figli e perché, forse, non ci sono altri posti dove volare, dicono autobiografica, anche lei, ma non importa. La musica viceversa è leggiadra, quel tu-tu-tu-tu ricorrente e dolcissimo, intonato da Johanna Warren, Simi Stone e Tamar-Kali, che lo percorre è pura Natalie Merchant al 100%, le tastiere di Uri Sharlin, al Grand Piano e John Medeski all’organo fanno meraviglie, le chitarre di Gabriel Gordon e Erik Della Penna pure, a un certo punto del ritornello mi è parso persino di cogliere una citazione di Space Oddity di Bowie https://www.youtube.com/watch?v=IgJq6v6gA_4 e anche qualcosa dei Beatles, con gli archi che avvolgono il suono in un bozzolo che più che proteggere espande, Jesse Murphy al basso e Shawn Pelton alla batteria sono pressoché perfetti e il sound è limpido come raramente è dato ascoltare. Io sarei già soddisfatto, ma il resto dell’album è sempre ricco di belle suggestioni. Maggie Said, aggiunge Elizabeth Mitchell alle armonie vocali, gli altri sono gli stessi, ancora rimpianti nel testo, qui esplicati sotto forma di una ballata avvolgente e sommessa, meno espansiva musicalmente rispetto al brano precedente, ma sempre ricca di fascino.

Texas ha un impianto sonoro più folk, giocato intorno alla chitarra acustica di Gordon e soprattutto alla lap steel di Della Penna, mirabile in questo brano, con la sezione ritmica affidata alla coppia Marc Friedman, basso e Andrew Barr, batteria, molto più raccolta e meno espansiva rispetto ai primi due brani, bella canzone comunque.Go Down Moses è un piccolo capolavoro di gospel-soul-rock con Natalie Merchant impegnata a duettare con la stupenda voce di Corlliss Stafford (ottima cantante, gospel naturlamente), parte piano e poi in un crescendo euforico ti travolge, John Medeski all’organo distilla note da gran maestro quale è, i due chitarristi e la sezione ritmica sono ancora una volta perfetti e l’aggiunta dei fiati aggiunge quel tocco New Orleans che è insito nella musica. Suonato benissimo e cantato anche meglio, da entrambe. Anche Seven Deadly Sins parte acustica, poi entrano di volta in volta, la fisarmonica di Uri Sharlin, la lap steel di Della Penna, il contrabbasso di Jesse Murphy, la batteria marziale di Pelton che esemplifica questa “guerra” di sentimenti e, nel finale, la tromba Eddie Allen e il trombone e la tuba di Clark Gayton, per un brano quasi jazzato, ma sempre visto nella particolare visione sonora della Merchant.

Giving Up Everything è un altro brano dall’arrangiamento complesso, più che una sezione archi sembra di sentire una intera orchestra, piccola ma molto presente, adatta all’umore “buio” e pessimistico della canzone, anche lei come fece Van Morrison ai tempi di No Guru, No method, No Teacher intona una serie di cose che non sarà mai più: “no longer slave, not chained to it, no gate,no guard, no keeper, no guru, master, teacher.” Uno dei brani dell’album che richiede più attenzione e ascolti ripetuti, meno immediato di altri  Black Sheep è una sorta di blues jazzato da music hall fumosi mitteleuropei, vagamente waitsiano, con il sax e clarinetto di Steve Elson in evidenza, mentre Natalie canta in modo quasi vezzoso, in contrapposizione al testo sempre denso e immanente. It’s A Coming è la Natalie Merchant più classica, un organo in primo piano suonato dall’ottimo Jonathan Dreyden, le due chitarre di Della Penna Gordon grintose e rockeggianti, come pure la sezione ritmica di Friedman e Burr che prende un groove irresistibile e non lo molla più.

Lulu, preceduta da una breve introduzione, stile funerale di New Orleans, con fiati e archi lugubri, diventa poi una delle classiche ballate ariose tipiche del meglio della sua produzione, con i pianoforti di Uri Sharlin  a disegnare la melodia che sale in un meraviglioso crescendo d’insieme di tutti i musicisti nella parte centrale e poi si quieta nuovamente nel finale, gran bella canzone. Alla fine, inevitabilmente, troviamo The End, che non è né quella dei Doors e neppure quella dei Beatles, solo voce e archi, sempre molto pessimista, quasi apocalittica, anche questa di non facile assimilazione, cantata però a voce spiegata dalla brava Natalie. Un disco dalle due facce, più godibile e fruibile nella prima parte, più duro e cupo nella seconda, l’opera di una signora che ormai è entrata nella sua maturità, non è più quella bimbetta timida e delicata che vedete qui sopra, e non mi sembra averla presa molto bene, un mondo personale e globale difficile da digerire, ma stimolante e di grande spessore musicale. Da sentire con attenzione, forse non un capolavoro assoluto ma comunque, ancora una volta, un gran disco, tra i migliori, per ora, del 2014!

Bruno Conti