Sempre Raffinata E Di Gran Classe! Norah Jones – Pick Me Up Off The Floor

norah jones pick me up off the floor

Norah Jones – Pick Me Up Off The Floor – Blue Note/Virgin/EMI CD Deluxe

Sono passati ormai 18 anni dal clamoroso successo del disco di esordio Come Away With Me e Norah Jones con questo Pick Me Up Off The Floor arriva ora al suo ottavo album da solista (senza contare il mini Begin Again, di cui tra un attimo). L’artista newyorchese (ma come è noto il padre è Ravi Shankar), a marzo ha compiuto 41 anni (sempre dire l’età delle signore), e quindi questo album potrebbe essere quello della maturità raggiunta, visto che la consacrazione l’ha ormai conquistata da anni, anche se nella sua discografia, tra molti alti e poche “delusioni”, ha comunque intrapreso anche parecchi percorsi alternativi, deviazioni dal suo stile abituale che comunque denotano una certa irrequietezza artistica, e che l’hanno portata a diverse collaborazioni: il disco con Billy Joe Armstrong dei Green Day, la band country collaterale dei Little Willies, quella country alternative delle Puss’N’Boots che hanno pubblicato un secondo disco Sister, uscito a metà febbraio agli albori della pandemia, e quindi passato abbastanza sotto silenzio, oltre ad avere avuto decine, forse centinaia di partecipazioni a dischi altrui.

Stabilito che lo stile musicale di Norah non è facilmente etichettabile, si è parlato di jazz-folk-pop, che potrebbe essere corretto, io azzarderei anche un genere che era molto in uso negli anni ‘70, soft rock, oppure, forse ancora più calzante, cantautrice con piano, così la mettiamo proprio sul didascalico spinto. Si diceva di Begin Again, un mini CD con 7 brani, estrapolati da una serie di brani che la Jones aveva iniziato ad incidere dal 2016, subito dopo il termine del tour di Day Breaks https://discoclub.myblog.it/2017/11/14/per-la-serie-e-io-pago-norah-jones-day-breaks-deluxe-edition/ , in quello che doveva essere un periodo di pausa e riposo, aveva deciso periodicamente di entrare in studio di registrazione per incidere dei nuovi pezzi, da pubblicare solo in formato digitale, frutto anche di collaborazioni (con Mavis Staples, Rodrigo Amarante, Thomas Bartlett, Tarriona Tank Ball e altri) ed alla fine raccolte in Begin Again: nelle stesse sessions però Norah aveva inciso vari altri brani, ulteriori canzoni sotto forma di demo, di cui riascoltando sul telefonino i mix non definitivi mentre passeggiava col cane, si era accorta delle potenzialità e deciso di portarle a compimento in sette diversi studi di registrazione, per arrivare a questo Pick Me Up Off The Floor, che alla fine si rivela uno dei suoi dischi migliori, al solito molto eclettico nei risultati.

Prodotto dalla stessa Jones, a parte i due brani con Jeff Tweedy, nel disco suonano moltissimi musicisti, anche se una delle figure centrali può essere individuata nel bravissimo batterista Brian Blade, presente in sei brani su undici (del CD esiste anche una versione Deluxe con 13 canzoni, sempre singola e pure “costosa,” considerando solo le due tracce extra, però bella, come vedete sopra, ma sono i soliti misteri della discografia). L’album si apre con How I Weep, una sorta di poesia, la prima scritta dalla nostra amica per l’occasione, How I weep for the loss/And it creeps down my chin/For the heart and the hair/ For the skin and the air/That swirls itself around the bare/How I Weep”, meditabonda e malinconica, su uno sfondo di viola, violino ed archi, che accompagnano il piano, e sul quale piange per alcune perdite. In Flame Twin troviamo Pete Remm a chitarra elettrica, organo e synth, oltre a Blade e John Patitucci al basso, un brano bluesato e raffinato che ricorda certe colleghe anni ‘70 come Carole King e Laura Nyro, mentre Hurts To Be Alone vira su territori soul jazz, a tempo di valzer, con Norah anche a piano elettrico e organo, doppiato da Remm, Christopher Thomas che affianca Blade al contrabbasso elettrico, e le voci suadenti di Ruby Amanfu e Sam Ashworth, per un brano felpato e sinuoso.

Heartbroken, Day After replica la stessa formazione per una canzone dall’afflato notturno, al quale comunque la pedal steel di Dan Lead contrappone al cantato quasi birichino della Jones un piccolo tratto da ballata country, una delle canzoni migliori del CD, molto bella anche la più mossa e brillante Say No More, con l’aggiunta del sax tenore di Lee Michaels e la tromba di Dave Guy, che accentuano nuovamente lo spirito jazzy, evidenziato anche dall’ottimo lavoro del piano. This Life, registrata in trio con Blade e Jesse Murphy al contrabbasso elettrico, già presente nel brano precedente, mi ha ricordato a tratti certi brani inquietanti tipici di Rickie Lee Jones, mitigato dalle angeliche armonie vocali.

To Live è una canzone gospel-soul, tra New Orleans e Mavis Staples, con fiati sommessi e di nuovo eccellenti intrecci vocali, I’m Alive è uno dei due brani con la famiglia Tweedy, Spencer alla batteria, e Jeff all’elettrica e al basso, che pur rimanendo nell’ambito della musica della nostra amica, aggiunge quel tipico tocco melodico del leader dei Wilco, nelle sue ballate migliori. Where You Watching, con il testo dell’amica poetessa Emily Fiskio, è una nuovamente inquietante e misteriosa nenia attraversata dal violino incombente di Mazz Swift, dai florilegi del pianoforte e da un cantato quasi piano e dolente.

Stumble On My Way è una di quelle ballatone soffuse e malinconiche delle quali la musicista di Brooklyn è maestra , di nuovo con la weeping pedal steel di Lead ad impreziosirla. A chiudere la versione standard l’altro brano con e di Jeff Tweedy, Heaven Above, un duetto soffuso, quasi flebile con la Jones a piano e celesta e il musicista di Chicago alla chitarra acustica. Le bonus sono Street Strangers, un altro brano in linea con le atmosfere solenni e ricercate dell’album e la deliziosa Trying To Keep It Together, una strana scelta come singolo estratto dall’album, un pezzo solo voce e piano che illustra il lato più delicato e riposto del suo repertorio https://www.youtube.com/watch?v=IcjVoPRbKKY .

Bruno Conti

7 Settembre 2018: Il Giorno Dei Paul! Parte 1: Paul Simon – In The Blue Light

paul simon in the blue light 7-9

Paul Simon – In The Blue Light – Sony CD

Per pura coincidenza, i due Paul più famosi della musica contemporanea, cioè Paul Simon e Paul McCartney, hanno deciso entrambi di fare uscire i loro nuovi lavori il 7 Settembre. Oggi comincio con l’esaminare la proposta del cantautore americano, domani sarà la volta del Paul inglese.

A mio modesto parere (ma so di essere in buona compagnia) Paul Simon non fa un grande disco da un’era geologica, cioè dal mitico Graceland del 1986: The Rhythm Of The Saints (1990) era comunque un buon album, ma alternava grandi canzoni a momenti di noia, mentre You’re The One (2000) aveva il suono ma mancava clamorosamente di canzoni valide, e Surprise (2006), nonostante la presenza di Brian Eno, era sullo stesso livello di mediocrità. Gli ultimi due lavori del songwriter newyorkese, So Beautiful Or So What ed il recente Stranger To Stranger https://discoclub.myblog.it/2016/06/03/sempre-il-solito-simon-complesso-moderno-dai-suoni-stranieri-paul-simon-stranger-to-stranger/ , erano un po’ meglio, ma anche lì non è che i pezzi memorabili abbondassero, e Paul si salvava col mestiere e mascherando il tutto con una produzione ed un suono eccellenti (ho tralasciato, in quanto non era un album vero e proprio, la colonna sonora del fallimentare musical The Capeman: a me era piaciuta, ma non ditelo a nessuno). Mentre scrivo queste righe Paul sta ultimando il suo tour d’addio Homeward Bound, che si concluderà il 22 Settembre al Flushing Meadows Corona Park di New York (nei Queens, vicino a dove andava a scuola da bambino, aspettiamoci ospiti e l’immancabile album dal vivo), e per celebrare meglio il nostro ha deciso di dare alle stampe questo In The Blue Light, album nuovo di zecca che però non contiene inediti, ma dieci brani da lui scelti dal suo repertorio e incisi ex novo, con arrangiamenti totalmente ripensati.

Paul non ha scelto i brani più noti del suo songbook, ma canzoni minori che forse per lui avevano un significato particolare, e le ha davvero rivoltate come calzini, in collaborazione con il suo storico produttore ed amico Roy Halee (tornato a bordo già con Stranger To Stranger). Simon ha sempre avuto una cura maniacale per gli arrangiamenti, ed è stato un pioniere per quanto riguarda le contaminazioni musicali ed i suoni influenzati da culture lontane dalle nostre, però in Into The Blue Light Paul non ha inserito nessuna sonorità “etnica”, ma ha scelto comunque una serie di musicisti del pedigree formidabile: oltre ai soliti noti Steve Gadd e Vincent Nguini, abbiamo gente come John Patitucci, Bill Frisell, Jack DeJohnette, Wynton Marsalis, Sullivan Fortner ed in due pezzi il sestetto d’archi yMusic. Come avrete notato, una lista di musicisti che proviene dal modo del jazz, ed infatti è proprio il jazz la base dei nuovi arrangiamenti pensati da Paul, una rielaborazione di gran classe e raffinatezza, con un gusto sopraffino per i suoni calibrati al millimetro, anche se questo non basta per fare un grande disco. Le canzoni infatti sono contraddistinte da un passo spesso lento, a volte anche lentissimo, e le atmosfere sono qua e là un po’ freddine anche se il tutto risulta tecnicamente ineccepibile: ma Simon ha sempre fatto musica più con la testa che con il cuore, e non potevo certo pensare che cambiasse a quasi ottant’anni.

Il pezzo più noto del disco è senza dubbio René And Georgette Magritte With Their Dog After The War, tratto da Hearts And Bones che era uno dei suoi album migliori di sempre (e forse non tutti sanno che in origine doveva essere il reunion album di Simon & Garfunkel, poi i due hanno “stranamente” litigato): canzone splendida, che fa la sua bella figura anche in questa versione minimale e cameristica, essendo infatti uno dei due pezzi con il sestetto yMusic (più Paul alla chitarra elettrica), con gli archi che accarezzano la melodia facendola risaltare ancora di più. Un altro pezzo che ogni tanto negli anni Paul riproponeva dal vivo è One Man’s Ceiling Is Another Man’s Floor (tratta da There Goes Rhymin’ Simon) un brano bluesato che qui mantiene l’impianto originario aggiungendo un sapore jazz: ritmo cadenzato, ottimo pianoforte di Joel Wenhardt ed un crescendo strumentale notevole, che culmina con l’ingresso di tromba e sax. Uno dei pezzi con più brio, ed infatti è stato messo in apertura di CD. Io non avrei preso in considerazione l’album You’re The One per scegliere canzoni da riarrangiare, dato che lo considero il meno riuscito di tutta la carriera di Paul, che però evidentemente la pensa in modo diverso, dato che di brani da quel disco ne ha scelti ben quattro: in Love sono solo in quattro a suonare, con la riconoscibilissima chitarra di Frisell come leader, per un brano soffice e rilassato, suonato con classe ma sul quale mantengo le mie perplessità riguardo allo script, Pigs, Sheep And Wolves, solo voce, percussioni ed una sezione fiati di sei elementi guidati dalla tromba di Marsalis, è rielaborata quasi dixieland, ma anche qui la canzone latita parecchio, mancando di una vera e propria melodia.

The Teacher è un po’ meglio, sia per un miglior motivo di fondo che per il bell’accompagnamento chitarristico dei fratelli brasiliani Odair e Sergio Assad, in stile flamenco, mentre la lunga (più di sette minuti) Darling Lorraine è suonata alla grande, con una band da sogno che vede in contemporanea Frisell, Nguini, Gadd e Patitucci, e la canzone ne esce migliorata. Can’t Run But (da The Rhythm Of The Saints) è l’altro pezzo con gli yMusic, che qui suonano in maniera nervosa e movimentata, aderendo in maniera perfetta alla linea melodica del brano: Paul canta con il consueto fraseggio vocale rilassato ed il tutto risulta intrigante (l’arrangiamento è di Bryce Dessner, chitarrista e membro di punta dei National). How The Heart Approaches What It Yearns, che viene da One Trick Pony, è puro jazz d’atmosfera, con un accompagnamento di classe sopraffina, che vede la tromba di Marsalis gareggiare in bravura col fantastico piano di Fortner ed il basso di Patitucci: se proprio vogliamo è un po’ soporifera, ma volete mettere addormentarsi con musicisti come questi? Il disco termina con Some Folks Lives’ Roll Easy (presa da Still Crazy After All These Years), tutta incentrata sullo splendido piano classicheggiante di Fortner e con la sezione ritmica Patitucci/DeJohnette che spazzola sullo sfondo, e con Questions For The Angels, che era una delle canzoni migliori di So Beautiful Or So What, ed anche qui si colloca tra le più riuscite, con begli intrecci tra l’acustica di Simon e l’elettrica di Frisell.  Un buon disco quindi, ma non il grande disco che da troppi anni i fans di Paul Simon aspettano, un po’ per la discutibile scelta di alcune canzoni, un po’ per il poco calore umano del suo autore, più propenso a confezionare piccoli e raffinati capolavori di tecnica strumentale che a regalare emozioni.

Marco Verdi

P.S: tra pochi mesi, forse già entro l’anno a detta di qualcuno, Simon dovrebbe pubblicare anche Alternate Tunings/Rare and Unreleased, una collezione appunto di rarità, demos ed inediti presi da vari momenti della sua carriera. Sulla carta dovrebbe essere un disco imperdibile, ma vedremo meglio al momento dell’uscita.