Se Serve Un Armonicista Eccolo: E Si E’ Portato Pure Parecchi Amici! Bob Corritore & Friends – Do The Hip-Shake Baby

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Bob Corritore & Friends – Do The Hip-Shake Baby – VizzTone Label/SWMAF

Non vorrei esagerare dichiarando che l’armonicista di Chicago stia mettendosi in competizione con Bonamassa quanto a prolificità, ma certo Bob Corritore sta tenendo una bella media: quasi un album all’anno e con questo Do The Hip-Shake Baby siamo al quattordicesimo pubblicato in una ventina di anni di carriera solista (ma è dal 2007 che le uscite sono diventate molto più ravvicinate), senza contare soprattutto le numerosissime collaborazioni e partecipazioni a dischi di altri https://discoclub.myblog.it/2017/06/22/una-garanzia-nellambito-blues-e-dintorni-john-primer-bob-corritore-aint-nothing-you-can-do/ . Tra l’altro applicando spesso la formula del Corritore & Friends: lo aveva fatto anche di recente nel 2018, con il precedente Don’t Let The Devil Ride, di cui in effetti il nuovo CD è una sorta di estensione, riportando materiale registrato in diverse sedute di registrazione effettuate tra il 2016 ed il 2018, con la presenza di diversi ospiti “importanti”, in ambito blues naturalmente, che vediamo tra un attimo, ma scorrendo le note si vede che nel dischetto sono stati impiegati ben 39 musicisti. Il tutto poi è stato assemblato ai Greaseland Studios di San Jose, California, sotto la guida di Kim Andersen che ha anche co-prodotto l’album insieme allo stesso Corritore.

Per un disco che ancora una volta mescola abilmente tutte le musiche preferite dal buon Bob e dai suoi amici: R&B, R&R delle origini, un pizzico di soul e di gospel, e soprattutto tanto blues elettrico, con Corritore che come sappiamo non canta neanche sotto tortura e quindi si limita “solo” a suonare l’armonica in tutti i 13 pezzi di questa raccolta, lasciando la parti vocali ai vari friends. I brani non sono esattamente celeberrimi, con l’ eccezione di due o tre: proprio l’iniziale Shake Your Hips, una delle canzoni più famose di Slim Harpo, con i Fremonts e la voce solista di Mighty Joe Milsap, dal classico timbro “importante”, indica subito questo spirito da juke joint o live club degli anni ’60, con un sound volutamente vintage e vagamente tribale, poi ripetuto nell’altra cover di Harpo, sempre cantata da Milsap, ovvero l’altrettanto vibrante e mossa I’m Gonna Keep What I’ve Got. Alabama Mike ne canta ben quattro: la swingante Gonna Tell Your Mother di Jimmy McCracklin, con L.A. Jones alla chitarra, è blues con retrogusti R&R, Worried Blues, un intenso errebì con tracce gospel , sempre molto sixties, la famosissima Stand By Me che se mi passate il termine viene “bluesificata”, grazie all’armonica di Corritore, la chitarra di Anson Funderburgh ed una parte cantata che ricorda il primo Sam Cooke, niente male anche Few More Days, un oscuro brano di  Eddy Bell and The Bel-Aires, ammetto di averlo letto, non conoscevo prima, comunque fa la sua porca figura, con coretti tra doo-wop e R&R.

Oscar Wilson dei Cash Box Kings canta Bitter Seed di Jimmy Reed, un gagliardo shuffle che è puro Chicago blues, mentre il “giovane” Henry Gray (94 anni e non sentirli) si diverte con una brillante rilettura dell’altro brano molto famoso, una movimentata The Twist di Chubby Checker, dove Gray volteggia sui tasti del suo piano. Bill ‘Howl-N-Madd’ Perry, un personaggio quantomeno pittoresco, canta e suona la chitarra in You Better Slow Down, un suo brano che quanto ad intensità non ha nulla da invidiare a quelli di Muddy Waters, che appare poi come autore nella palpitante Love, Deep As The Ocean, dove John Primer è la voce solista e si impegna con merito anche alla slide. Altra bella accoppiata per Trying To Make A Living dove Sugaray Rayford si conferma vocalist di grande presenza e potenza, con Junior Watson che lo sostiene con impeto alla chitarra, e lo stesso Rayford riappare anche nella conclusiva Keep the Lord on With You!, questa volta con Kid Ramos alla solista, un devastante lungo blues elettrico scritto dallo stesso Ray, dove la quota gospel fa quasi a botte con un ardore direi hendrixiano, pezzo fantastico. Manca solo I Got The World in a Jug un pezzo cantato da Jimi “Primetime” Smith che è nuovamente puro Chicago Blues e conferma la validità di questa nuova proposta di Corritore, che suonerà anche “solo” l’armonica, ma certo sa scegliere i suoi collaboratori.

Bruno Conti

E’ Difficile Da Trovare E Costa Pure Tanto, Ma Ne Vale La Pena! Various Artists – Chicago Plays The Stones

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Various Artists – Chicago Plays The Stones – Chicago Blues Experience CD

Il nome dei Rolling Stones negli anni è sempre stato legato, oltre che al rock’n’roll, al blues americano, anche se la band britannica un disco tutto di blues non lo aveva mai fatto fino al 2016, allorquando i quattro misero sul mercato lo splendido Blue And Lonesome, album di cover di classici di puro Chicago blues, che è pure candidato ai Grammy 2018 come “Best Traditional Blues Album”. Ora una bella serie di musicisti della capitale dell’Illinois (nativi o acquisiti) si è riunita sotto la guida del produttore Larry Skoller per “rispondere” affettuosamente a quel disco, registrando questo Chicago Plays The Stones, che come suggerisce il titolo è un album di cover di alcuni brani delle Pietre, rivisitati in chiave blues. Per la verità la prima volta che ho visto in rete questo CD ho pensato a qualche lavoro un po’ raffazzonato in stile Cleopatra (e la copertina, alquanto brutta, non mi aiutava a pensare meglio), ma poi ho scoperto quasi subito che si trattava di un progetto serio ed unitario, con tutte incisioni nuove di zecca da parte di artisti noti e meno noti, comprendendo alcune vere e proprie leggende. L’unico punto a sfavore è il fatto che il CD è acquistabile solo online, sul sito creato apposta per l’evento http://chicagoplaysthestones.com/ , e che le spese di spedizione nel nostro paese sono più care del costo del disco stesso (il totale è di circa trenta dollari): ma, come accennavo nel titolo, li vale tutti, anche se va detto che in nessun caso gli originali degli Stones vengono superati (ma questa sarebbe un’impresa per chiunque); c’è da dire infine che le scelte non sono state scontate, in quanto sono presenti brani che nessuno avrebbe mai associato al blues, come ad esempio Angie e Dead Flowers.

Ad accompagnare i vari ospiti c’è una house band da sogno, denominata Living History Band, guidata dal grande Bob Margolin alla chitarra (per anni solista nel gruppo di Muddy Waters), e con al piano l’ottimo Johnny Iguana (Junior Wells, Koko Taylor, Otis Rush e molti altri), Felton Crews al basso (la prima scelta, quando serviva un bassista, da parte di un certo Miles Davis), Kenny “Beedy-Eyes” Smith alla batteria (un altro che ha suonato con molti dei grandi, da Pinetop Perkins a Hubert Sumlin) ed il quotato armonicista francese Vincent Bucher. L’inizio è una bomba, con una potente rilettura di Let It Bleed da parte di John Primer (chitarrista anche lui per Waters, oltre che per Willie Dixon, alla guida nel 2015 del progetto Muddy Waters 100, simile a questo sugli Stones ), che ci fa capire di che pasta è fatto questo CD: gran voce, ritmo sostenuto, splendido pianoforte e l’armonica di Bucher in grande evidenza. Billy Boy Arnold è uno dei grandissimi del genere, un armonicista favoloso che qui rivolta come un calzino Play With Fire (infatti non la riconosco fino al ritornello): versione calda e piena d’anima, con il gruppo che segue come un treno, Margolin in testa; Buddy Guy è un’altra leggenda vivente, e non ci mette molto a far sua la poco nota Doo Doo Doo Doo Doo (Heartbreaker) (era su Goats Head Soup), facendola diventare uno slow blues notturno, con la ciliegina data dalla presenza nientemeno che di Mick Jagger alla seconda voce ed armonica (cosa che dona, se ce ne fosse stato bisogno, il sigillo a tutta l’operazione), grande brano e grandissima chitarra di Buddy.

(I Can’t Get No) Satisfaction è forse il pezzo più inflazionato del repertorio degli Stones, ma questa versione errebi piena di swing da parte di Ronnie Baker Brooks (figlio di Lonnie Brooks) le dà nuova linfa, trasformandola quasi in un’altra canzone (ed anche Ronnie alla chitarra ci sa fare); Sympathy For The Devil nelle mani di Billy Branch (armonicista scoperto da Willie Dixon) mantiene il suo spirito sulfureo, piano e slide guidano le danze per sei minuti rock-blues di grande forza, mentre Angie (ancora John Primer) cambia completamente vestito, diventando un blues lento, caldo e vibrante, dominato anche qui dalla slide e dal solito scintillante piano di Iguana. La brava Leanne Faine ha una voce della Madonna, e riesce a far sua senza problemi la grande Gimme Shelter, accelerando notevolmente il ritmo e dando spazio all’armonica: puro blues; Jimmy Burns (fratello di Eddie e grande cantante e chitarrista in proprio) trasforma la splendida Beast Of Burden in un godibilissimo jump blues (e caspita se suonano), molto trascinante, mentre Mike Avery (cugino del grande Magic Sam) si occupa di Miss You, riprendendone in chiave blues il famoso riff, anche se forse questo è l’unico pezzo del disco che suona un po’ forzato. Ci avviciniamo alla fine: ecco i due brani più recenti della raccolta (anche se hanno ormai una ventina d’anni sul groppone), una granitica I Go Wild con protagonista l’armonicista e cantante Omar Coleman (un giovincello rispetto agli altri invitati) ed una veloce e tonica Out Of Control, dominata dalla voce cavernosa di Carlos Johnson; chiusura ancora con Burns, alle prese con Dead Flowers, una canzone talmente bella che la ascolterei anche se la facesse Fedez (sto scherzando…).

Se potete, vale la pena fare uno sforzo economico per accaparrarsi questo Chicago Plays The Stones, anche perché il 50% dei proventi verrà destinato al progetto “Generation Next” per finanziare le prossime generazioni di bluesmen di Chicago: quindi non il “solito” tributo, ma uno dei dischi blues dell’anno.

Marco Verdi

Una Garanzia Nell’Ambito Blues E Dintorni. John Primer & Bob Corritore – Ain’t Nothing You Can Do

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John Primer & Bob Corritore  – Ain’t Nothing You Can Do – Delta Groove Music/Ird

Il marchio dell’etichetta Delta Groove ormai è una garanzia nell’ambito blues e zone limitrofe, e questo nuovo album dell’accoppiata John Primer & Bob Corritore (come un altro titolo di cui avete letto a parte http://discoclub.myblog.it/2017/06/09/sempre-piu-un-mostro-della-chitarra-monster-mike-welch-and-mike-ledbetter-right-place-right-time/ ) ne è la riprova. Si tratta del secondo disco che i due registrano insieme, il primo, ottimo, Knockin’ Around These Blues, era uscito nel 2013, e se amate il classico Chicago Blues, elettrico e vibrante, ve lo consiglio vivamente. Ma pure questo nuovo Ain’t Nothing You Can Do si mantiene su livelli elevati. John Primer, nel frattempo, è stato alla guida di quel progetto collettivo Muddy Waters At 100, che celebrava il centenario della nascita di una delle pietre miliari del Blues. Musicista e uomo con il quale Primer aveva condiviso i palchi negli ultimi tre anni di carriera, da fine 1979 al 1983, apparendo anche nel Live At Checkerboard Lounge, la famosa serata con gli Stones, registrata nel locale di Chicago nel 1981, e uscita postuma nel 2012 in DVD, e in questi giorni pubblicata anche in CD. Poi Primer ha suonato per 14 anni con Magic Slim & The Teardrops, prima di avviare la sua carriera solista nel 1995 con The Real Deal.

E in effetti Alfonso “John” Primer è uno degli ultimi “veri affari” del blues di Chicago, pur essendo nato, come molti altri, nei pressi della zona del Delta, in quel di Camden, Mississippi, quindi nella patria delle 12 battute. Il nostro amico è uno degli ultimi “originali” della scena nata intorno a quei locali di Maxwell Street, Theresa’s, Checkerboard e Rosa’s Lounges, sviluppando uno stile che oggi è quanto di più vicino a come suonerebbe e canterebbe Muddy Waters (se non avesse 100 anni ovviamente, o forse sì): una voce ancora forte e decisa, ricca di grinta, uno stile chitarristico di buona fattura alla solista tradizionale e di grande spessore alla slide, e la capacità di circondarsi di buoni musicisti nei propri dischi. Anche Bob Corritore all’armonica, per quanto ultimamente una sorta di “prezzemolino” nei dischi di genere, non si può negare sia uno dei migliori che il mercato offra. Ma nel disco troviamo anche Henry Gray, al piano in tre brani, Barrelhouse Chuck, anche lui al piano, nei restanti pezzi, scomparso lo scorso dicembre e ricordato nelle note dell’album, Big John Atkinson e Chris James, alle chitarre, a rinforzare il sound del disco, che se non sfocia mai nel rock, ha comunque la forza ed elettricità tipiche del miglior blues urbano, insomma forse le chitarre non ruggiscono mai alla Buddy Guy, o come i tre King, ma sono comunque ben presenti nell’economia del suono, e anche la sezione ritmica con Troy Sandow e Patrick Rynn che si alternano al basso e Brian Fahey alla batteria, ha comunque la brillante “presenza” delle incisioni targate Delta Groove.

La prima e l’ultima canzone portano la firma di Alfonso Primer, ma non differiscono comunque nelle intenzioni da tutti gli altri classici presenti nell’album: il primo pezzo Poor Man Blues, è quasi più Muddy Waters dell’originale, sia per il groove dello shuffle come per la voce e l’uso di chitarre ed armonica, assomiglia in modo impressionante al Maestro, ed Elevate Me Mama un pezzo di Sonny Boy Williamson, ma anche questo nel repertorio di Waters, gode inoltre di uno splendido lavoro di Corritore e di Barrelhouse Chuck al piano, oltre che di John Primer che primeggia alla slide. Hold Me In Your Arms è un brano di Snooky Pryor, ma l’atmosfera è sempre quella del Chicago Blues, sia pure con una decisa vena R&R in questo pezzo, più mosso di quanto lo precede nel CD e con Henry Gray che può scatenare il suo piano in un brillante solo; ma si torna subito al repertorio di Muddy con un super slow di grande intensità come Big Leg Woman dove Primer brilla di nuovo a voce e bottleneck guitar, con gli altri solisti comunque in bella evidenza.

Gambling Blues è l’omaggio ad un altro dei vecchi datori di lavoro di Primer, ossia Magic Slim, un altro classico shuffle eseguito in grande scioltezza; poi è la volta di Bob Corritore, alle prese con un suo brano strumentale Harmonica Boogaloo, dove si apprezza la grande tecnica del musicista di Chicago (ma anche il resto della band non scherza), comunque in evidenza in tutto il disco. Ain’t Nothing You Can Do non è il famoso brano di Bobby “Blue” Bland ma un pezzo omonimo di Albert King, un lungo “lentone” dove i veri bluesmen soffrono e il nostro John non si esime, ben spalleggiato da Gray; anche la successiva For The Love Of A Woman era di King, uno dei suoi classici funky blues del periodo Stax, prodotto all’epoca da Don Nix che è anche l’autore del brano. Mancava un bel pezzo di Howlin’ Wolf ed allora ecco arrivare a tutta slide una poderosa May I Have A Talk With You che mostra anche l’influenza di Elmore James, mentre a chiudere il cerchio l’altro brano firmato da Primer, When I Leave Home, un altro intenso slow che avrebbe fatto un figurone sui vecchi album Chess di Muddy Waters, come peraltro tutto il contenuto di questo eccellente album.

Bruno Conti

Ennesimo Bravo Armonicista E Cantante Blues. Rob Stone – Gotta Keep Rollin’

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Rob Stone – Gotta Keep Rollin’ – Vizztone 

La Vizztone è una etichetta di cui Bob Margolin fu uno dei co-fondatori ad inizio 2007 e nel corso degli anni si è costruita un roster di artisti che non gravitano solo nell’area del blues più canonico ma si allarga a comprendere anche artisti soul e R&B (a questo proposito se non lo avete già letto altrove mi dispiace segnalare la morte del grande cantante Otis Clay, avvenuta lo scorso’8 gennaio), spesso già in azione in ambito indipendente ma che con l’aiuto di questa etichetta, faticosamente cercano di raggiungere una maggiore diffusione a livello internazionale, Tra i tanti messi sotto contratto dalla Vizztone c’è anche Rob Stone, di cui questo Gotta Keep Rollin’ è in effetti già uscito a settembre 2014 (ma come dice il famoso detto “meglio tardi che mai”). Si tratta del quarto (o quinto CD) di Stone, ma i primi tre sono fuori produzione da tempo e il quarto, una antologia, viene venduto solo ai concerti dell’armonicista di Boston, che peraltro come molti degli adepti del Blues vive e opera in quel di Chicago da parecchio tempo https://www.youtube.com/watch?v=2eYHqkWKHDU .

Anche in questo album il nostro amico, che oltre a soffiare con vigore nel suo “attrezzo” è anche un buon vocalist, come evidenzia la copertina, si è circondato di un gruppo di musicisti tra i migliori nelle 12 battute classiche: Chris James, chitarrista in tutti i 12 brani del disco e co-produttore con Stone, John Primer, sempre alla chitarra, ospite in un paio di canzoni, il grande David Maxwell al piano in molte tracce e Henry Gray agli 88 tasti in Wired And Tired, più Eddie Shaw al sax in un paio di brani e la sezione ritmica fissa, composta da Patrick Rynn al basso e Willie Hayes alla batteria, oltre ad un manipolo di altri musicisti che si sono divisi tra gli studi di Chicago, Illinois e Tempe, Arizona, dove è stato registrato il disco. Non vi dirò, mentendo, che siamo di fronte ad un capolavoro, ma ad un onesto e solido disco di blues classico, destinato soprattutto agli appassionati del genere, ma anche se non siete degli stretti adepti troverete comunque motivi per un piacevole e corroborante ripasso degli stilemi classici del genere. Sei brani originali firmati dalla triade Stone/James/Rynn e sei cover di brani non celeberrimi: si spazia dal classico Chicago Blues dell’iniziale Wait Baby con il dualismo tra solista di James e l’armonica di Stone che canta con voce sicura sul drive ondeggiante della ritmica, Wonderful Time di Sonny Boy Williamson, oltre all’armonica indaffaratissima ci consente di gustare il piano swingante di David Maxwell.

Lucky 13 è uno shuffle come mille, sempre piacevole comunque, grazie alla chitarra di Primer; Anything Can happen è uno dei due brani che prevede la presenza del sax di Eddie Shaw e va di jump & boogie, come pure, lo dice il titolo, Move Baby Move, con She Belongs To Me che grazie alla sua batteria accarezzata con spazzole dell’ospite Frank Rossi ha un approccio più ricercato. Strollin’ With Sasquatch è l’unico strumentale dell’album, uno slow dove Rob Stone dà fiato con vigore alla sua armonica, con Wired And Tired che ha un bel feel alla Muddy Waters, anche grazie, di nuovo, al piano scandito di Henry Gray e Cold Winter Day, ancora con Primer alla solista, è una cover di un brano di Blind Willie McTell, un altro bel lento dove oltre alla chitarra si apprezzano il piano di Maxwell e l’immancabile armonica. It’s Easy To Know How è l’unica canzone dove si vira leggermente verso un ambientazione R&B, per poi tornare alla “retta via” con Blues Keep Rollin’ On e concludere in bellezza con la swingante Not No Mo’ che ci permette di gustare in azione di nuovo tutti i solisti del disco in un divertente finale.

Bruno Conti

Un Grande “Artigiano” Del Blues. Magic Slim & The Teardrops – Pure Magic

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 Magic Slim & The Teardrops – Pure Magic – Wolf

Un paio di anni fa avevo recensito quello che è poi diventato l’ultimo album di Magic Slim, Bad Boy, pubblicato dalla Blind Pig, un buon disco ma non uno dei suoi migliori http://discoclub.myblog.it/2012/09/18/un-ragazzaccio-dal-mississippi-magic-slim-and-the-teardrops/ . Probabilmente Morris Holt (vero nome di Magic Slim) non pensava che sarebbe stato il suo album finale, ma il destino la pensava in modo diverso, e nel febbraio del 2013, Magic, come amava essere chiamato, da quando l’altro Magic, Sam gli aveva dato il suo soprannome, ci ha lasciato, mentre era on the road, per le complicazioni, cuore, polmoni, fegato, di vecchi problemi di salute che avevano caratterizzato i suoi ultimi anni, sempre coraggiosamente in tour. Ancora nel maggio del 2013 gli è stato assegnato un premio postumo come miglior “Traditional Blues Male Artist”, lui che in vita ne aveva vinti moltissimi. Uno degli ultimi rappresentanti del classico blues elettrico di Chicago, Holt, nativo della zona del Mississippi, come già ricordavo nella recensione, non è stato forse uno dei grandissimi del blues della Windy City, ma sicuramente uno dei migliori performer diciamo della seconda fascia, vocalist ruspante, ottimo chitarrista e grande showman, Magic Slim ha dato il meglio di sé con la sua formazione dei Teardrops, il classico quartetto con due chitarre a fronteggiarsi, ben sostenute da una sezione ritmica, dove il drive era fornito dal fratello di Morris, Dennis Holt, al basso, e da Earl Howell alla batteria, con l’asso nella manica che era la seconda chitarra di John Primer (poi autore di una ottima carriera solista, che prosegue ai giorni nostri): proprio con questa formazione (attiva dal 1982 al 1995) vengono registrate la tracce di questo CD, dal vivo a Vienna, quindi nella sua dimensione ideale, pubblicate postume dalla Wolf Records, l’etichetta austriaca con la quale il musicista americano ha pubblicato parecchi album nella sua carriera.

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Le note ci dicono che il materiale è inedito su CD, registrato tra il ’92 e il ’95, mi fido, non ho verificato, e sicuramente si tratta di un eventuale (mai dire mai) canto del cigno più consono alla classe ed alla qualità del bluesman di Torrance: una bella sequenza di “classici” e “ brani minori” delle 12 battute, di cui si dice Magic Slim avesse in repertorio una quantità sterminate di canzoni tra cui pescare per i suoi show al fulmicotone. Dopo la classica introduzione di Primer per scaldare il pubblico, siamo subito nelle note di Love Somebody, un vivace brano di Jimmy Dawkins, altro grande rappresentante della scuola del blues elettrico di Chicago https://www.youtube.com/watch?v=9DVlXmHa_DE , poi una Going To California di uno dei maestri, Albert King, uno slow dai tratti torridi dove la chitarra viaggia spedita e sicura https://www.youtube.com/watch?v=AXFgLhXvk-s , seguito da un super classico, dall’andatura ondeggiante ed inconfondibile, come I’m Ready, brano firmato da Willie Dixon e uno dei maggiori successi di Muddy Waters https://www.youtube.com/watch?v=t9ZmuZSIdCY . Di nuovo un brano dal songbook di Albert King, I Got The Blues, vero manifesto di intenti e per portare qualche variazione, sempre presente negli spettacoli di Slim, Lovin’ You (Is the Best Thing That Happened To Me) è una canzone di Milton Campbell, dai tratti sonori più vicini al soul https://www.youtube.com/watch?v=E8sVkCSUf9w e al R&B, per poi tornare, nella lunga Since I Met You Baby, a firma Ivory Joe Hunter, a quei brani lenti e sofferti che sono la vera essenza di questa musica.

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L’unico brano firmato da Morris Holt, See What You’re Doin’ To Me, è un altro di quei brani adattissimi per aizzare il pubblico, prima di stenderlo nuovamente con una lenta ed intensissima Spider In My Stew, sempre a firma Dixon, portata al “successo” da Buster Benton, che era il cantante delle Willie Dixon’s Blues All-Stars, brano poco noto ma sicuramente non minore. Una chiacchierata di Magic Slim con il pubblico spezza un poco il ritmo del concerto virtuale costruito dai compilatori del CD, ma una tosta Look Over Yonder’s Wall dell’accoppiata Arthur Crudup/Elmore James sistema la cose, prima di regalarci un altro lento di quelli folgoranti e lancinanti come Jimmie e un altro shuffle divertertente come Do You Mean It? dalla penna di Ike Turner. Anche la finale Call My Job era nel repertorio di Albert King e fa la sua ottima figura, discorsetto finale, applausi, titoli di coda, se sarà l’ultimo di Magic Slim miglior testamento non poteva esserci, non un Maestro, ma un grande Artigiano!

Bruno Conti

Una Piccola Macchina Del Tempo Blues! Al Miller – …In Between Times

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Al Miller Chicago Blues Band – …In Between Time – Delmark

Inserendo questo dischetto nel lettore CD è come entrare in una macchina del tempo, piccola ma efficiente, che ti porta, con fermate intermedie, più o meno verso la metà degli anni ’60, direi programmata su Chicago. Il Blues elettrico, o urbano se preferite, è in uno dei suoi momenti di grazia, B.B. King, Muddy Waters, Magic Sam e molti altri che non citiamo per brevità, iniziano ad avere i primi discepoli anche tra i musicisti bianchi. E Al Miller è già lì, fa parte della scena locale, con gente come Paul Butterfield e la sua band, dove milita un certo Mike Bloomfield, che diventerà amico di Miller, impegnato a spargere il verbo blues con Chicago Slim e Johnny Young. Nel 1966, proprio sull’onda del successo della Butterfield Blues Band, il gruppo di Al Miller, tali Wurds, sono la prima band bianca ad essere messa sotto contratto per la Chess: inutile dire, perché queste storie di solito vanno così, che l’unico 45 giri pubblicato è un insuccesso clamoroso. Provano anche la strada del garage rock con un altro singolo intitolato Why?, ma poi capita l’aria che tira, il nostro amico prende la sua armonica e decide di trasferirsi nella Bay Area, in quel di San Francisco, dove ritrova Bloomfield e i due suonano anche insieme tra il ’69 e il ’70. Ma pure la “Summer Of Love”, per quanto prolungata, sta finendo e Miller se ne torna a Chicago, non per la musica, che rimarrà un hobby, quanto per un buon lavoro e una famiglia che sono le sue priorità, anche se occasionalmente registra come componente della Bionic Blues Band (?).

Poi, all’inizio degli anni ’90, finito il periodo sabbatico, ritorna in pista per registrare quello che è a tutti gli effetti il suo primo disco, l’età per esordire da bluesman è quella giusta, l’etichetta pure, la Delmark, i musicisti anche, tra gli altri, Willie Kent, Dave Specter, Tad Robinson, Steve Freund,  il disco si chiama Wild Cards, e al di fuori della cerchia carbonara dei bluesofili, critica ed appassionati che apprezzano,  non se lo fila nessuno. A questo punto subentrano pure problemi di salute e per parecchi anni Al Miller non entra più in studio di registrazione, ma, a fine anni ’90, inizio anni ’00, con un fido manipolo di amici, tra i quali Dave Specter di nuovo, oltre a John Primer, Billy Flynn, Ken Saydak ed altri meno noti, viene registrato un nuovo album, che però, guarda caso, è questo …In Between Time, che a tredici anni dalla data originale, vede (di nuovo?) la luce. A questo punto fermiamo la macchina del tempo e ascoltiamo, anche se il suono è proprio quello degli anni appena descritti, Chicago, metà anni ’60, prima che “inventassero” il blues-rock e Jimi Hendrix, con un suono tecnicamente meno rudimentale ma una attitudine da neo-revivalisti che condivide con i compagni di avventura, non per nulla il disco è attribuito alla Al Miller Chicago Blues Band.

Scorrono 17 brani pieni di passione, per quasi 75 minuti di musica: ci sono ben tre cover del suo vecchio mentore Johnny Young, Tighten Up On It, My Baby Walked Out e lo strumentale I Got It , con l’armonica di Miller che divide la scena con la chitarra di Flynn e il piano di Saydak, c’è l’iniziale Rockin’ All Day che, nonostante il titolo, è quello con il suono più “arcaico”.  Una tosta I Need So You Bad scritta da B.B. King in quei gloriosi tempi, con la voce e la chitarra di John Primer in primo piano, con Specter e Miller che lo spalleggiano ai rispettivi strumenti. Tra i brani originali di Al Miller spicca l’ottima title-track con Miller per l’occasione alla chitarra e la slide di Billy Flynn che gli conferisce un’aura alla Muddy Waters. Flynn, ottimo anche nel suo brano strumentale Billy’s Boogie e in A Better Day dove fa una timida apparizione anche un wah-wah slide. John Primer canta in Dead Presidents di Willie Dixon e in 1839 Blues dal repertorio di Elmore James ed è la chitarra solista nell’omaggio, di nome e di fatto, Lawhorn Special, ad uno dei chitarristi storici della band di Waters, Sammy Lawhorn. Per il resto dell’album, Al Miller canta e soffia di gusto nella sua armonica quello che si è soliti definire il “blues originale”, come dice anche Scott Dirks nelle note del CD. Sarà poi vero? Ai posteri, e alla nostra macchina del tempo parcheggiata, l’ardua sentenza, per il momento archiviamo alla voce “piacevolmente demodé”!

Bruno Conti