Giovanotti Di Belle Speranze! Matthew Curry And The Fury – Electric Religion

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Matthew Curry And The Fury – Electric Religion – matthewcurry.com

Ancora un altro giovane “fenomeno” della chitarra? Ebbene sì! Tradotto in soldoni, trattasi di un nuovo chitarrista (e cantante) che si affaccia sulle scene del rock e del blues. Per fortuna ce ne sono sempre di nuovi da scoprire: evidentemente anche in questi tempi duri per la “musica vera”,  tra una boy band e un talent show, quelli bravi cercano di coesistere con i “miti di plastica” e ritagliarsi un loro spazio attraverso il circuito dei concerti e il passaparola tra gli appassionati. Il giovanotto, Matthew Curry, cura anche il lato estetico, bella pettinatura, adatta ad un ragazzo di 19 anni (ma ne dimostra anche meno), però c’è anche parecchia sostanza in questo Electric Religion, che è già il suo secondo disco https://www.youtube.com/watch?v=WviBuAv7WKg . Presentato dalla stampa come un incrocio tra Joe Cocker e un giovane Jeff Beck, a chi scrive sembra piuttosto una via di mezzo tra il primo Johnny Lang, quello più genuino e ruspante e mister Stevie Ray Vaughan, via Jimi Hendrix (è un mancino), con qualche tocco southern blues. Accompagnato dalla sua band, The Fury, dove opera pure un bravo tastierista, tale Erik Nelson, Curry si scrive le canzoni insieme ai suoi soci, il bassista Jeff Paxton e il batterista Greg Neville, e pazienza se i brani ricordano molto cose già sentite, come si dice nessuno nasce “imparato”, quindi il rock classico e il blues sono, spesso anche con una patina radiofonica non fastidiosa ma che dà un tocco di contemporaneità, gli ingredienti base della ricetta di questo disco, poi ci pensano la bravura di Matthew alla solista, la sua bella voce e una notevole varietà e freschezza negli arrangiamenti e nella costruzione dei brani a farne un prodotto che vale la pena di ascoltare.

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Uno che se ne intende di queste contaminazioni tra rock classico, quello commerciale e il blues, come Steve Miller, lo ha voluto in qualità di opening act nel suo recente tour americano. Il disco di cui ci stiamo occupando è in effetti già uscito da qualche mese, ma circolando a fatica nei circuiti della musica indipendente pochi se ne sono accorti, per cui cerchiamo di dargli una piccola spintarella promozionale, visto che merita https://www.youtube.com/watch?v=KfhAtTeUExk . Il primo brano, Love Me Right, ricorda molto le sonorità del primo Johnny Lang, ma anche, se preferite, quelle di John Mayer, di Bonamassa, persino il Jeff Healey dei brani più orecchiabili, un richiamo ai Cream qui, un tocco radiofonico là, l’organo a creare un tappeto sonoro per le evoluzioni della solista, una bella voce, potente e trascinante e il gioco è fatto. Se poi Matthew Curry lascia spazio al rocker che alberga nel suo spirito, Set Me Free potrebbe essere Hey Joe come l’avrebbe fatta SRV se fosse vissuto ai giorni nostri, riff inconfondibile, solito organo, chitarra che comincia a tagliare l’aria e sezione ritmica che picchia con giudizio, niente di trascendentale ma del solido rock-blues di impronta texana.

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Introdotta dal piano di Nelson Six String Broken Heart è una bella ballata rock, sempre con la chitarra in evidenza e con la voce di Curry che dimostra una sorprendente maturità per la sua giovane età. In questa alternanza tra un rock più commerciale e il migliore blues-rock, Put One Over sembra una traccia perduta dei Double Trouble di Stevie Ray, grinta e classe a volontà, assolo di organo e poi quello di chitarra, la ricetta è proprio perfetta (scusate la rima). Hundred Dollar Feet costruita attorno ad un riff corposo di basso e batteria viene dalla scuola sudista degli ZZ Top https://www.youtube.com/watch?v=PcObdUqxTvg , chitarra che oscilla tra wah-wah e slide, voce carica di “effetti” e poi l’assolo che esplode dalle casse dell’impianto, come si diceva un tempo, ma anche oggi, play loud! JMH, un titolo che potrebbe sembrare criptico, non lo è per l’enigmista e l’appassionato di musica che convivono nel sottoscritto: non sarà per caso J come James, M come Marshall e H come Hendrix, strano! Se poi il brano cita Fire, All Along The Watchtower, Voodoo Child  nel testo, e tanti altri piccoli passaggi che rimandano alla musica del più grande chitarrista della storia della musica rock, non ultimo l’assolo selvaggio che fuoriesce dalla chitarra di Curry, il gioco è fatto.

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Anche la successiva Genevieve è molto hendrixiana, mentre Bad Bad Day è il classico slow blues che non può mancare in un disco di un virtuoso della chitarra, ben sostenuto dal piano e dall’organo di Nelson il nostro Matthew dimostra che tutto quello di buono che si dice su di lui è assolutamente meritato https://www.youtube.com/watch?v=yWmU793w3gs . Ancora un fantastico composito di Jimi e Stevie Ray per una funky Down The Line che avrebbe fatto un figurone anche su Texas Flood https://www.youtube.com/watch?v=Mq_iW2x5sNw . La conclusione è affidata a Louanna, una ballata pop-rock radiofonica che forse c’entra poco con il resto ma è comunque assai piacevole. Ci siamo capiti?!

Bruno Conti

Manca Una Gamba, Ma Il “Cuore” C’è Sempre! Leslie West – Still Climbing

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Leslie West – Still Climbing – Mascot/Provogue/Edel 29-10-2013

Come sosteneva il noto medico chirurgo e “canzonettista” milanese Enzo Jannacci –  La televisiun la g’ha na forsa de leun – anche se  poi, ironicamente, faceva rima con cuiun: anche la musica ha una forza da leone, e Leslie West, dopo l’amputazione sostenuta nel 2011, a seguito delle complicazioni di un diabete mal curato, torna, più forte che mai, con questo nuovo album, Still Climbing, il secondo del nuovo ciclo, dopo Unusual Suspects, e che cita, fin dal titolo, il primo album del gruppo che ha fatto la fortuna del newyorkese Leslie Weinstein, i Mountain. E il buon vecchio Leslie, 68 anni quest’anno, quella montagna non ha mai cessato di scalarla. La sua carriera era iniziata con il garage psichedelico dei Vagrants, celebrato anche da Lenny Kaye nel primo Nuggets, dove era contenuta una versione gagliarda di Respect del grande Otis.

I Mountain di West e del grande Felix Pappalardi  sono state una delle migliori band rock-blues, sin dal loro esordio a Woodstock nel 1969 e poi con una serie di album notevoli nella prima metà degli anni ’70, tuttora in attività sino ai giorni nostri, anche se Pappalardi non c’è più, ucciso a colpi di rivoltella, per gelosia, dalla moglie Gail. Sull’argomento, ricordando con affetto il vecchio pard, West ha detto scherzando, che, nel 2009, in occasione dei 40 anni da Woodstock, ha preferito sposare sul palco, quella era che la sua compagna, per evitare future sorprese. Tornando all’album, anche questo disco, come il precedente, si avvale della presenza di vari ospiti. In Unusual Suspects c’erano Billy Gibbons, Zakk Wylde, Slash, Steve Lukather e Joe Bonamassa, per questo Still Climbing il parterre è meno ricco ma qualche nome di prestigio c’è, li vediamo mano a mano.

Come nel precedente, molti dei testi dei brani sono firmati dalla moglie Jennifer, con l’aggiunta di una buona scelta di cover e riprese di vecchi classici: l’apertura, uno dei brani più duri della raccolta, è Dyin’ Since The Day I Was Born, che lo vede affiancato da Mark Tremonti, l’attuale chitarrista degli Alter Bridge e prima dei Creed, per una cavalcata tra hard e light metal, dove West sfoggia una voce che è di nuovo simile al ruggito (parlando di leoni) che aveva ai tempi d’oro, dopo che negli ultimi anni, per i noti problemi di salute, dovuti ad anni di bagordi, ha smesso di fumare. Il secondo brano è una delle piacevoli sorprese di questo CD, che non è sicuramente un capolavoro ma si lascia ascoltare piacevolmente senza inutili lungaggini ed eccessi chitarristici come ai tempi di Nantucket Sleighride, il brano si chiama Busted, Disgusted Or Dead, ed è una poderosa cavalcata nel blues, con un duello a colpi di slide con il vecchio compagno di avventura, Johnny Winter, poco più di 3 minuti, il minimo sindacale, ma che grinta, ragazzi. Fade Into You addirittura si apre su una serie di arpeggi di Leslie all’acustica, ma non temete è questioni di attimi, si riprende subito a picchiare a tempo di rock, in questa hard ballad dove anche le tastiere, oltre all’immancabile solista del titolare hanno il giusto spazio, insieme ad una vena melodica che è sempre stata presente nel DNA del musicista americana sin dai tempi della sublime Theme From An Imaginary Western, non siamo a quei livelli, e ci mancherebbe, ma ci si difende.

Not Over You At All è ancora classico Power trio rock, anche se bisognerebbe dire quartet, visto che c’è l’inconsueta presenza di un sax a duettare con la chitarra di West. Anche Tales Of Woe vede la presenza di una chitarra acustica che si riverbera sull’elettrica in questo brano dall’atmosfera più raccolta e ricercata, comunque nelle corde del gigante americano, mentre il rock ritorna cattivo in una cadenzata Feeling Good introdotta da piano e organo e che poi si trasforma in un duetto (non malvagio) con Dee Snider, il frontman dei Twisted Sister, che non sarebbe proprio una mia prima scelta, potendo, ma forse sono rapporti di buon vicinato tra vecchi newyorkesi. Hatfield & McCoy è un altro dei brani migliori del CD, un brano a guida slide che ricorda molto il classico southern anni ’70, un genere poco frequentato nel passato ma che in questo caso rende bene. Ancora più indietro risale la passionaccia per il classic soul, con una cover dell’immortale When A man Loves A Woman (Percy Sledge & Otis Redding), un bel duetto con un ruspante Johnny Lang, di nuovo in forma, dopo le titubanze dell’ultimo album. Anche meglio la ripresa di Long Red, un brano che si trovava nel primissimo Leslie West Mountain, e che se è stata ripresa anche da uno come Christy Moore, un fascino deve averlo avuto e risentita oggi, in un bell’arrangiamento che dà ampio spazio all’organo Hammond (come in molti brani del disco peraltro), conferma il valore del disco. Manca una gamba, ma non la classe.                     

Bruno Conti  

Più Un Grosso Petardo Che Una “Bomba”, Ma Il Botto Lo Fa! Dave Fields – Detonation

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Dave Fields – Detonation –Field Of Roses Records

Premessa. Secondo il sottoscritto non bisognerebbe mai assegnare due stellette in una recensione di un disco, equivale al vecchio 4 a scuola, piuttosto non lo recensisci, e vi assicuro che dischi in giro che meritano due stellette ma anche una ce ne sono a bizzeffe, meglio ignorarli. Ma se si decide di parlare di questi dischi il dilemma si pone. Questo Detonation è uno di quei dischi, secondo il parere del sottoscritto, che meriterebbe due stellette ma…Dave Fields è un signor chitarrista, di quelli della categoria “esagerati”, tecnica notevole, suono vigoroso e facilità nell’assolo disarmante, ma il genere, diciamo un rock-blues-hard-power trio, non lo aiuta, se poi aggiungiamo che il produttore è un tipo come David Z, uno che non ho mai amato anche se ha vinto 2 Grammy con dischi di Etta James, che ha la tendenza a caricare il suono con riverberi, filtri vocali, molte tastiere e tutte le diavolerie che ti regala la tecnologia, molto professionale ma anche “invadente”.

Quindi fate finta che la terza stelletta sia tutta da assegnare al lavoro della solista di Fields, tra Hendrix e Stevie Ray Vaughan per il tipo di sonorità, ma con una tendenza fastidiosa a caricare eccessivamente queste influenze sacrosante e spostarle verso lidi non dissimili a quelli di un Lenny Kravitz (altro patito di Jimi) o addirittura certo AOR americano, ballate hard power rock melodiche come Same Old Me o il reggae-rock plastificato di Bad Hair Day che mi sembra “E la luna bussò” con il wah-wah (magari, senza volere, gli sto facendo un complimento!), tutte comunque redente da poderosi soli che risollevano le sorti del brano. La riffatissima The Altar potrebbe rientrare nella categoria dei brani più commerciali di Johnny Lang (e infatti David Z gliene ha prodotti un paio) o Kenny Wayne Shepherd quando si allontanano dai sentieri del blues-rock per un hard rock più di maniera, in confronto i bistrattati, da alcuni, Black Country Communion di Bonamassa fanno del rock progressivo.

Ci sono anche note positive: il bel rock-blues cadenzato di Better Be Good al crocevia tra Bonamassa, Vaughan e Robben Ford, l’iniziale tirata Addicted To Your Fire, un incrocio tra le sparate di SRV e le trame hendrixiane del Jimi più commerciale con improvvise orge di wah-wah e passate di organo anni ’70, ma anche il blues lento e selvaggio di Doin’ Hard Time, in accoppiata con Joe Louis Walker con chitarre e voci che si incrociano, non è male. Anche Prophet in Disguise ha una atmosfera vagamente psichedelica e soluzioni strumentali interessanti e Pocket Full Of Blues è un altro rock-blues lento con chitarra e organo in evidenza, ma non mi piace quella voce filtrata che copre le magagne della voce di Dave Fields che strilla troppo. Dr.Ron è di nuovo Lenny Kravitz che fa Hendrix e Lydia invece è Fields che fa sempre Hendrix (meglio), con molto lavoro su toni e volumi in questo strumentale che permette di apprezzare nuovamente il suo virtuosismo indubbio e meritare quella stelletta in più. La hard ballad You Will Remember Me conclude senza particolare gloria questo disco che “detona” solo saltuariamente, ma potrebbe incontrare il favore dei patiti del genere!

Bruno Conti

Provaci Ancora Eric, Una Anteprima? Eric Johnson – Up Close Another Look

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Eric Johnson – Up Close Another Look – Mascot/Provogue/Edel 02-04-2013

Eric Johnson è un fantastico chitarrista texano che, nella sua carriera che dura ormai da una trentina di anni (almeno a livello discografico), ha realizzato solo una manciata di album di studio, sei per la precisione, compreso questo Up Close, oltre ad un disco, Seven Worlds, registrato nel 1978 ma pubblicato solo 20 anni dopo, uno dal vivo della serie Live From Austin, Texas nel 2005 (ma registrato nell’88), oltre alla sua partecipazione come un terzo della “società” in una delle varie incarnazioni dei G3, insieme ai Joe Satriani e Stevie Vai. E per lui, come per molti altri, il migliore rimane ancora il primo ufficiale, Tones, uscito nel lontano 1986 per la Reprise, eccellente disco prevalentemente strumentale che ebbe un grosso successo sia di critica che di pubblico in quell’anno, disco che si inseriva in quel filone tra prog, rock, southern e blues dove operavano gruppi come i Dixie Dregs di Steve Morse, tanto per fare un nome, o il materiale meno bluesy di Robben Ford, virtuosi della chitarra elettrica per intenderci, e anticipatore del successo che avrebbero ottenuto i suoi futuri pard Joe Satriani e Steve Vai (già in pista ma noto soprattutto per le collaborazioni con Frank Zappa).

Senza farla troppo lunga ma dandogli i giusti meriti, Eric Johnson, ha avvicinato quei livelli qualitativi solo con il successivo Ah Via Musicom del 1990, poi creandosi una nicchia di appassionati, un seguito di culto, che ha continuato a comprare i suoi dischi ma con minore entusiasmo anche negli anni successivi, fino ad arrivare al 2010, l’anno di questo Up Close, uscito ai tempi solo sul mercato americano per la Vortexan/EMI, ma non distribuito in Europa, e che è di gran lunga il suo disco migliore dopo Tones, ma cosa ti va a pensare quel “diavolo” di un Johnson, facciamone una versione aggiornata per il mercato europeo, quell’Another Look, come avranno notato i più attenti: come dice lo stesso Eric Johnson, si è limitato ad aggiungere alcune parti di chitarra ritmica e a remixare il tutto, e la differenza è molto sottile, praticamente non si percepiscono i nuovi interventi, ma il disco suona meglio all’ascolto e se lo dice lui chi siamo noi per negarlo? Quindi prendiamo nota senza peraltro poter fare a meno di notare che questa nuova edizione ha due brani in meno di quella del 2010, strano ma vero, si toglie invece di aggiungere, anche se per onestà si tratta di due brevi intermezzi di poco più di un minuto ciascuno.

Ma quello iniziale, un intramuscolo orientaleggiante di 1:05, Awaken, è rimasto. Fatdaddy è il primo brano strumentale dove, a velocità vorticose, la chitarra solista di Johnson interagisce con una ottima sezione ritmica con vari batteristi che si alternano, Kevin Hall, Barry Smith e Tommy Taylor e il grande Roscoe Beck al basso, con lui da inizio carriera. Brilliant Room è il primo brano cantato, con ospite come vocalist il bravo Malford Milligan, altro texano che era negli Storyville (ve li ricordate?) il gruppo di David Holt e David Grissom con la sezione ritmica dei Double Trouble, un gruppo che ha non tenuto fede alle promesse, ma aveva molte potenzialità, il brano è un veloce rock, anche commerciale, ma con una verve ed un lavoro di suoni e chitarre che molta produzione attuale non ha (dipenderà dal fatto che il co-produttore è tale Richard Mullen ma l’ingegnere è Andy Johns, della premiata famiglia?), un sound fantastico. E sentite come suonano il Blues, in una cover eccellente di Texas (tema che ritorna), il vecchio brano firmato Mike Bloomfield/Buddy Miles che si trovava sul disco degli Electric Flag, per l’occasione a duettare con Johnson troviamo un pimpantissimo Steve Miller alla voce e Jimmie Vaughan alla seconda solista, cazzarola come suonano! Gem è uno di quei brani strumentali stile Prog-rock dove il nostro Eric esplora a fondo la sua tavolozza di colori e suoni per la gioia dei fanatici della chitarra.

Tra i titoli non manca Austin, altro ottimo duetto a tempo di rock con un Johnny Lang in gran vena e la chitarra di Johnson che crea traiettorie quasi impossibili senza scadere nelle esagerazioni di altri suoi colleghi virtuosi. La lunga Soul Surprise è un altro lento con i vocalismi senza parole del titolare e atmosfere sempre molto ricercate. On The Way è un ulteriore strumentale, molto Twangy & Country in questo caso, stile di cui è maestro Albert Lee. Senza citarle tutte, ma non ci sono cadute di gusto, vorrei ricordare il tributo in apertura (una piccola citazione di Little Wing) all’Hendrix più sognante, nella ricercata A Change Has Come To Me e il duetto molto melodico con la slide di Sonny Landreth in Your Book. Una delizia per gli amanti della chitarra elettrica, come tutto il disco peraltro.

Bruno Conti

Come Due Piselli In Un Baccello. Aynsley Lister – Tower Sessions

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Aynsley Lister – Tower Sessions – Manhaton Records

Niente paura non vi devo parlare per l’ennesima volta dell’ultimo Jonny Lang, semplicemente mi sembrava simpatico rispolverare la vecchiia gag di Stanlio e Olio in quanto i due giovani rampanti bluesmen dalle opposte coste dell’oceano mi sembrano appunto come due piselli in un baccello, ma veniamo a Aynsley Lister.

Questo Tower Sessions è il classico “finto” disco dal vivo, una categoria (sia pure esigua) che non finisce mai di stupirmi: in pratica si tratta di cun album Live ma senza il pubblico.
Naturalmente la giustificazione data da parte di Aynsley Lister sul suo sito non è che convinca molto: in pratica il concerto dal vivo, quello classico, con il suo bel pubblico, era stato registrato, proprio lì al Tower di Winchester, Regno Unito ma lo “spirito” non era quello giusto, la formazione allargata a quattro che ha registrato questi concerti era da poco insieme e non rodata, quindi il risultato finale e il suono non era quello che si aspettavano. E allora di nuovo tutti insieme appassionatamente al Tower per registrare questo CD e, miracolo, tutto funziona alla perfezione, devo dire anche per chi ascolta il risultato finale.

Aynsley Lister è un giovane (ma non più giovane) di 33 anni che approda con questo al suo undicesimo disco ( il Live Pilgrimage in collaborazione con Ian Parker e Erja Lyytinen come Blues Caravan compreso): una carriera discografica con i suoi alti e bassi iniziata nel lontano 1996 e che ha molte similitudini con il suo omologo americano Johnny Lang. Entrambi iniziano come giovani prodigi del Blues e poi, un poco alla volta spostano il proprio raggio d’azione verso una musica più vicina al rock mainstream senza mai dimenticare il primo amore.

A differenza di Lang, Lister non ha una voce eccezionale (almeno per il gusto del sottoscritto)  ma più che adeguata alla bisogna e adattabile alla svolta più rock intrapresa con l’album Equilibrium dello scorso anno. Questo Tower Sessions, scherzi a parte, non avrà il pubblico presente ma documenta un signor concertp, vivo e pimpante con la nuova formazione allargata a quattro elementi il suono è più brillante e vario che nei dischi precedenti e Lister rimane un chitarrista dalla tecnica formidabile in grado di sciorinare una serie di assoli fantastici e molto diversificati tra loro come i brani che li ospitano.

Si parte dal classico rock-blues tiratissimo dell’iniziale Soundman con il suono dell’organo che fa da collante alla furia chitarristica di Lister che sfocia in un gagliardo assolo con wah-wah da antologia del rock, si passa al boogie blues con slide d’ordinanza (evidentemente la frequentazione concertistica sudista con ZZTop e Lynyrd Skynyrd ha dato i suoi frutti) dell’ottima Sugar Low.

Poi, subito, in apertura di concerto, arriva una delle due cover previste dal programma: si tratta di Purple Rain, uno dei cavalli di battaglia del repertorio di Lister ma che, per vari motivi non aveva mai trovato posto nei dischi in studio e dal vivo della sua discografia, questa è la volta buona per ascoltare la sua versione, molto richiesta dai suoi fans. Il brano ormai è diventato una sorta di standard del rock degli ultimi anni ed è anche uno dei pochi brani di Prince che mi piace e parecchio, sarà pure un brano “ruffiano” con i suoi stop and go che portano al crescendo finale ma ha un suo perché e questa versione, molto fedele all’originale, differisce proprio nell’assolo finale meno catartico che nella versione di Prince, ma molto misurato e tecnicamente ineccepibile oltre che godurioso come si conviene a questo tipo di assoli.

Il blues viene celebrato ancora nell’ottimo strumentale Quiet Boy! che evidenzia la grande fluidità della chitarra di Lister, mentre Early Morning era la classica rock ballad che faceva la sua bella presenza nell’ultimo disco di studio, nella versione dal vivo acquista ulteriore vivacità. What’s it all about è un altro bel midtempo rock che illustra di nuovo la varietà di stili del “ragazzo” che si consolida nell’ottima Hurricane, sempre su questi lidi rock più mainstream ma di spessore e la chitarra scivola sicura sulla base creata dall’organo hammond dell’ottimo Dan Healey.

Hero segue le piste dei grandi gruppi blues-rock britannici dei primi anni ’70 con i suoi riff ficcanti e precede il classico blues d’atmosfera, With Me Tonight, con i suoi cambi di tempo e assolo liberatorio. Rimane la cover immancabile,  che rivela gli amori giovanili e le influenze dell’età adulta, la classica Crosstown Traffic del sempre più inarrivabile Jimi Hendrix a quarant’anni dalla sua scomparsa. Conclude una piacevole In The Morning ancora con la slide in evidenza.

Bruno Conti

Questo Le Mancava! Cyndi Lauper – Memphis Blues

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Cyndi Lauper – Memphis Blues – Downtown Records

Nel 2003 con At Last aveva rivisitato il repertorio “classico” (dalla Vie En Rose a Walk On By, da My Baby Just Cares For Me a Unchained Melody e via dicendo). Nel 2005 con Body Acoustic ha rivisitato il “suo repertorio classico” con risultati altalenanti, ottima Time After Time con Sarah McLachlan, ma un brano suonato da un arco di musicisti che va da Miles Davis a Tuck & Patty è diificile farlo male, da dimenticare la versione di Girls Just Want To Have Fun con Puffy AmiYuni (ma chi cacchio è?), molto bella Sisters of Avalon con Ani DiFranco e Vivian Green. Nel 2008 ha visitato anche la disco-dance con Bring Ya To The Brink, non commento. Ma il salto ad un disco di blues non se lo sarebbe aspettato nessuno!

E invece nel mese di marzo di quest’anno è entrata agli studi Electraphonic di Memphis, Tennessee con un manipolo di valorosi tra cui il produttore Scott Bornar, il suo ingegnere preferito William Wittman (di cui vi parlavo giusto ieri in relazione al disco di Ruth Gerson, ma è tutto collegato, una cosa tira l’altra) e alcuni musicisti che hanno fatto la storia del Blues e del soul, non saranno famosi ma vengono dalla Stax e dalla Hi Records (la sezione ritmica), sinonimo di garanzia e qualità, quattro fiati, chitarra, basso, batteria e tastiere, formazione classica.

Naturalmente non manca una sfilata di ospiti che aggiunge spessore ai contenuti dell’album: non sarà il suo genere, avrà l’accento del quartiere Queens di New York (io non ho la capacità di capirlo ma mi dicono che il paragone potrebbe essere come se un bergamasco cantasse dei classici della canzone napoletana), ma a me il disco non dispiace, si vede che c’è impegno e passione, l’esperienza acquisita in quasi trenta anni di carriera e un sincero amore per questo repertorio tra blues e soul.

Il disco è stato pubblicato il 22 giugno, giorno del suo compleanno (non si dovrebbe dire ma è del 1953) da una nuova etichetta la Downtown e consta di 11 brani: si va da I’m Just Your Fool, una energica blues ballad trascinata dall’armonica di Charlie Musselwhite, dove la voce della Lauper è un po’ sopra le righe (ma è una sua caratteristica) per passare a un’ottima Shattered Dreams dal repertorio di Lowell Fulsom, qui l’arrangiamento con fiati e tastiere e l’ottimo Allen Toussaint al piano meglio si adattano alla nostra amica Cyndi che se la cava egregiamente. Early In The Mornin’ era di Louis Jordan, ma l’hanno fatta tutti i grandi, qui a spronare una disinvolta Cyndi Lauper ci sono la chitarra e la voce di mastro B.B. King e di nuovo il piano di Toussaint, bella versione, leggera e appassionata allo stesso tempo e tutti si divertono.

Romance In The Dark è una bellissima ballata R&B con fiati di repertorio, cantata con la giusta misura anche se la voce non è quella dei grandissimi. In How Blue Can You Get Johnny Lang fa il BB King della situazione e con la sua chitarra e un breve intervento vocale sostiene ottimamente la Lauper. Torna Musselwhite per una nuova energica cavalcata blues in Down Don’t Bother Me e qui mi sembra che la “ragazza” cominci a calarsi con gusto nella parte, niente male.

Don’t Cry No More era un vecchio successo di Bobby Blue Bland ma la faceva anche Wilson Pickett e mi sembra che lo spirito soul del brano sia stato centrato in pieno in questa esuberante versione. In Rollin’ & Tumblin’ si recupera addirittura il feeling dei vecchi blues anni ’50, il duetto con la diva del soul di Memphis Ann Peebles è da manuale, la slide di Kenny Brown graffia alla grande, obiettivo centrato in pieno.

Down So Low l’hanno cantata in tanti, io ne ricordo una grande versione di Etta James, ebbene devo dire che la brava Cyndi, in questo brano cava dal cilindro una sentita interpretazione quasi gospel, sofferta e vicina ai suoi limiti vocali ma molto bella. Mother Earth è il terzo brano che si avvale del piano di Allen Toussaint e in questo classico di Memphis Slim il grande musicista di New Orleans dà il meglio di sé e supporta da par suo una Lauper leggermente sottotono.

Crossroads non mi sembra adatta alle sue corde, anche vocali e Johnny Lang prende decisamente il sopravvento sia a livello vocale che chitarristico risultando il vero protagonista di questo brano che non entrerà negli annali delle migliori versioni di questo standard del blues pur essendo una versione più che onesta.

Surprise, surprise Cyndi Lauper sings the Blues, Memphis Blues e noi apprezziamo, vedere per credere.

Bruno Conti