Una “Voce Nera” Ancora Splendida, Benché Quasi Sconosciuta. Dorothy Moore – I’m Happy With The One I’ve Got Now

dorothy moore i'm happy with the one i've got now

Dorothy Moore – I’m Happy With The One I’ve Got Now – Farish Street Records Of Mississippi

Dorothy Moore è una delle tante piccole leggende di culto della musica nera: viene da Jackson, Mississippi e in quell’area opera ancora oggi. Ha fondato la propria etichetta indipendente, la Farish Street Records (Of Mississippi, aggiunge lei orgogliosamente) con la quale pubblica i propri CD dall’inizio degli anni 2000 . Comunque pure in questi difficili tempi di coronavirus ha pubblicato un album nuovo (anche se poi, viste le difficoltà attuali, non sarà facile reperirlo, quindi forse, in attesa di tempi migliori, toccherà ascoltarlo in streaming o download), questo I’m Happy With The One I’ve Got Now che fa seguito a Blues Heart del 2012: la nostra amica ha una carriera gloriosa alle spalle, costellata da nominations ai Blues Music Awards e ai Grammys, negli anni ‘70 ha avuto parecchi successi, tra i quali Misty Blue, I Believe You e la cover di Funny How Time Slips Away di Willie Nelson https://www.youtube.com/watch?v=h5FoHLD9-lM .

Poi ha proseguito negli anni con regolarità, soprattutto con album su Malaco e Epic, e ancora oggi, a 73 anni suonati, è in possesso di una voce calda, profonda, risonante, che non risente dello scorrere del tempo, se non donandole una patina di vissuto affascinante, e continua ad incantare con il suo stile che attinge dal blues, dal soul, dal gospel, affidandosi ad una pattuglia di autori, tra i quali spiccano la leggenda della Stax Eddie Floyd, la brava E.G. Kight (di cui anni fa avevo recensito un paio di album per il Buscadero), e altri meno conosciuti, anche Johnny Neel del giro Allman Brothers. Quindi tutto materiale originale, con la sola eccezione di una cover di Crazy dell’amato Willie Nelson, che la Moore esegue con l’aiuto di una nutrita pattuglia di musicisti locali: chitarra, basso, batteria e tastiere, una piccola sezione archi e una di fiati, per un suono corposo e anche “contemporaneo”, ma legato comunque alla tradizione, non faccio i nomi perché sono sconosciuti, ricordo solo il chitarrista Caleb Armstrong.

La title track, firmata dalla Kight, da Neel e da Joanna Cotton è un robusto blues fiatistico, dove la Moore incanta con la sua voce potente ed espressiva, e la band la appoggia con un suono di grande spessore e calore, mentre You Don’t Say No del grande Eddie Floyd è una soul ballad deliziosa, un filo ruffiana, ma ci sta, cantata con grande partecipazione dalla Moore, ben spalleggiata anche da un paio di voci femminili di supporto. There Comes A Time, scritta da Gregory Abbott (quello di Shake You Down per intenderci) è un’altra contemporary soul ballad, ben congegnata, anche se forse più scontata, per quanto Dorothy ci metta del suo, Everything About Your Lovin’ ha un andamento più funky, 70’s style, un po’ Earth, Wind & Fire, un po’ Rufus, con coretti e arrangiamenti di fiati tipici di quella decade https://www.youtube.com/watch?v=7CIJ5jNMd-o , con Sad Sad Sunday, dove brilla la chitarra di Armstrong, che è un blues lento di quelli duri e puri, carico di elettricità e grinta.

La cover di Crazy, con archi scivolanti, rende omaggio ad uno degli standard della canzone americana, una versione melanconica ed orchestrale, forse leggermente “datata”, ma con la voce sincera e navigata della Moore a sostenerla https://www.youtube.com/watch?v=Y6L-Qp4RKVQ , anche You Don’t Have To Tell Me, scritta da Jim Wheatherly, suo collaboratore abituale, è una ballatona romantica, dagli arrangiamenti magari troppo “carichi”, ma che si lascia ascoltare grazie alla voce sempre affascinante di Dorothy, lasciando all’altro pezzo di Eddie Floyd I’ll Get By, una ulteriore vellutata ballata cantata a gola spiegata da Dorothy Moore, il compito di chiudere un onesto album dedicato a chi ama le belle voci nere, latitante per l’occasione nel settore gospel, ma comunque estremamente piacevole e godibile nell’insieme.

Assolutamente da (ri)scoprire!

Bruno Conti

Dickey Betts: L’Altro Grande Chitarrista Degli Allman Brothers, Parte II

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Seconda parte.

Per il successivo disco di studio dovremo aspettare dieci anni, quando uscirà

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Dickey Betts Band – Pattern Disruptive – Epic 1988 ***

Curiosamente anche in questo album ci sono due futuri componenti della allora imminente nuova edizione degli Allman, quella 1989-1990, ovvero Warren Haynes alla seconda solista e Johnny Neel alle tastiere, con Butch Trucks e Matt Abts alla batteria. Formazione della Madonna, le canzoni un po’ meno, anche se le prime quattro portano la firma Betts/Haynes/Neel, che in tutto firma come co-autore ben 8 dei 10 brani: però a livello strumentale il suono è solidissimo anche se un po’ pompato e commerciale a tratti (Heartbreak Line è quasi AOR rock), ma sentite come suonano nell’iniziale Rock Bottom, in Time To Roll e in Blues Ain’t Nothin.

Bello pure il tributo strumentale al vecchio amico in Duane’s Tune, ma forse complessivamente ci si poteva aspettare di più, anche se probabilmente anni di eccessi con droghe e alcol fanno sentire il proprio effetto, e mentre Gregg Allman provvederà a disintossicarsi, all’inizio degli anni ’00 gli altri della band lo metteranno (non tanto) gentilmente alla porta. A questo punto il nostro amico rimette subito in azione il suo altro gruppo, con nuovi elementi e fa uscire

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Dickey Betts Band – Let’s Get Together – 2001 Free Falls Entertainment – ***1/2

La band è composta da  Mark Greenberg e Frank Lombardi alle batterie, Kris Jensen, sax e flauto, Dave Stoltz al basso, Mark May alla seconda chitarra, e Matt Zeiner alle tastiere, più qualche ospite, e all’interno del libretto c’è una foto di gruppo con mogli e figli che vorrebbe ricordare gli anni felici della “comune” Allman Brothers. Il disco è piuttosto buono nell’insieme: Rave On è un grintoso blues shuffle strumentale dove l’uso di sax e fiati aggiunge profondità e l’interscambio tra un ispirato Betts, che come chitarrista non si discute certo, e May, entrambi impegnati a scambiarsi fendenti alle rispettive Les Paul, è eccellente, sembrano quasi gli Allman.

La title-track con Donna Bonelli alle armonie vocali è uno spiritato errebì con il riff “ispirato” dal vecchio brano di Wilbert Harrison, rimanda al suono dei migliori ABB, twin guitars a go-go e anche l’impiego di un inconsueto wah-wah aiutano; Immortal  e il lento Call Me Anytime, entrambe cantate con voce vissuta da Zeiner hanno chiari retrogusti soul. Ma i due pezzi forti del CD sono le lunghe, oltre i dieci minuti, One Stop Be-Bop, dove Il nostro rivisita con classe e grande perizia strumentale tutto lo scibile musicale, dal jazz in tutte le forme, be-bop, swing e fusion, al southern rock,  con un corposo aiuto dal sax di Jensen e dalla seconda chitarra di May, e anche i 12 minuti di Dona Maria riservano qualche sorpresa, con uno stile latin rock molto santaneggiante, suonato con grande souplesse e tecnica sopraffina.

Niente male anche la ballatona country-southern Tombstone Eyes, a dimostrazione che questi brani non li sapeva scrivere solo Gregg, e Betts la canta pure con grande enfasi e trasporto. Un bel disco che viene seguito l’anno successivo dal ritorno dei Great Southern con quello che è, e temo rimarrà, l’ultimo strano album di studio del musicista della Florida.

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Dickey Betts & Great Southern – The Collectors #1 –  2002 Self Released  ***1/2

In effetti si  tratta di uno “strano” disco registrato con lo stesso personale di Let’s Get Together, principalmente materiale elettroacustico, proveniente dalle stesse sessioni, qualche jam, qualche versione alternativa, molto materiale strumentale, tanto che poi è uscito in Inghilterra in un doppio CD della Evangeline del 2009, ora Retroworld, in un twofer appunto con Let’s Get Together. Dickey Betts suona la chitarra acustica in tutti i brani: tra cui una piacevole ed inconsueta Beyond The Pale che è un brano di raffinato folk celtico, una brillante versione western swing di Georgia On A Fast Train di Billy Joe Shaver, la parte 2 di One Step Bebop, sempre in modalità tra jazz e old time swing, un raro omaggio a Bob Dylan, con una bella versione di I Shall Be Released.

Non manca il blues del Delta con una sentita versione di Steady Rollin’ Man, solo voce, chitarra acustica e armonica, una lunghissima, oltre 14 minuti, e splendida versione del blues lento Change My Way Of Living, che in origine era uscita su Where It All Begins degli Allman Brothers, come pure Seven Turns, la title track del disco del disco del 1990 e un altro strumentale western swing come The Preacher. Forse inconsueto ma è un dischetto che vale la pena di cercare.

Questo è tutto per i suoi album di studio, ora una piccola

Selezione di Album Live, ufficiali, Instant, radiofonici, eccetera.

Senza voler essere esaustivi, perché a livello dischi dal vivo Betts è stato molto prolifico vediamo di segnalarne alcuni tra i più interessanti, anche in base alla attuale reperibilità. E dal vivo il nostro amico, nonostante i suoi  annosi problemi vari di dipendenza, e la comunque cospicua produzione con la ABB, sapeva sempre come dispensare emozioni a piene mani. Citando a caso tra i migliori il box da 2 DVD/3 CD Live At The Rockpalast 1978 & 2008 ***1/2, con i concerti dei Great Southern, con tutti i classici come In Memory Of Elizabeth Reed, Jessica, High Falls (30 minuti), Ramblin’ Man, Statesboro Blues, One Way Out e anche una lunga jam di 17 minuti con gli Spirit  in If I Miss This Train/Rockpalast Jam, tratta dal concerto della band di Randy California.

Sempre dal vivo in Germania Live From The Metropolis, Germany 2006***1/2, ancora con i Great Southern dove milita anche il figlio Duane Betts alla seconda solista e Andy Aledort addirittura alla terza chitarra, formula adottata negli ultimi anni. Tra i “radiofonici” ottimo il Live At The Coffee Pot 1983 ***1/2, iscito sia in doppio CD che in DVD ed attribuito ad una sorta di supergruppo con Dickey Betts, Jimmy Hall dei Wet Willie, Chuck Leavell e Butch Trucks (BHLT), che vista la presenza di Hall come cantante, a tratti vira anche verso soul e R&B.

Come saprete lo scorso anno Betts ha avuto seri problemi di salute, prima un leggero ictus, poi un incidente domestico per una caduta che gli ha provocato la frattura del cranio, da cui pare si sia ripreso, ma che ne hanno notevolmente limitato la capacità di essere autosufficiente e non si sa se sarà ancora in grado di suonare dal vivo, comunque poco prima di questi grossi problemi aveva fatto in tempo ad incidere un nuovo disco dal vivo CD + Blu-ray,  Ramblin’ Man: Live At The St. George Theatre ****, molto bello, probabilmente il migliore in assoluto, e di cui leggete in altra parte del Blog https://discoclub.myblog.it/2019/08/18/prima-delle-disavventure-andava-ancora-come-un-treno-the-dickey-betts-band-ramblin-man-live-at-the-st-george-theatre/

Bruno Conti

Veterani, Cittadini Onorari Di New Orleans. Fo’Reel – Heavy Weather

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Fo’Reel – Heavy Water – Self-released

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I Fo’Reel sono un gruppo nuovo, almeno per me, ma i “nomi” (almeno uno in particolare, Johnny Neel) non sono quelli di novellini: il leader e chitarrista, Mark Domizio, viene da Philadelphia, ma da molti anni vive ed opera in quel di New Orleans, il succitato Johnny Neel, grande tastierista (più volte anche con gli italiani W.i.n.d.) è una sorta di membro aggiunto del giro Allman Brothers, ma nel corso degli anni ha suonato con moltissimi bluesmen e rockers di pregio, il cantante C.P. Love ha una voce da cantante nero di quelle importanti (forse perché nero lo e davvero), ed è nativo dei dintorni di New Orleans, l’altro black in formazione è il bassista David Barard, ma nel disco suona un altro David, Hyde, poderoso bassista che ha suonato, tra gli altri, con Tommy Malone, Bobby Charles, Clarence Gatemouth Brown, come lui artisti della Louisiana. Quindi, per capire il genere dei Fo’Reel, pensate a blues, soul, R&B, rock, funky e frullateli insieme (o teneteli divisi, comunque si sentono tutti) e a gruppi come i Subdudes, o ancor di più i Radiators, magari con una quota rock little featiana meno presente, con il piedino che non può fare a meno di muoversi a tempo con il groove ed il sound del gruppo.

c.p.love mark domizio

Dicevo all’inizio che il nome mi è nuovo, forse anche perché questo Heavy Weather è in effetti il loro primo album (già in giro da qualche mese, ma con la solita difficile reperibilità che ultimamente molti dischi di buona qualità purtroppo hanno), ma la musica sicuramente non lo è, variazioni su generi musicali consolidati ma eseguite con classe e grande gusto. Il tono dell’album lo stabilisce subito il primo brano, una cover di Breaking Up Somebody’s Home, un classico del blues funky, che forse si farebbe prima a dire chi non lo ha fatto, perché nel corso degli anni si sono cimentati con questa canzone, tra i tanti, Albert & BB King, Etta James, Ann Peebles, ma anche Bob Seger, Bette Midler e, recentemente, anche Kenny Wayne Shepherd con Warren Haynes, nell’ultimo disco Goin’ Home; e la versione dei Fo’reel è veramente da manuale, un bel funky blues fiatistico (forse avevo dimenticato di dire che nella formazione c’è anche un ottima sezione fiati, guidata dal sassofonista Jon Smith), con la voce superba da soulman di C.P. Love che guida la band, contrappuntata dai pungenti soli della chitarra di Domizio, l’organo di Neel che scivola sullo sfondo e in primo piano con grande libidine e il groove perfetto della sezione ritmica. Ancora più funky-rock la title-track, con il walking bass di Hyde che ancòra il sound, e con i fiati all’unisono che pennellano impressioni della Louisiana e Domizio e Neel impeccabili ai rispettivi strumenti. Ma la band ha puree un secondo vocalist ed autore (che si alterna con Love), Rick Lawson, altro veterano della scena blues, soul & R&B, che viene da poco lontano, dalle sponde del Mississippi, la sua Leave Your Love Alone è una deliziosa variazione più swingante e jazzata (l’organo di Neel è veramente da manuale) della musica della band, mentre nella potente Blues (semplicemente) si viaggia verso un suono alla BB King, un po’ alla Thrill Is Gone, con chitarra limpida e tagliente e Neel che aggiunge un piano elettrico al solito organo, ma il risultato è tutto da sentire.

david barard johnny neel

Gate è un eccellente strumentale, probabilmente in onore di Clarence “Gatemouth” Brown, uno dei grandi della musica della Crescent City, con il classico dualismo chitarra-organo punteggiato dai fiati, mentre in What Can I Do un sognante brano dalla atmosfera latina quasi santaneggiante, ma con la chitarra di Domizio in modalità slide ad evitare paragoni con Carlos, torna la voce forse più espressiva di Love (comunque Lawson non è male) https://www.youtube.com/watch?v=MtYYvo9AckA  e Neel si divide sempre con profitto tra piano elettrico e Hammond. What’s Going On In My Home è uno di due successivi brani entrambi a firma Luther Allison, molto funky, con wah-wah in fase ritmica e notevole performance vocale di Love che si ripete nell’intensa blues ballad Just As I Am dove le tastiere di Neel sono sempre protagoniste https://www.youtube.com/watch?v=FNgwcJ1t1Po . A seguire altri due brani dell’accoppiata Domizio/Lawson, una Shake N Bake, dove si sfiora quasi il funky alla James Brown, arricchito dalla solista di Domizio e con organo e fiati sempre sugli scudi, notevole l’assolo di Smith https://www.youtube.com/watch?v=_JRt8bxB-8M , mentre Outside Love è blues allo stato puro, con slide in bella evidenza e gli altri strumenti ben delineati https://www.youtube.com/watch?v=DzjleYUYCVA . Curioso che chitarre, voci, fiati e basso siano stati registrati a New Orleans, mentre tastiere e batteria in quel da Nashville, dall’ascolto del disco dove tutto ha un feeling molto live non si direbbe. Per concludere manca un ulteriore vivace e trascinante strumentale come Tater, dove i fiati tirano la volata e gli altri solisti non sono da meno. Per parafrasare il nome del gruppo “Veerameente” bravi!

Bruno Conti

Da Omaha, Nebraska Un “Sudista” Convertito! Michael Lee Firkins – Yep

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Michael Lee Firkins – Yep – Magnatude/Magna Carta

Anche se Michael Lee Firkins è sempre stato considerato uno dei nuovi “fenomeni” della chitarra, un axeman funambolico, sin dalla sua apparizione con il primo omonimo album del 1990, pubblicato dalla Shrapnel di Mike Varney, tra critiche e musiche roboanti, capello lungo alla Yingwie Malmsteen (e un po’ anche la musica, stranamente però con echi roots, country e sudisti, un pizzico di Steve Morse, ma vicino pure a Vai e Satriani), ebbene, devo dire che al sottoscritto la sua musica non è mai apparsa irresistibile, pur apprezzandone le indubbie qualità tecniche, mi sembrava sempre “troppa”, non so se mi spiego, non sulla mia lunghezza d’onda. Dopo una decina di anni di onorata carriera Firkins ha avuto una sorta di ripensamento, di “crisi mistica” musicale, si è più volte ritirato nella sua città natale di Omaha, Nebraska, per studiare a fondo la sua musica ed il suo strumento.

E’ emerso una prima volta nel 2007, con l’album Black Light Sonatas che interrompeva il digiuno dei fans che durava dal 1999 del precedente Decomposition e introduceva le prime interessanti variazioni al suo stile; in alcuni brani erano presenti Matt Abts e Andy Hess, praticamente la sezione ritmica dei Gov’t Mule, e alle tastiere sedeva Chuck Leavell (per dirne tre con cui ha suonato, Allman, Stones, Clapton oltre ai suoi Sea Level) e la musica cominciava a dirigersi verso lidi più papabili per i miei gusti, anche se, aggiungo per i “chitarrofili,” nei vari dischi passati di Firkins ci sono fior di cover di Lynyrd Skynyrd, Rick Derringer, naturalmente Jimi Hendrix, ma anche la “Pantera Rosa” di Henry Mancini e Caravan di Duke Ellington, tutte suonate in modo incredibile (forse anche troppo) con la particolare tecnica di Michael Lee che non prevedeva l’uso del plettro, un vero virtuoso in sostanza. In questi anni di studio e ricerca il nostro amico ha “creato” una Reso-Electric Guitar, un incrocio tra una acustica Resonator e il corpo e il collo di una Fender Telecaster una sorta di slide, ma di quelle vigorosamente elettriche. Con undici nuove canzoni, niente cover, ha preso baracca e burattini e si è trasferito a Nashville, negli studi di Johnny Neel, dove lo aspettavano nuovamente Abts, Hess e Leavell, per registrare questa volta tutto il nuovo disco.

Michael Lee Firkins, in questi anni ha lavorato anche molto sulla propria voce e i risultati più che vedersi si sentono, per questo disco sfodera una voce da perfetto southern rocker. Ovviamente non ha perso neppure la sua prodigiosa tecnica, che però viene utilizzata in funzione delle canzoni e non solo per un mero sfoggio di bravura, anche se ci sono molti assolo che vi costringeranno ad andare a ricercare in giro per la stanza la vostra mascella che è caduta per terra per la meraviglia. Dalla Clapton anni’70 meets Allmans dell’iniziale Golden Oldie Jam dove la Reso e la solista di Firkins duettano con lo splendido organo old school di Leavell in modo magistrale e misurato, ho subito capito che questo è un disco ricco della “nostra” musica, spesso realizzato in presa diretta, senza sovra incisioni, con i quattro musicisti registrati live in studio, come nella deliziosa Cajun Boogie, ancora nella migliore tradizione del vecchio southern rock dei primi Lynyrd Skynyrd, già rivisitati da Firkins nel passato,ma qui presi solo come fonte d’ispirazione, sempre con quella solista che scorre velocissima sul groove solidissimo della sua band. No More Angry Man è un altro ottimo esempio del sound “roots” che Firkins per l’occasione riesce a cavare dalle sue chitarre, mentre Standing Ovation ancora con le splendide tastiere di Leavell ad affiancare le evoluzioni della solista ci trasporta sulle onde del miglior rockin’ country di Outlaws o Charlie Daniels Band, ragazzi se filano.

Long Day ci mostra che il musicista del Nebraska padroneggia anche l’arte della ballata, rock, ricca di chitarre e tastiere, ma pur sempre ballata, mentre Wearin’ Black è nuovamente quel country according to Michael Lee Firkins che si lascia ascoltare con piacere. Out Of Season è un’altra ballata mid-tempo sudista in crescendo, con continui spunti chitarristici, come pure Take Me Back, con un bel tessuto sonoro elettroacustico sempre orientato verso gli stati del Sud. Last Call con la sua slide tagliente è decisamente più bluesata, mentre No More Angry Man (Part 2) è un discreto boogie rock con Michael Bland (ex della band di Prince) che sostituisce Abts alla batteria, un po’ scontato, anche se non è che il disco tutto brilli per innovazione, ma non manca di feeling, come dimostra l’atmosferica e “misteriosa” The Cane, peraltro un po’ pretenziosa e che come il brano precedente lascia calare la giusta tensione che sostiene il resto dell’album. Bravo e sorprendente per chi conosceva la produzione precedente, solo del buon sano vecchio rock (anche sudista)!      

Bruno Conti

Beatles + Jam Band = BeatleJam – Live At The Keswick Theatre Versione Estesa

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BeatleJam – Live at Keswick Theatre – Floating World

Già ve ne avevo parlato, in breve, il 29 marzo, questa è la versione estesa della recensione!

Avete presente quella serie di CD con le testone dell’Isola di Pasqua raffigurate in copertina in diverse fogge e colori che sono usciti negli scorsi anni? Erano a nome Blue Floyd e riportavano una serie di brani dei Pink Floyd eseguiti in stile jam band da un gruppo che era a sua volta una sorta di quintessenza delle Jam bands con componenti di diversi gruppi che sotto l’egida di Allen Woody (il compianto bassista dei Gov’t Mule) periodicamente si ritrovavano per eseguire appunto brani della band inglese. Ogni tanto nella track list dei concerti ci scappava l’occasionale brano dei Beatles.

Quei concerti avvenivano più o meno a cavallo della fine millennio scorso (Allen Woody è morto nell’agosto del 2000) e i relativi compact venivano venduti inizialmente solo per corrispondenza. Alcuni dei musicisti coinvolti in quel progetto avrebbero poi continuato come Beatle Jam e questo Live at Keswick Theatre dovrebbe essere il primo di una serie di tre album dedicati alla musica dei Beatles. Registrato nel gennaio del 2002 (il 18) contiene 10 brani per quasi 80 minuti di musica.

La formazione vede accanto al bassista Berry Oakley Jr., figlio di e già presente nell’organico della band di Robbie Krieger e nei Bloodline, il chitarrista Slick Aguilar dai Jefferson Starship, il batterista Mat Abts dai Gov’t Mule e il tastierista e cantante Johnny Neel con Gov’t Mule, Allman Brothers e successivamente anche con gli italiani W.i.n.d oltre che con la sua band. L’altro tastierista è Vince Welnick, già con i Tubes e negli ultimi anni della formazione dei Grateful Dead, destinato a fare una brutta fine, morto suicida nel 2006, in un modo brutale che preferisco non approfondire. La qualità sonora è piuttosto buona, si tratta di un sounboard, anche se dovete alzare il volume del vostro impianto a manetta perché il disco ha un volume bassissimo.

Il repertorio dei Beatles come era nel caso di quello dei Pink Floyd viene rivisto in una chiave decisamente blues, soul e perfino con un tocco jazzy come nella versione di Get Back dove il vocione di Johnny Neel si avventura in un rapido scat alla fine di lunghi assoli di organo e piano, un accenno di armonica a bocca e si conclude con la chitarra di Slick Aguilar. Il copione è più o meno sempre quello: dall’iniziale Taxman che all’inconfondibile riff del brano, aggiunge le tastiere del duo Neel/Welnick, le lunghe rullate dei tom-toms di Matt Abts che sono un po’ il marchio di fabbrica del concerto, ripetute in vari momenti e che vivacizzano il lavoro un po’ statico del basso di Oakley, la chitarra di Aguilar dal sound tipicamente rock con ampio uso del wah-wah e vai con lunghe improvvisazioni strumentali.

Anche Come Together, molto fonky e soul con tanto di synth e vocoder ricorda vagamente le sonorità dei Beatles quando Billy Preston era della partita. Ci sono anche brani dove la melodia reclama la giusta attenzione come nella cover del sempreverde di George Harrison Something, abbastanza fedele all’originale ma anche rivisitazioni sorprendenti come quella di Eleanor Rigby dove al quartetto d’archi originale si sostituisce una lunga intro spaziale della chitarra di Aguilar che indirizza decisamente il brano nell’ambito jam band quasi psichedelica rendendola più simile a Tomorrow Never Knows che alla canzone originale, il vocione di Neel, il lavoro delle tastiere e dei tom-toms fa il resto del lavoro.

Diciamo che i brani dei Beatles spesso sono solo dei pretesti per lunghe jam come d’altronde è lecito attendersi visto il carattere del gruppo, comunque è difficile non riconoscere fin dal prime note brani immortali che ormai sono entrati nell’immaginario collettivo anche se di tanto in tanto le scelte sono sorprendenti: Cry baby cry è un brano del repertorio di Lennon che vista la sua aria sognante uno non immaginerebbe in questa veste aggressiva e improvvisata come pure You Can’t Do That che viene viceversa dal primissimo repertorio di John e qui subisce un trattamento molto soul, grazie alla voce di Neel. Per bilanciare, Lady Madonna con il suo pianino scatenato e una lunghissima e scatenata versione di Why Don’t We Do It In The Road riportano l’asse del concerto verso il lato McCartney. Conclusione affidata alla psichedelia di Lucy In the sky with diamonds che riporta lo schema al classico 4-4-2, quattro ciascuno per Lennon/McCartney e due di Harrison.

Piacevole anche se non memorabile, come potrete immaginare gli originali erano meglio ma qui il prodotto è indirizzato più verso chi ama il sound delle Jam Bands!

Bruno Conti

Più Che Un Titolo, Una Esortazione! Mark Robinson – Quit Your Job Play Guitar

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Mark Robinson – Quit Your Job Play Guitar – Blues Boulevard/Music Avenue – 11-02-2011

Il titolo è indubbiamente suggestivo ma è aderente alla realtà; è quello che ha fatto Mark Robinson, ad un certo punto, dopo anni di carriera a mezzo servizio ha deciso di mollare il suo lavoro fisso di produttore di video per l’università di Bloomington, Indiana e di lanciarsi a tempo pieno nella musica.

Si è spostato a Nashville, ha aperto il suo studio di registrazione e ha iniziato a produrre dischi per altri, fare l’insegnante di chitarra, il musicista on the road, il  tutto sempre lavorando a questo Quit Your Job – Play Guitar che già uscito, con ottime recensioni, sul mercato americano nel 2010 e vedrà una distribuzione europea a febbraio per i tipi della Blues Boulevard.

L’album è una riuscita miscela di blues, rock, roots music, southern rock, rilassato ed energico al tempo stesso, una sorta di JJ Cale più robusto (ma ovviamente non più bravo!), con l’aiuto di alcuni musicisti locali, qualche amico famoso, Johnny Neel alle tastiere e Tracy Nelson, alle armonie vocali, Mark Robinson confeziona un disco molto piacevole che oscilla tra il rock-blues rootsy dell’ottima Runaway Train, con slide ed armonica a duellare tra loro su un deciso ritmo boogie e i tempi rilassati e sornioni della cover della celeberrima Sleepwalk dal repertorio di Santo & Johnny passando per un southern-rock bluesato e intenso come nell’iniziale Poor Boy.

Payday Giveaway è una bella ballata midtempo energica e piena di soul con le tastiere di Neel e la voce di Nelson a sostenere la voce vissuta e la chitarra di Robinson. Il blues è sempre presente come in This Old Heart ma non è il classico Chicago Blues ma appare percorso da questi sapori twangy e roots con un leggero retrogusto country-got soul ma anche southern dell’organo di Neel. Quando addirittura non si sposta verso sonorità folk blues come in Memphis Won’t Leave me Alone. C’è spazio anche per brani più canonicamente blues, come lo slow intenso che risponde al nome di The Fixer, con quel suono laidback ma tecnicamente molto raffinato della chitarra.

Back In The Saddle con l’aggiunta di una sezione fiati si sposta addirittura verso sonorità alla Stones del periodo Sticky/Exile o del Clapton periodo Delaney, vogliamo dire country-rock got soul, ovviamente siamo su un altro piano come classe e risultati e la voce di Robinson non è particolarmente memorabile ma il genere ha i suoi estimatori. Backup Plan si sposta addirittura in quel di New Orleans e dintorni a conferma dello spirito eclettico di questo CD. I Know You’ll Be mine ha una sua grinta rock-blues ma la voce di Robinson purtroppo non decolla al pari della musica. Il brano migliore è la conclusiva Try One More Time una bella ballata ariosa che aldilà dei limiti vocali di Robinson si dipana con un arrangiamento dalle tematiche sonore ancora una volta sottolineate dalle armonie vocali gospel della Nelson e di Vickie Carrico, la sezione fiati, ancora l’organo di Neel che regalano quel gusto southern al brano.

Bruno Conti

Great Rock(blues) From Italy. W.I.N.D – Walkin’ In A New Direction

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W.I.N.D. – Walkin’ In A New Direction – Artesuono Records/Ird

Per essere precisi, come orgogliosamente annunciato nel loro MySpace, Jam Bluesy Power Trio from East Coast, aggiungo io (Ok a voler essere pignoli Cavalicco in provincia di Udine non è proprio sul mare, ma è lì a due passi).

La recensione “ufficiale” la trovate sul Buscadero di Maggio (quando esce l’album), per ingannare l’attesa due parole in libertà su questi ottimi musicisti che non hanno nulla da invidiare alla crema del rock mondiale nel loro genere.

Il primo album, omonimo, è uscito nel 2000 (quindi quest’anno festeggiano dieci anni di attività anche se la formazione, un paio di anni fa, è cambiata per due terzi), poi gli altri dischi con una cadenza biennale salvo nel 2008 quando non avendo nulla di pronto, astutamente, hanno ripubblicato il primo CD con nuova grafica e contenuti aggiunti. Nel 2004 hanno suonato nel disco di Johnny Neel (mitico tastierista aggiunto di Allman Brothers Band e Gov’t Mule) che, a sua volta, ha spesso collaborato con loro e si è espresso in modo lusinghiero sui suoi compagni di avventura definendoli così: “Gli W.I.N.D. sono un power trio con una potenza, capacità di scrittura e di improvvisazione che non sentivo dai tempi dei Gov’T Mule con Allen Woody”, ciapa lì e metti in cascina!

Una curiosità sul live del 2006 (ma inciso nel 2005): girando per siti a un certo punto sono capitato su una recensione, peraltro ottima, dove il gruppo veniva definito una Polish (maiuscolo) band, quindi l’internazionalizzazione prosegue, stiamo annettendo nuovi territori.

Ma veniamo a questo CD, brevemente (non alla Biscardi, spero): le danze si aprono con la tiratissima e riffatissima Amnesia, con il basso di Fabio Drusin (bassista dalla tecnica e dalla potenza mostruose, attualmente, tra i migliori al mondo, per il sottoscritto) a disegnare ghirigori incredibili inseguito dalla batteria di Silver Bassi (e qui siamo nell’ambito degli ossimori, un batterista che si chiama Bassi) e dalla chitarra dell’enfant prodige Anthony Basso, che divide anche gli interventi vocali con Drusin; ottimi gli interventi del piano elettrico dell’ospite Glauco Venier e del basso con wah-wah di Drusin. Come se gli anni ’70 non fossero mai finiti o un ritorno di fiamma? Che inizio e il seguito è anche meglio: la successiva Deja Vu With The Blues molto zeppeliniana e quindi vicina anche agli ultimi Gov’T Mule, con il basso di Drusin a duellare con il drumming Bonhamiano di Bassi e la chitarra di Basso a cesellare assoli degni del miglior Jimmy Page, finale a sorpresa con l’assolo di trombone dell’ospite Mauro Ottolini che vira la musica verso lidi jazzati e orientaleggianti. My solitude, con quella andatura indolente a cavallo tra l’epica Younghiana e certo southern glorioso dei tempi che furono una volta si sarebbe definita una power ballad, con la costruzione del brano tutta tesa all’esplosione liberatoria dell’assolo di chitarra fantastico e lirico di Basso, brano fantastico. Wastin’ My Time come dico anche nell’altra recensione che leggerete (mi posso citare?), forse anche per la voce di Basso mi ha ricordato certe cose dei Rush più progressivi degli anni ’70, quelli che tiravano e pompavano come dei dannati, sempre con questo basso (nel senso di strumento bisogna stare attenti!) che riempie i canali del vostro stereo con una veemenza inusitata e soliste che oscillano tra slide e wah-wah. Wah-wah che è il protagonista assolutto della Hendrixiana Unbelieve ma tutto il brano, cantato da Drusin, oscilla tra Experience e Cream, in perfetto stile jam bluesy power per citarli.

It’s too late to lie è un’altro slow a cavallo tra power ballad e blues con l’ottimo organo di Venier a regalargli quel sentire “sudista” Allmaniano con la chitarra di Basso ancora sugli scudi. C’è spazio anche per il quasi folk psichedelico dell’acustica Demons dove il percussionista U.t. Gandhi, un nome un programma, aggiunge sonorità ancora orientaleggianti. Per la serie se una cover s’ha da fare facciamo che sia “oscura”, Funky To The Bone, se volete sentire l’originale si trova sul quarto CD di What it is’ il favoloso cofanetto della Rhino dedicato alla musica funky anni ’70 meno nota (un Bruno informato), i (o gli?) W.I.N.D la trasformano in una funky jam con slide e organo per divertirsi e divertirci. Beautiful Awareness è un altro episodio psichedelico che ci avvia alla conclusione affidata alla lunga versione in studio di Lucky man uno dei cavalli di battaglia dei loro concerti dal vivo e occasione per una ulteriore epica jam. Ma non finisce qui, breve pausa e parte la “traccia nascosta”, una versione gagliarda di Almost Cut My Hair, uno dei brani più belli regalati da David Crosby all’avventura CSNY.

Se Walkin’ In New Direction è l’acronimo di W.I.N.D (che fatica tutti questi puntini), la nuova direzione piace e parecchio. Grande musica e grande gruppo, italians do it better! Ma cosa? Il Rock! Per ulteriori indagini windbandjampowertrio

Bruno Conti