Beato Tra Le Donne! Duke Robillard – And His Dames Of Rhythm

duke robillard and his dames of rhythm

Duke Robillard – And His Dames Of Rhythm – M.C. Records/Ird

Il chitarrista del Rhode Island si è sempre più o meno equamente diviso, a livello discografico, tra le sue due grandi passioni musicali, il blues e il jazz e lo swing (preferibilmente “oscuro” e anni ’20 e ’30). Il sottoscritto ha sempre ammesso pubblicamente la sua preferenza per il Duke Robillard bluesman, ma altrettanto onestamente devo ammettere che i suoi album “jazz” sono sempre molto gradevoli all’ascolto e suonati in grande souplesse. Se di solito il blues batte il jazz di misura, almeno per me, diciamo un 1-0, questa volta in compagnia di una serie di voci femminili His Dames Of Rhythm, oltre alla sua band abituale e una sezione fiati completa che rimanda ai suoi giorni con i Roomful Of Blues, per l’occasione jazz e blues impattano sull’1-1 ed è solo l’ascoltatore a godere. Robillard ancora una volta evidenzia la sua conoscenza mostruosa del repertorio jazz e swing della prima parte del secolo scorso, ed ha saputo utilizzare in modo perfetto le sei voci femminili che si alternano a duettare con lui.

Il disco nasce dall’idea di ricreare in questo CD il sound delle vecchie canzoni del repertorio Tin Pan Alley degli anni ’20 e ’30, più che il jazz tout court: la voce pimpante e cristallina di Sunny Crownover, molto old style, apre le danze in una cover di un vecchio brano di Bing Crosby From Monday On, dove  i due, con aria divertita, ricreano quell’atmosfera senza tempo del primo swing, tra fiati “impazziti” e sezione ritmica in spolvero, mentre il clarinetto di Novick e la chitarra di Robillard cesellano piccoli interventi di gran gusto. La brava Sunny poi torna per un’altra divertente My Heart Belongs To Daddy, sexy e zuccherosa il giusto, con qualche tocco tra il latino e il tango, un vecchio pezzo di un musical di Cole Porter che molti ricordano in versioni successive di Ella Fitzgerald e anche di Marylin Monroe (mi sono documentato), con il piano di Bears e la chitarra acustica arch-top di Robillard impeccabili, mentre la Crownover canta divinamente;  la seconda voce ad appalesarsi è quella di Maria Muldaur, che questo repertorio lo frequenta da decenni, il timbro è più vissuto rispetto agli anni d’oro, ma la classe è sempre presente in questa Got The South In My Soul, altro brano degli anni ‘30 delle Boswell Sisters, con improvvisi cambi di tempo, ma anche la voce deliziosa della Muldaur a guidare i musicisti. Poi tocca a Kelley Hunt, voce più grintosa (già presente anche nell’ultimo disco di Robillard, Blues Full Circle dello scorso anno http://discoclub.myblog.it/2016/11/04/anche-potrebbe-il-disco-blues-del-mese-duke-robillard-and-his-all-star-combo-blues-full-circle/ ) e cantante di grande spessore, che il sottoscritto apprezza in modo particolare, la sua rilettura di Please Don’t Talk About Me (altro pezzo degli anni ’30, che vanta decine di versioni, da Billie Holiday e Sinatra, passando per Willie Nelson) ne evidenzia ancora una volta la voce espressiva e ricca di calore, ed è uno dei tanti highlights di questo bel disco, grazie anche all’intermezzo strumentale veramente superbo nella parte centrale del brano.

E non si può non apprezzare anche la presenza di una adorabile Madeleine Peyroux, che per l’occasione sfodera un timbro un filo più “robusto” del solito, ma sempre molto sexy ed ammiccante, tra Bessie Smith e la Holiday, nel vecchio standard di Fats Waller Squeeze Me, dove Robillard con la sua chitarra sostituisce il piano di Waller, mentre Novick è sempre incisivo al clarinetto. Come conferma in Blues In My Heart, dove la voce solista è quella di Catherine Russell, cantante ed attrice nera, meno nota delle colleghe, ma sempre molto efficace, nella canzone si gode anche del lavoro dei fiati, con in evidenza il sax di Kellso. In Walking Stick di Irving Berlin, cantata dal solo Robillard, si apprezza anche un violino (Joe Lepage) che divide gli spazi solisti con Duke. In Lotus Blossom di Billy Strayhorn, ma pure nel repertorio di Duke Ellington, si apprezza di nuovo la voce vellutata della Hunt e la tromba con sordina, presumo di Doug Woolverton, presente anche altrove nel disco. What’s The Reason I’m Not Pleasin’ You, con le conclusive Ready For The River e Call Of The Freaks, sono gli altri brani dove Robillard fa da solo senza ospiti, mentre l’altra voce impiegata è quella dell’attrice di Downtown Abbey Elizabeth McGovern, alle prese con My Myself And I, altro pezzo del repertorio di Billie Holiday, prestazione onesta ma nulla più. Molto meglio Madeleine Peyroux nella dolcissima Easy Living, sempre di “Lady Soul”, e la Muldaur in un altro pezzo delle Boswell Sisters Was That The Human Thing To Do, con il solito clarinetto malandrino di Novick e il violino ad interagire con la solista di Robillard. Manca ancora un brano, cantato da Kelley Hunt, l’unica utilizzata in tre canzoni, sempre splendida nella struggente If I Could Be With You (One Hour Tonight), un altro standard degli anni ’20 di cui si ricorda una versione di Louis Armstrong, che avrebbe certo approvato la parte strumentale tra swing e dixieland. Ancora una volta quindi il “Duca” centra il colpo: “vecchio stile”, ma solita classe.

Bruno Conti

Una Delle Più Affascinanti Voci In Circolazione! Kelley Hunt – Gravity Loves You

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Kelley Hunt – Gravity Loves You – 88 Records

All’incirca un anno fa vi parlavo in termini entusiastici della “scoperta” di questa nuova cantante Kelley Huntkelley+hunt e vi magnificavo le sue doti vocali contenute in due dischi come Mercy e New Shade of Blue paragonandola in termini più che lusinghieri a Susan Tedeschi e Bonnie Raitt, ma anche a Bonnie Bramlett e Maggie Bell, spingendomi financo ad Aretha Franklin.

Orbene, alla resa dei conti di questo nuovo Gravity Loves You non posso che confermare tutto e questo è veramente ammirevole considerando che il nuovo album è tutto farina del suo sacco (nel senso che ha scritto tutti i 12 brani contenuti nel CD, con l’aiuto di tale Caryn Mirriam-Goldberg che ne firma otto con lei). Quindi in questo caso nessuna cover e tutto materiale originale, si è anche autoprodotta utilizzando alcuni ottimi musicisti provenienti dall’area di Nashville, con la presenza dell’organo Hammond B3 di Mark Jordan,l’unico legame con il disco precedente.

La musica è rimasta quella deliziosa amalgama di funky soul, jazz alla Donald Fagen e blues. Le cose sono chiare fin dall’iniziale Too Much History, con il basso a 5 corde di Tim Marks che impone un ritmo funky e il piano elettrico della stessa Hunt e l’organo di Jordan che si contendono con la chitarra dell’ottimo James Pennebaker le linee sonore del brano, Bryan Owings con la sua batteria disegna grooves precisi ed inventivi mentre la nostra amica canta con quella sua voce calda e naturale senza forzature ma ricca di sfumature, come si suole dire una “gran bella voce”, non saprei dire in altro modo. Forse tra le “nuove” voci attualmente in circolazione l’unica che potrei paragonare alla Hunt per phrasing e bravura è quella di Janiva Magness, ma qui, secondo me, a livello vocale, siamo addirittura un gradino sopra, andatevi a sentire (è una esortazione all’acquisto? Sì!) come modula la voce nella bluesata Gravity Loves You che dà il titolo a questo album.

Quando entra anche il gospel nelle corde della sua musica, come nella delicata ballata These are the days non posso fare a meno di pensare nuovamente alla “Queen of soul”, la grande Aretha! Le sue canzoni suonano sempre “familiari” perché ti ricordano un qualcosa che sfugge ma che in fondo è solo buona musica con il meglio di quello che il passato ha saputo offrire rivisto attraverso un nuovo approccio, Music Was The Thread potrebbe essere un esempio di quanto appena detto, uno splendido esempio, gli inglesi direbbero gorgeous!

Deep old love è un’altra di queste canzoni che galleggiano tra soul, funky e vaghi sentori jazz alla Steely Dan o alla Phoebe Snow con questa voce sinuosa che galleggia tra le note con classe sopraffina. Non mancano le ballate deep soul come la stupenda This Love o le escursioni in uno scatenato rock’n’roll con tanto di slap bass come nella divertente I’m Ready. Quando i tempi sterzano verso un rock-soul energico come nell’eccellente The House Of Love Kelley Hunt non si tira certo indietro e sostenuta da un paio di voci femminili porta a casa il risultato ancora una volta. Anche quando i tempi rallentano e si entra nella canzone “adulta” come in When The Deal Came Down pur se meno convincente la sua voce piace sempre. Poi si rientra nel puro errebì godurioso di The Land Of Milk Honey e si tocca perfino il boogie in Shake It Off Right Away. La conclusione, giustamente, è affidata a In The End ( lo dice anche il titolo) un bellissimo brano solo piano e voce, cantato con grande intensità e che conferma tutto quanto affermato fin qui.

Vogliamo fare un appunto? Forse non ci sono brani di punta, ma la qualità è comunque medio-alta. Se non la avete considerata al primo giro siete sempre in tempo a ripensarci, sarete ricompensati da 45 minuti (circa) di ottima musica e da una delle migliori voci in circolazione attualmente. La qualità delle immagini dei video inseriti non è fantastica ma è compensata abbondantemente da quella della musica. Pensate che quando ho scritto l’articolo precedente si trovavano solo un paio di suoi video in YouTube, ora, fortunatamente è spuntano come i funghi!

Bruno Conti

Kansas City Here I Come. Una grande voce: Kelley Hunt

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Di solito non parlo di dischi che ho recensito anche per il Buscadero (leggete, leggete, un po’ di promozione non guasta), ma questa volta voglio fare un’eccezione, perchè la signora in questione merita. Kansas City è la città dove è nata ma la sua attività discografica, indipendente, si svolge in quel di Nashville, Tennessee, non temete non fa country, quelli che vedete effigiati qua sopra sono i suoi due ultimi dischi rispettivamente targati 2007 e 2008, il contrario per chi vede la sequenza delle copertine.
Intanto ha una sua eichetta autogestita la 88 Records, visto che Kelley Hunt è anche una ottima pianista (88 è il numero dei tasti), ma soprattutto una cantante in possesso di una voce incredibile.
Il filone a cui accostarla è quello da cui discendono anche Bonnie Raitt e, in anni più recenti, Susan Tedeschi, la moglie di Derek Trucks (che famiglia!), ma sono state citate anche Bonnie Bramlett e Maggie Bell, non ultima e non a spoposito è stato fatto anche il nome di Aretha Franklin, The Queen of soul! Ma è veramente così brava?
Non posso che confermare, anzi rilancio: questi due album New shade of Blue e, soprattutto, Mercy sono strepitosi.
Blues, soul, gospel, rock, country, mille elementi confluiscono ma è la “Voce” che fa la differenza, roca e sexy ma capace di raggiungere tonalità acute alla Aretha, il tutto con una semplicità disarmante, senza inutili vituosismi, “solo” cantando.
Se aggiungiamo che la nostra amica è anche aiutata da un manipolo di validissimi musicisti capirete il perchè di questo entusiasmo.
In New shade of Blue sono con lei Colin Linden, Gary Nicholson (anche ottimo autore) e Kenny Greenberg alle chitarre, Reese Wynans il leggendario tastierista di Stevie Ray Vaughan, il bassista Glen Worf e i due batteristi Chad Cromwell e Greg Morrow nonchè una sezione di fiati guidata da Jim Horn e a duettare con lei in Deal with it, uno dei brani migliori Delbert McClinton.
Se tutto questo non bastasse brani come That’s what makes you strong una emozionante deep soul gospel ballad di Jesse Winchester e Why Do I Love you dal repertorio di Jim Lauderdale, sono cantati con un trasporto ed una bravura che rivaleggia con la Franklin dei tempi d’oro.
Molto belle anche Temptation e una cover soul di The Word della premiata ditta Lennon-McCartney, ma tutto il disco è notevole.
L’altro disco Mercy è anche meglio: quasi tutto farina del suo sacco, meno un brano, si avvale ancora di uno straordinario Colin Linden alla chitarra, soprattutto slide (dopo Ry Cooder e Sonny Landreth, viene questo canadese a lungo collaboratore di Bruce Cockburn, gli appassionati lo conoscono), del bassista dei Funk Brothers direttamente dalla Motown, Bob Babbitt e dell’organista Mark Jordan che ha suonato con Van Morrison e Bonnie Raitt.
Il disco comprende alcuni brani di qualità sopraffina, dall’iniziale You got to be the vessel con uno straordinario Linden alla slide, passando per una meravigliosa ballata soul gospel che avrebbe fatto la gioia della grande Aretha, una superba Love, il funky soul grandioso di Lone star road con un grande Babbit al basso e ancora la commovente ballata solo voce e piano di Mercy che dà il titolo all’album.
Ma tutto è di grande qualità, non posso che consigliarvelo per queste feste natalizie, fatevi un bel regalo, ma anche se lo comprate per Pasqua e Ferragosto va bene lo stesso.
Questo qua sotto è, incredibile ma vero, l’unico filmato che si trova in rete di Kelley Hunt e, forse, non le rende completamente giustizia.
In effetti ce n’è anche uno casalingo e un promo senza immagini, per la cronaca.
Bruno Conti