Un “Piccolo Supergruppo” Di Stampo Blues. Rockwell Avenue Blues Band – Back To Chicago

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Rockwell Avenue Blues Band – Back To Chicago – Delmark Records

Mi piacciono questi titoli di album semplici, esplicativi: anche se poi non sempre corrispondono alla realtà. Nel caso in questione più che di un ritorno fisico vero e proprio, si vuole intendere forse una sorta di ideale ritorno alle proprie radici musicali: certo anche il fatto che la Delmark sia una delle etichette storiche, uno dei baluardi del blues a Chicago, ha la sua importanza, come pure il fatto che il disco in parte sia stato registrato proprio nella Windy City (ma anche in un paio di studi in Colorado). Poi a ben vedere questa Rockwell Avenue Blues Band è in un certo senso un “piccolo supergruppo” (visto che non parliamo di grandissimi nomi) dedito alle 12 battute e dintorni: con Tad Robinson, cantante ed armonicista da New York City, che rappresenta l’anima più soul, in possesso di una voce vellutata, il suo ultimo album, Day Into Night è una piccola delizia per gourmet del soul blues, troviamo Steve Freund, anch’egli con una lunga militanza nel blues, chitarrista e cantante, pure da lui da Brooklyn, NYC, e infine Ken Saydak, tastierista sopraffino e cantante, soprattutto per altri, ma con alcuni CD a suo nome, l’unico veramente di Chicago, e la mente dietro a questa “reunion” come RABB. Completano la formazione altri due veterani, Harlan Terson, al basso, e Marty Binder alla batteria.

Il fatto di avere tre leader, tutti in grado di cantare, comporre e suonare con grande brillantezza ha contribuito alla eccellente riuscita di Back To Chicago, un album che fa dalla freschezza e della classe i suoi punti di forza. Niente di nuovo sotto il sole, ma gli amanti del genere troveranno di che gioire: sin dall’inziale Blues For The Hard Times, scritta da Tad Robinson, che se le canta pure, capiamo che il “viaggio di ritorno” alla culla del blues ha dato i suoi frutti, un brano delizioso dove soul e blues convivono in modo perfetto, come nei brani migliori di Robert Cray, per dare una idea, voce melodiosa e felpata, le linee pungenti della chitarra di Freund e l’organo squisito di Saydak , predispongono subito ad un piacevole ascolto. Boogie In The Rain, firmata da Steve Freund, già dal titolo ricorda quei potenti brani dei vecchi Canned Heat, con Robinson all’armonica, lo stesso Freund ficcante alla chitarra e il lavoro di raccordo di Saydak  all’organo, danno l’idea di una band “vera” in azione; in That Face guida democraticamente le danze lo stesso Saydak https://www.youtube.com/watch?v=K4PdMJdvgM4 , quello più canonico nel suo blues, puro Chicago style, ma anche un pizzico di country, vocione d’ordinanza, pianino suadente alla Fats Domino e Robinson che armonizza splendidamente con Ken a livello vocale. Poi riparte il giro, di nuovo con Saydak, uno dei più prolifici, Free To Love Again, che lo vede al piano elettrico è un solido blues-rock con sfumature soul, mentre Chariot Gate sta a metà strada fra Chicago e New Orleans, con il suo ondeggiante drive pianistico e il call and response tra Saydak e soci.

Ma  prima troviamo l’ottima Lonesome Flight, il classico slow blues a firma Freund, che canta e suona la chitarra alla grande, assolo da urlo incluso. We Believe è ancora di Saydak, che si fa aiutare da due veterani della scena come Mary-Ann Brandon e Fred James, per una bella ed avvolgente ballata di grande fascino, cantata da Robinson; poi tocca di nuovo a Freund per una tirata cover di Stranger Blues di Elmore James, niente slide ma tanta grinta. For A Reason di nuovo di Saydak, che questa volta è la voce solista, è incalzante nel suo dipanarsi, mentre Rich Man di Tad Robinson è un’altra piccola perla di soul sudista. Hey Big Bill, classico Chicago style con Freund, che lascia poi spazio al bassista Harlan Terson per una divertente e mossa Love Police, cantata in souplesse da Saydak. Back To Chicago è un lavoro di gruppo, ma la voce solista è quella di Robinson, di nuovo in azione con il suo timbro vocale più suadente, mentre la chitarra di Freund disegna linee soliste perfette; Freund  firma e canta un altro blues lento notevole come Have You Ever Told Yourself A Lie, dove la sua slide vola magnificamente, e chiude di nuovo Saydak, la mente del progetto, con la “sognante” Dream. Veramente un bel dischetto.

Bruno Conti

Una Piccola Macchina Del Tempo Blues! Al Miller – …In Between Times

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Al Miller Chicago Blues Band – …In Between Time – Delmark

Inserendo questo dischetto nel lettore CD è come entrare in una macchina del tempo, piccola ma efficiente, che ti porta, con fermate intermedie, più o meno verso la metà degli anni ’60, direi programmata su Chicago. Il Blues elettrico, o urbano se preferite, è in uno dei suoi momenti di grazia, B.B. King, Muddy Waters, Magic Sam e molti altri che non citiamo per brevità, iniziano ad avere i primi discepoli anche tra i musicisti bianchi. E Al Miller è già lì, fa parte della scena locale, con gente come Paul Butterfield e la sua band, dove milita un certo Mike Bloomfield, che diventerà amico di Miller, impegnato a spargere il verbo blues con Chicago Slim e Johnny Young. Nel 1966, proprio sull’onda del successo della Butterfield Blues Band, il gruppo di Al Miller, tali Wurds, sono la prima band bianca ad essere messa sotto contratto per la Chess: inutile dire, perché queste storie di solito vanno così, che l’unico 45 giri pubblicato è un insuccesso clamoroso. Provano anche la strada del garage rock con un altro singolo intitolato Why?, ma poi capita l’aria che tira, il nostro amico prende la sua armonica e decide di trasferirsi nella Bay Area, in quel di San Francisco, dove ritrova Bloomfield e i due suonano anche insieme tra il ’69 e il ’70. Ma pure la “Summer Of Love”, per quanto prolungata, sta finendo e Miller se ne torna a Chicago, non per la musica, che rimarrà un hobby, quanto per un buon lavoro e una famiglia che sono le sue priorità, anche se occasionalmente registra come componente della Bionic Blues Band (?).

Poi, all’inizio degli anni ’90, finito il periodo sabbatico, ritorna in pista per registrare quello che è a tutti gli effetti il suo primo disco, l’età per esordire da bluesman è quella giusta, l’etichetta pure, la Delmark, i musicisti anche, tra gli altri, Willie Kent, Dave Specter, Tad Robinson, Steve Freund,  il disco si chiama Wild Cards, e al di fuori della cerchia carbonara dei bluesofili, critica ed appassionati che apprezzano,  non se lo fila nessuno. A questo punto subentrano pure problemi di salute e per parecchi anni Al Miller non entra più in studio di registrazione, ma, a fine anni ’90, inizio anni ’00, con un fido manipolo di amici, tra i quali Dave Specter di nuovo, oltre a John Primer, Billy Flynn, Ken Saydak ed altri meno noti, viene registrato un nuovo album, che però, guarda caso, è questo …In Between Time, che a tredici anni dalla data originale, vede (di nuovo?) la luce. A questo punto fermiamo la macchina del tempo e ascoltiamo, anche se il suono è proprio quello degli anni appena descritti, Chicago, metà anni ’60, prima che “inventassero” il blues-rock e Jimi Hendrix, con un suono tecnicamente meno rudimentale ma una attitudine da neo-revivalisti che condivide con i compagni di avventura, non per nulla il disco è attribuito alla Al Miller Chicago Blues Band.

Scorrono 17 brani pieni di passione, per quasi 75 minuti di musica: ci sono ben tre cover del suo vecchio mentore Johnny Young, Tighten Up On It, My Baby Walked Out e lo strumentale I Got It , con l’armonica di Miller che divide la scena con la chitarra di Flynn e il piano di Saydak, c’è l’iniziale Rockin’ All Day che, nonostante il titolo, è quello con il suono più “arcaico”.  Una tosta I Need So You Bad scritta da B.B. King in quei gloriosi tempi, con la voce e la chitarra di John Primer in primo piano, con Specter e Miller che lo spalleggiano ai rispettivi strumenti. Tra i brani originali di Al Miller spicca l’ottima title-track con Miller per l’occasione alla chitarra e la slide di Billy Flynn che gli conferisce un’aura alla Muddy Waters. Flynn, ottimo anche nel suo brano strumentale Billy’s Boogie e in A Better Day dove fa una timida apparizione anche un wah-wah slide. John Primer canta in Dead Presidents di Willie Dixon e in 1839 Blues dal repertorio di Elmore James ed è la chitarra solista nell’omaggio, di nome e di fatto, Lawhorn Special, ad uno dei chitarristi storici della band di Waters, Sammy Lawhorn. Per il resto dell’album, Al Miller canta e soffia di gusto nella sua armonica quello che si è soliti definire il “blues originale”, come dice anche Scott Dirks nelle note del CD. Sarà poi vero? Ai posteri, e alla nostra macchina del tempo parcheggiata, l’ardua sentenza, per il momento archiviamo alla voce “piacevolmente demodé”!

Bruno Conti