Il Titolo E’ Interminabile, Il Disco Purtroppo No! The Milk Carton Kids – All The Things That I Did And All The Things That I Didn’t Do

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The Milk Carton Kids – All The Things That I Did And All The Things That I Didn’t Do – Anti CD

Il duo californiano dei Milk Carton Kids, formato da Kenneth Pattengale e Joey Ryan, dopo tre album salutati positivamente da quasi tutta la critica mondiale, al quarto lavoro ha deciso di compiere il grande salto. Fautori di un folk-rock cantautorale chiaramente influenzato da Everly Brothers, Simon & Garfunkel, e dal duo Gillian Welch/David Rawlings, i MKC non hanno cambiato stile, ma hanno migliorato decisamente il loro songwriting e per la produzione si sono rivolti nientemeno che a Joe Henry, con il quale avevano già collaborato nel recente passato ma mai al punto di affidargli le chiavi di un loro album. E Henry non è uno che si muove per tutti, conosce il due ragazzi e li apprezza (li ha avuti anche in tour con lui), e la sua mano in questo All The Things That I Did And All The Things That I Didnt’t Do (un titolo non proprio facile da memorizzare) si sente eccome. Joe è ormai un maestro nel dosare i suoni, nel dare una veste sonora adatta a qualsiasi cosa su cui mette le mani, e quasi sempre per sottrazione, ma c’è da dire che in questo caso gran parte del merito va alle canzoni scritte da Pattengale e Ryan, due che non hanno certo bisogno di sonorità ridondanti per emozionare.

Oltre alle chitarre dei due leader, grande protagonista del disco è la splendida steel guitar di Russ Pahl, ma non bisogna scordare la sezione ritmica discreta ma di gran classe formata da Dennis Crouch (uno che ha suonato con un sacco di grandi, da Gregg Allman a Johnny Cash) e dall’ormai indispensabile Jay Bellerose, oltre alle tastiere di Pat Sansone, membro dei Wilco, ed anche ai fiati (clarinetto e sax) nelle mani di Levon Henry, figlio di Joe. Ballate fluide, lente e distese, suoni centellinati al millimetro, mai una nota fuori posto, con in più alcune tra le migliori canzoni del duo: All The Things (abbrevio per fare prima) è il classico disco che cresce ascolto dopo ascolto, ma piace già dalla prima volta che si mette nel lettore. Il centerpiece dell’album è senza dubbio la straordinaria One More For The Road, un brano che supera i dieci minuti e che definire epico non è esagerazione: una canzone che inizia come una ballata fluida e rilassata, con le due voci, un paio di chitarre e la steel sullo sfondo, un suono molto anni settanta con elementi che rimandano ai gloriosi giorni del Laurel Canyon, e che poi si tramuta in un melting pot di suoni tra folk, jazz ed un tocco di psichedelia in un crescendo strumentale magnifico e di grande pathos, per tornare nel finale al tema principale.

Ma chiaramente il disco è anche altro, a partire dall’iniziale Just Look At Us Now, brano tenue ed interiore, molto discorsivo e con un accompagnamento discreto, una percussione leggera ed un delizioso contorno di strumenti a corda. Il pianoforte introduce la lenta Nothing Is Real, un pezzo raffinato ed ottimo veicolo per le armonie vocali di Kenneth e Joey, con un arrangiamento tra folk e pop d’altri tempi, nel quale si sente lo zampino di Henry; la squisita Younger Years ha molti contatti con la scrittura di Paul Simon, e la sua veste leggermente country & western, con la bella steel di Pahl in sottofondo, la rende una delle più riuscite. Mourning In America, pianistica e con una leggera orchestrazione alle spalle, è lenta e decisamente intensa: musica pura, senza pretese commerciali ma in grado di toccare le corde giuste; You Break My Heart è ancora spoglia nei suoni, voce, chitarra, steel e sezione ritmica appena sfiorata, con uno stile molto vicino all’ultimo Dylan che fa Sinatra, così come Blindness, se possibile ancora più cupa, quasi tetra, con le voci angeliche dei due che contrastano apertamente con il mood triste del brano. Big Time è decisamente più vivace, una canzone limpida ed ariosa tra folk e country, caratterizzata da un bel violino ed una melodia diretta, A Sea Of Roses è ancora puro folk moderno, gentile e raffinato, di nuovo con Simon dietro il pentagramma, mentre Unwinnable War è una ballatona di ampio respiro, con il solito ottimo lavoro di steel alla quale si aggiunge un organo ed il consueto pickin’ chitarristico di gran classe. Chiudono il CD la languida I’ve Been Loving You, molto Everly Brothers, e la delicata title track, tre strumenti in croce ma grande intensità.

Al quarto disco i Milk Carton Kids hanno fatto centro: canzoni come One More For The Road non si scrivono certo per caso, ed il resto non è sicuramente da meno.

Marco Verdi

Il Secondo Capitolo Di Un Narratore “Affascinante”. Ed Romanoff – The Orphan King

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Ed Romanoff – The Orphan King – Pinerock Records

Questo signore Ed Romanoff, si era fatto conoscere sei anni fa con lo splendido album omonimo d’esordio, pubblicato all’età di 53 anni, disco puntualmente come sempre passato quasi inosservato. La storia artistica di Romanoff (origini irlandesi e adottato da una famiglia russa), inizia sul finire degli anni ’90 ma poi deve la svolta della sua carriera anche all’amicizia con Mary Gauthier, che lo porta a scrivere a quattro mani con la stessa proprio il brano The Orphan King, apparso sul disco The Foundling, scoprendo quindi tardivamente di volersi reinventare “songwriter”.

Il risultato di questi ulteriori anni passati dopo il primo lavoro è il nuovo album, registrato a Palenville (NY), nello studio fienile del produttore Simone Felice (Felice Brothers, Lumineers), dove Ed voce e chitarra si porta appresso validi collaboratori come lo stesso Felice alla batteria, il fratello James Felice alle tastiere e fisarmonica, il bravissimo polistrumentista Larry Campbell alle chitarre, basso, mandolino, cetra e violino, Lee Nadel al basso, Cindy Cashdollar alla steel guitar e lap steel, Kenneth Pattengale del duo Milk Carton Kids alle chitarre, e come coriste la sue colleghe Rachael Yamagata, Cindy Mizelle, e la moglie di Campbell, Teresa Williams, tutti einsieme danno vita a tredici canzoni piene di suggestioni, ma nello stesso tempo estremamente vive.

Fin dalla prima canzone Miss Worby’s Ghost, si percepisce l’abilità narrativa di Ed, bissata poi nella seguente Elephant Man (uno dei sei brani composti con Crit Harmon), una romanza musicata e cantata quasi alla Kris Kristofferson, dove spiccano sublimi armonie vocali, per poi passare al country-rock arioso di una A Golden Crown, dove si riconosce benissimo il violino di Campbell, e la pedal-steel della Cashdollar, priam di proporre la sua versione della citata pianistica title-track The Orphan King, con in sottofondo una intrigante tromba e Teresa Williams alle armonie vocali, mentre il moderno e delizioso “bluegrass” di Without You, vede brillare Kenneth Pattengale alla voce, chitarra e mandolino. Le narrazioni diventano ancora più briose con la melodia vivace di Leavin’ With Somebody Else, cantata in falsetto in stile Roy Orbison, mentre nella seguente Less Broken Now, le armonie femminile sono a carico di Cindy Mizelle, per poi passare alla “perla” del disco, la meravigliosa The Ballad Of Willie Sutton (una intensa storia alla Bonnie & Clyde), interpretata con trasporto dalla voce baritonale dall’autore, che poi si ripete nella tranquillità di ballate come l’acustica I’ll Remember You, e la riflessiva e notturna The Night Is A Woman (con le brave Yamagata e Mizelle alle armonie). Ci si avvia (purtroppo) alla parte conclusiva del lavoro con un’altra ballata di spessore (che pare evocare lo spirito di Cohen) come l’incantevole Blue Boulevard (Na Na Na), dove giganteggiano ancora una volta il violino celtico e il mandolino di Larry Campbell, ancora una intrigante e quasi recitativa “ode” come Lost And Gone, e infine a chiudere, come coronamento finale di un eccellente lavoro,  il “soul-blues” elettrico di una grintosa e narrativa Coronation Blues, dove spiccano le vari voci femminili in un nostalgico stile che rievoca il classico stile Stax.

Come già ricordato in altre occasioni, molto spesso capita di scoprire musicisti che, per una ragione o per l’altra, non hanno la giusta considerazione di tante altre acclamate “stars”, un tipo che dopo tutto il vagabondare per gli stati americani, si è impegnato a scrivere canzoni sulla in tarda età, avendo come “mentori” artisti del calibro di Darrell Scott, Beth Nielsen Chapman, Josh Ritter, e come la già citata grande Mary Gauthier. Ed Romanoff vive e lavora a Woodstock, nello stato di New York, e con questo The Orphan King merita ancora una volta segnalazione in virtù del suo (in)consueto stile narrativo, in cui ascoltando con attenzione il disco si possono scorgere punti di contatto con personaggi del livello di John Prine e Eric Taylor (di cui peraltro sembrano essersi perse le tracce), sicuramente un “cantautore-narratore” che vale la pena di conoscere https://www.youtube.com/watch?v=v-B1rrh6v0A , e spero che, prendendosi i suoi giusti tempi, continuerà a comporre canzoni e produrre album per gli anni a venire: in fondo come diceva il famoso Maestro Manzi, non è mai troppo tardi. Nel frattempo, fin d’ora, a parere di chi scrive, sicuramente una delle sorprese, e la canzone, dell’anno!

Tino Montanari