Variazioni Lievi Ma Significative, Sempre Ottima Musica! Jono Manson – The Slight Variations

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Jono Manson – The Slight Variations – Appaloosa/IRD

Non so se avete mai avuto l’occasione di assistere ad un concerto di Jono Manson? Il nostro amico si presenta sul palco armato di una chitarra acustica, che suona con una pennata forte ed energica, una chitarra elettrica a quattro corde (per i brani con elementi rock e blues), una bella voce, ma soprattutto tanta simpatia che estrinseca in una serie di aneddoti e storie, usati per presentare le sue canzoni e qualche rara cover, l’insieme lo rende un perfetto uomo da palcoscenico, cosa che fa da oltre trent’anni, in giro per il mondo. Ma Manson è anche un ottimo cantautore, rocker all’occorrenza (quando si esibisce con i suoi amici Brother’s Keeper, ovvero Scott Rednor, Michael Jude e John Michel, tutti presenti nel nuovo album, rafforzati anche da Jason Crosby, alle tastiere e violino e da John Popper dei Blues Traveler all’armonica), produttore, arrangiatore, ingegnere e tecnico del suono, di recente con  i Mandolin’ Brothers e nel disco solista di Jimmy Ragazzon, oltre che produttore anche del nuovo album dei Gang Calibro 77, in uscita il prossimo 24 febbraio: ma è anche un abituale frequentatore del nostro paese, dove ha stretto amicizie e frequentazioni musicali, prima con Paolo Bonfanti, e poi con i Barnetti Bros, ovvero Andrea Parodi, Massimo Bubola e Massimiliano Larocca, con i quali ha inciso un album, Chupadero, che prende il nome della località, nel New Mexico, dove Jono vive e ha anche il suo studio di registrazione, in cui è stato inciso questo The Slight Variations, secondo album pubblicato dall’italiana Appaloosa, per la quale aveva registrato anche l’ottimo Angels On The Other Side, di cui avevo parlato in termini più che lusinghieri su queste pagine virtuali http://discoclub.myblog.it/2014/03/14/conflitto-interessi-what-jono-manson-angels-on-the-other-side/ .

Per volere essere sinceri fino in fondo, per chi scrive, e il giudizio è sempre soggettivo, il nuovo CD è leggermente inferiore al suo predecessore, ma è proprio una “anticchia”, più una impressione (che magari nel tempo e con ulteriori ascolti potrebbe cambiare) che una vera realtà. Comunque un bel disco, dal suono sempre brillante e vario, dove rock, canzone d’autore, roots music, Americana, blues, folk e country (ho dimenticato qualcosa?) si alternano e si mescolano, “frullati” con maestria da Jono Manson, grazie all’aiuto dei musicisti ricordati poc’anzi, con una citazione speciale per Jason Crosby, ottimo polistrumentista, di recente in azione anche con gli Hard Working Americans, ma puree Kevin Trainor, chitarrista elettrico dal tocco leggero e di gran classe, e della sezione ritmica composta da Mark Clark e Steve Lindsay, che si alternano con Jude e Michel. In totale sono dodici pezzi, sei scritti con la moglie Caline Welles, due collaborazioni con l’altro vecchio amico Chris Barron degli Spin Doctors, due con Joe Flood e due in solitaria: a fare crescere di molto il giudizio critico, sempre a mio giudizio, è il trittico iniziale, una splendida Trees, che mescola canzone d’autore e suggestioni celtiche, grazie all’insinuante violino di Crosby e ad una pervasiva melanconia che dà fascino al brano, cantato in modo intimo e raccolto da Jono. Che poi si scatena in Rough And Tumble, un grande R&R, scritto con Barron, tra Stones e Little Feat, con chitarre a tutto riff, un pianino saltellante e le armonie vocali sudiste di Hillary Smith.

E pure I’m Ready è una bellissima rock ballad, tra Dylan e la Band, con un uso sontuoso dell’organo di Crosby e una melodia avvolgente che cita anche qualche mood beatlesiano. Molto piacevole la tenue e delicata Wildflower, che evoca uno spirito alla James Taylor, con il piano che si alterna allo strumento indiano del dilruba per creare esotiche sonorità orientali, e anche The Sea Is The Same appartiene a questa categoria di brani “folky”, raccolti ma ben tratteggiati, autunnali e malinconici. Footprints On The Moon nasce, come racconta lui dal vivo, da vecchi ricordi della sua infanzia, e prende lo spunto dalla prima missione lunare americana del 1969, vista alla TV in bianco e nero, una briosa e movimentata canzone di impianto più rock, con un arrangiamento molto corposo e raffinato, degno delle sue tracce migliori, con begli spunti di chitarra e organo. The Slight Variations (a proposito l’album è diviso in una overture, due movimenti e un epilogo, ispirato dalle Goldberg Vaariatons di J.S. Bach?) è un funky-rock carnale vagamente littlefeattiano con uso d’organo R&B, anche se non mi piace l’idea della voce filtrata e distorta, ma il produttore è lui; What Would I Not Do? è l’altro brano pop-rock dai sapori Beatlesiani, raffinato come sempre. Piacevoli anche la rockeggiante Brother’s Keeper, con le chitarre che si fanno sentire, e la West-Coastiana So The Story Goes, sempre con il lodevole lavoro delle tastiere di Crosby e delle chitarre elettriche, anche se forse manca il colpo d’ala. When The Time Is Right è il classico brano da cantautore, un folk-rock morbido che mi ha ricordato di nuovo il lavoro di James Taylor, mentre l’epilogo di Little Bird Song rimane sempre in queste atmosfere quiete e rarefatte!

Bruno Conti

C’Erano Una Volta, E Ci Sono Ancora, I Bravi Cantautori! Jaime Michaels – Once Upon A Different Time

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Jaime Michaels – Once Upon A Different Time – Appaloosa/Ird

Jaime Michaels è uno dei tanti bravi (e semisconosciuti) cantautori che popolano il sottobosco della scena indipendente “Americana”. Muove i suoi primi passi a livello musicale tanti anni fa nel Nord degli States, tra Boston e Cambridge, poi fa il bassista in una band, Beckett, che accompagna spiriti affini a livello musicale come Livingston Taylor, Doc Watson, Dave Van Ronk e Jonathan Edwards, avendo sempre Tom Rush come suo punto di riferimento assoluto, e non è una brutta scelta! Negli anni ’80, trasferitosi a vivere nel South Carolina, passa otto anni con la Truly Dangerous Swamp Band di cui poco sappiamo (ma dai video che ho visto non mi sembra un grande perdita). Agli inizi degli anni ‘90 decide di tornare alla musica acustica e roots, e dal 1997 va a vivere a Santa Fe, nel New Mexico, dove incontra una fiorente scena musicale, e inizia a fare sul serio, pubblicando ben nove dischi (che vincono vari premi locali), di cui otto prodotti dal suo grande amico Jono Manson. E qui entra in scena l’italiana Appaloosa che si offre di pubblicargli il nuovo album, Once Upon A Different Time, previsto in un primo momento per il 2015, esce in questi mesi per l’etichetta brianzola, sempre con Jono in cabina di regia (in tutti i sensi) nel suo Kitchen Sink Studio a Chupadero. Vengono radunati alcuni validi musicisti: Ben Wright, chitarre, Josh Martin e Justin Bransford, basso, Jason Crosby, piano, organo e violino (collaboratore di Bob Weir e Phil Lesh), Mark Clark, batteria e percussioni, oltre agli stessi Manson, alla chitarra solista e Michaels, a chitarre e bouzouki.

Più alcuni ospiti, i colleghi cantautori David Berkeley e Melissa Greener alle voci,, John Egenes al mandolino, Craig Dreyer al sax (uno che ha suonato con Keith Richards, Warren Haynes, James Hunter, Dana Fuchs e mille altri), Kevin Trainor alla chitarra, e anche alcuni musicisti italiani, tra cui Stefano Barotti, anche seconda voce nelle parti nella nostra lingua del brano Somewhere Like Italy, dove scopriamo che Michaels ha una bisnonna italiana (nessuno sfugge). Partiamo proprio da questo brano, un delizioso mid-tempo in ¾, dove la piacevole voce di Jaime duetta con quella tipicamente italiana di Barotti, per un brano che profuma di musica dei due mondi, intimo e raccolto, come è quasi sempre caratteristica delle canzoni dell’album- Dall’iniziale Once Upon A Different Time, con le sue acustiche in fingerpickng, un organo delicato, il bouzouki di Jaime e un banjo a colorire il suono, come pure le armonie vocali di Berkeley e della Greener, una canzone che grazie al timbro vocale di Michaels ricorda a tratti certe cose del miglior Graham Nash. Molto piacevole anche Warming, un canzone sul riscaldamento globale, che nel testo cita gli hippies, la caduta dell’Impero Ottomano, Gandhi, misti a speranze per il futuro, uno scherzo sugli ananas, il tutto con una melodia dolce ed avvolgente, che prevede anche un intervento dei fiati in puro stile New Orleans e un ritornello che rimane in testa, tra il Jimmy Buffett più intimista e di nuovo il Nash citato poc’anzi, veramente bella.

No Paddle Wheel, come scherzando dice l’autore, è stata scritta insieme al suo cane nel corso di una passeggiata mattutina e ricorda certe cose del James Taylor più scanzonato, altro musicista che si può accostare al nostro https://www.youtube.com/watch?v=RhdCqu5srqg . Crazy For Me  , di nuovo con le armonie di Greener e Berkeley, è una ballata dove spiccano il piano eletthttps://www.youtube.com/watch?v=CwBvh9kgg18rico e il violino di Jason Crosby, oltre alle onnipresenti chitarre che sono la costante del sound. A Liitle More, altra delicata folk tune arricchita da una band, è la traccia registrata in Italia con musicisti locali, a cui è stato aggiunto il lirico intervento della solista di Kevin Trainor, mentre Steal Light, un brano che nel testo prevede un dialogo tra Dio e il diavolo, è il pezzo più rock, forse una parola forte, diciamo mosso e “bluesy”, con begli interventi del piano elettrico di Crosby e della solista. Circling Around parla di alluvioni in Colorado e Texas su un ritmo più incalzante del solito, tra country e bluegrass, sempre ben suonato dagli ottimi musicisti presenti nel disco. Anche The Heat tratta di temi sociali, con protagonista un senzatetto che è una sorta di personaggio ricorrente nelle canzoni di Michaels, il tutto a tempo di valzer texano, molto bella  e con una vena malinconica, e pure la successiva Winter Song ha questa aria nostalgica per i vecchi  tempi andati, sempre con una melodia dolce ed avvolgente, semplice ma complessa al tempo stesso. E la conclusiva Singing For My Supper, a tempo di bluegrass, potrebbe essere il motto di Jaime Michaels. Sperando che la cena, e anche il pranzo, saltino fuori, possiamo aiutarlo acquistando questo onesto resoconto del suo lavoro.

Bruno Conti